L’acropoli di Atene vista dalle rovine del tempio di Zeus Olimpio
Foto: Istock/getty Images
Tra battute e invettive personali, l’assurdo e la poesia si uniscono per offrire una visione trasfigurata della realtà. Sono queste le caratteristiche della commedia attica antica, della quale Aristofane (450 ca. – 380 a.C. ca.) è il massimo rappresentante. La lettura delle sue opere giunte fino a noi (solo undici su quaranta) regala la gioia di sfuggire alla routine quotidiana per accedere a un mondo nuovo, a volte ideale, dove prevalgono la festa e l’allegria. E questo nonostante la vita del drammaturgo fosse trascorsa tra luci e ombre. L’infanzia e la giovinezza dell’autore coincisero con lo splendore politico e culturale dell’Atene classica, la cosiddetta “Età d’oro di Pericle”. Il periodo della maturità, invece, vide la sconfitta della città contro Sparta dopo 27 anni di guerra e il conseguente crollo del regime democratico. Per questo motivo la commedia di Aristofane è anche una denuncia dei difetti degli ateniesi che furono alla base di questa crisi: l’egoismo, l’avidità, la volubilità, l’indole litigiosa, la credulità alla propaganda populista e, soprattutto, la burocratizzazione dello stato dovuta alla guerra e la corruzione diffusa di cui seppero approfittare i demagoghi. Tra il 431 e il 404 a.C. la Guerra del Peloponneso, che vedeva scontrarsi Atene e Sparta, divenne un tema ineludibile per il teatro ateniese dell’epoca. E, in particolare, per Aristofane, che a soli quattro anni dall’inizio delle ostilità portò in scena la sua prima opera, I banchettanti (427 a.C.), oggi perduta.
Cratere a figure rosse che presenta la scena di una commedia che ironizza sul mito del centauro Chirone curato da Apollo
Foto: Rmn-Grand Palais
Guerra e corruzione
Allo scoppio del conflitto, Pericle consigliò alla popolazione civile di abbandonare le campagne e di rifugiarsi in città, mentre le postazioni degli spartani venivano attaccate via mare. Gli ateniesi si ritrovarono coinvolti in una lunga guerra, di cui non si intravedeva la conclusione, con migliaia di rifugiati in fuga dall’avanzata spartana e ammassati all’interno delle mura. I più colpiti da questa strategia del logoramento furono i contadini ateniesi: costretti ad abbandonare i campi e privati dei mezzi di sostentamento, assistevano impotenti alla distruzione delle loro proprietà da parte del nemico. Nel frattempo venivano gravati da tasse sempre più alte e oppressi da un clima di esacerbato bellicismo, in una città in cui si sentivano sempre in secondo piano. Fu proprio uno di questi contadini, rozzo e grossolano, il grande protagonista delle commedie composte da Aristofane per le Lenee e per le Grandi Dionisie, le feste in onore del dio del vino e del teatro. Queste ultime si svolgevano tra i mesi di marzo e aprile nel teatro di Dioniso e avevano lo scopo di mantenere la normalità ad Atene e far dimenticare le difficoltà del conflitto bellico.
Nelle prime commedie di Aristofane (Gli acarnesi, I cavalieri, Le nuvole e Le vespe, composte tra il 425 e il 422 a.C.) l’eroe comico riusciva a sovvertire lo status quo con l’ingegno e a raggiungere il grande obiettivo della pace. Grazie alla fantasia inesauribile e alle sconfinate risorse di questo personaggio, nelle sue opere Aristofane dava vita a un mondo parallelo in cui gli schiavi potevano prendersi gioco dei padroni, i mortali degli dèi e i mediocri degli intellettuali più in vista. Il commediografo mirava in questo modo a esercitare una vera e propria “giustizia popolare”, facendo sì che i suoi eroi agissero e parlassero in libertà, con la schietta franchezza caratteristica delle classi popolari. Il coro, con le sue danze e i suoi stravaganti costumi, contribuiva a creare un’atmosfera colorata e farsesca, e a volte partecipava attivamente ai piani dell’eroe. Il pubblico sugli spalti rideva di gusto alle trovate del protagonista, ma nel frattempo sbirciava i volti dei vicini di posto, bersaglio degli strali di Aristofane. Era un susseguirsi continuo di battute, spesso un po’ volgari. In questo modo Aristofane cercava di scuotere il pubblico ateniese, che si lasciava abbindolare passivamente dalle lusinghe dei suoi inutili politici, e lo metteva di fronte alle conseguenze della scelta di una classe dirigente inetta.
Ricostruzione del teatro di Dioniso, ad Atene, durante una rappresentazione nel IV secolo a.C.
Foto: Akg/Album
In seguito alla morte del generale Pericle (429 a.C.), poco dopo l’inizio della guerra, il potere fu preso d’assalto dai rappresentanti di una classe in piena espansione: quella dei mercanti e degli artigiani. Aristofane li presentava come arrivisti privi di spessore e di scrupoli, che svilivano l’intera classe politica. Le ambizioni e le manovre di questi politici litigiosi avevano prolungato le campagne belliche ben oltre quelle di Pericle. Nelle commedie di Aristofane l’eroe affronta in una disputa dialettica (agon) questi nemici della pace: i demagoghi e i loro seguaci, i sicofanti o delatori di professione, gli ambasciatori – che nel corso delle loro eterne e costose missioni diplomatiche vivevano nel lusso mentre il popolo moriva di fame «in mezzo alla spazzatura» – e i fabbricanti di armi, in connivenza con gli alti ufficiali militari. Insomma, tutti coloro che non erano disposti a rinunciare ai benefici di un conflitto bellico che andava avanti ormai da troppi anni.
