Grazia Deledda: scrittrice (quasi) per istinto

Autrice dal carattere indipendente e fedele alla sua terra, la Sardegna, è stata l’unica donna italiana a vincere il premio Nobel per la Letteratura. Lo fece nel 1927

«Se io conto qualcosa nella letteratura italiana, lo devo tutto alla mia isola santa», scrisse Grazia Deledda

«Se io conto qualcosa nella letteratura italiana, lo devo tutto alla mia isola santa», scrisse Grazia Deledda

Foto: Bridgeman / Aci

   

Sono piccina piccina, sa, sono piccola anche in confronto delle donne sarde, ma sono ardita e coraggiosa come un gigante». Così scriveva di sé Grazia Maria Cosima Damiana Deledda, prima e unica donna italiana a vincere il premio Nobel per la letteratura, nel 1927.

Era nata a Nuoro il 27 settembre 1871. Quinta di sette fratelli e sorelle, era figlia di Giovanni Antonio Deledda e di Francesca Cambosu. Suo padre, laureato in legge, non esercitava la professione di avvocato: si dedicava al commercio e all’agricoltura e componeva poemi in lingua sarda. Grazia fu educata dalla madre, casalinga, e frequentò le scuole fino alla quarta elementare. A partire da quel momento continuò la sua istruzione in casa, dove ricevette nozioni di latino, francese e italiano. Fervente appassionata della lettura, divorava libri di ogni tipo e ascoltava con gli occhi sgranati gli amici di famiglia, i pastori e gli agricoltori che frequentavano la sua casa mentre raccontavano storie sui briganti e sulla giustizia, leggende e miti di un tempo quasi scomparso. Come lei stessa scrive in Cosima, libro autobiografico pubblicato incompleto dopo la sua morte, questa fu per lei la prima vera scuola di letteratura.

Da bambina Grazia accompagnava anche spesso il fratello Andrea in lunghe passeggiate a cavallo, alla scoperta della sua terra della quale, a soli tredici anni, iniziò a raccontare tutti i dettagli in una prosa morbida e profonda allo stesso tempo. L’isola di Grazia Deledda è racchiusa nella maggior parte delle sue opere. I suoi personaggi ne incarnano le qualità, la natura ne è la protagonista. Come la stessa Deledda scrive in un momento di desolazione, la natura era l’unica amica fedele che le era rimasta. Le sue descrizioni dei paesaggi, dei luoghi che l’hanno resa scrittrice, dei profumi, della luce, della cultura della Sardegna sono un tributo a una terra dura e amara, che per lei fu casa. «Cominciai a scrivere così, quasi per istinto. Come l’uccello comincia a cantare, come la farfalla vola, come la sorgente sgorga». La sua lingua materna era il sardo, represso in quel periodo storico per promuovere l’italiano. Deledda scelse di utilizzare parole sarde coscientemente, per trasmettere la durezza, la caparbietà, il sentimento terroso che è l’identità stessa della sua terra.

Le storie sui briganti e sulla giustizia, le leggende e i miti furono la sua prima scuola di letteratura

Nelle parole della stessa scrittrice, quelli furono anni di felicità e scoperte. Presto però, Deledda conobbe anche il dolore. La sorella maggiore, Giovanna, morì di febbre. Il primogenito della famiglia, Santus, divenne un alcolista mentre il suo amatissimo fratello Andrea, poco incline allo studio, iniziò a rubacchiare qui e là, coprendo di vergogna il padre e tutta la famiglia. A soli sedici anni, Grazia raccolse il coraggio per rubare un po’ d’olio dal frantoio di famiglia, rivenderlo e finanziare la spedizione a Roma di alcuni suoi scritti.

La strada verso la fama

Con suo grande stupore, nel 1888 i racconti comparvero su L’ultima Moda, una rivista di costume che successivamente pubblicò a puntate il romanzo Memorie di Fernanda. Quando Deledda ricevette l’esemplare della rivista e vide il suo nome stampato in alto, si sentì quasi svenire. Il sentiero di una lunga e proficua carriera era tracciato e lei sapeva di avere tutte le qualità per diventare una grande scrittrice, tutte tranne una: era una donna. I brusii di dissenso del paese e della famiglia nei suoi confronti la frastornavano. Aveva 17 anni quando il prete Virdis, durante un’omelia, puntò pubblicamente il dito contro di lei consigliandole di pregare, piuttosto che «scrivere per i giornali storie scostumate».

Targa in onore della scrittrice Grazia Deledda a Nuoro

Targa in onore della scrittrice Grazia Deledda a Nuoro

Foto: Alamy / Aci

Nonostante gran parte del suo paese la riprovasse, Grazia fu sempre molto legata alle sue origini. L’amore per la sua terra, per la cultura e le storie del suo popolo isolano la spinsero a pubblicare, fra il 1893 e il 1895, varie puntate del saggio Tradizioni Popolari di Nuoro in Sardegna. Deledda scrisse di Nuoro e delle sue tradizioni, raccontò «dell’isola nell’isola», come le piaceva definire la sua città, grazie all’appoggio di Angelo de Gubernatis, direttore della