Maschera della commedia ellenistica. Fitzwilliam, Cambridge
Foto: Bridgeman/Aci
Una città di creduloni
Non mancano neppure duri rimproveri a chi preferiva restare al margine di questi intrighi politici. Per Aristofane, Atene era «una città di creduloni». Criticava la passività dei suoi concittadini, riluttanti a recarsi all’assemblea, permissivi con la corruzione politica e sempre pronti a farsi incantare dalle cavillose arguzie degli avvocati nei tribunali. Aristofane esponeva queste critiche in un momento dell’opera in cui l’azione drammatica si interrompeva e dopo essersi tolti la maschera, i membri del coro si rivolgevano direttamente al pubblico. L’autore ne approfittava anche per criticare i suoi rivali, proclamando con orgoglio la superiorità della sua arte.
Quanto a me, non cerco di ingannarvi ripetendo due o tre volte lo stesso argomento, ma vi offro sempre opere nuove di mia invenzione, che non si assomigliano tra loro e sono tutte ben congegnate (tratto da Le nuvole)
Con il passare degli anni e Sparta sempre più prossima a imporsi nel conflitto, Aristofane trasferì nelle sue opere l’angoscia degli ateniesi. E così le gesta dei suoi protagonisti si fecero sempre più assurde e disperate. L’eroe lascia ormai trapelare tutto il suo disincanto: poiché si rende conto che non è possibile cambiare la realtà, si rifugia in un’utopia cui può accedere solo grazie alla sua sconfinata immaginazione. Aristofane rivelò ai suoi compatrioti che non solo gli uomini ma anche le donne erano vittime della guerra, e forse ancor più di loro, perché nel conflitto perdevano padri, fratelli, figli e mariti. Era quindi normale che pure loro anelassero alla pace. Da questa aspirazione femminile nacque il soggetto di una delle opere più note di Aristofane, Lisistrata (411 a.C.). La commedia è caratterizzata da una geniale inversione dei ruoli: le donne decidono di unirsi per occupare l’acropoli ateniese, dove è conservato il tesoro con cui viene finanziata la guerra, e di obbligare gli uomini a porre fine alle ostilità tramite uno sciopero del sesso.
Disegno dei costumi per una rappresentazione di Lisistrata del XX secolo
Foto: Fine arts Images/Age fotostock
Il mondo capovolto
Più tardi, nelle Donne al parlamento (392 a.C.), alcuni personaggi femminili, guidati da Prassagora, assumono il potere ad Atene e impongono una serie di misure di giusti zia sociale. La comicità dell’opera non fa dimenticare lo sfondo cupo della commedia: la rovina dello stato ateniese e la scomparsa della sua base sociale a causa della guerra. Aristofane offriva al pubblico di Atene – che quasi certamente era solo maschile – l’opportunità di osservare la realtà da un altro punto di vista, perché capisse chi stava pagando veramente le conseguenze delle decisioni che erano state prese.
Una città in rovina
Il disastro era inevitabile: la rappresentazione dell’opera Le rane (405 a.C.), dove Dioniso stesso si reca nell’Ade, ovvero negli inferi, era un modo per esorcizzare i fantasmi di un passato glorioso e favorire un incontro tra i vivi e coloro che erano morti a causa della guerra. Un anno più tardi, la sconfitta di Atene contro Sparta portò alla disillusione politica, con tutte le sue conseguenze: la demoralizzazione, l’astensionismo o, in alternativa, la fuga nei piaceri semplici della vita quotidiana. In Pluto(388 a.C.), l’ultima commedia di Aristofane giunta fino ai nostri giorni (dove quasi non compare il coro), questo messaggio è molto chiaro: Cremilo, un anziano ateniese povero ma onesto, riesce a far recuperare la vista a Pluto, il dio della fortuna, consentendogli di ridistribuire le sue ricchezze in un modo più giusto ed equo.
In epoca ellenistica gli attori indossavano maschere simili a quelle in questa foto
Foto: Dea/Scala, Firenze
L’opera costituisce una critica alla ricchezza accumulatasi nelle mani di pochi in seguito allo sfaldamento politico del dopoguerra nonché alla meschina ambizione delle classi agiate che minava le fondamenta della società. Aristofane sognava un ritorno all’aurea moderazione di un tempo, quando l’onestà e l’operosità erano le uniche vie per la felicità. Il commediografo rese i suoi concittadini protagonisti di opere che scandagliavano le miserie della polis ateniese del V secolo a.C., miserie che poi venivano esposte all’opinione pubblica con gran disinvoltura. Ma queste rappresentazioni teatrali, disseminate di invettive personali con un carattere specificamente politico e polemico, si spingono oltre la semplice farsa di schiavi, vecchiette litigiose e volgari ballerine. L’originalità dell’arte di Aristofane sta nel coniugare la comicità, il meccanismo scenico, la satira e il cabaret politico nel contesto rituale di una festa religiosa. Per questa ragione accanto al grottesco e alla volgarità si trovano anche manifestazioni di profonda devozione e di elevato lirismo. E sotto quest’apparenza brillante e allegra, torna inesorabile tutta la tragedia umana che la Guerra del Peloponneso comportò per Atene.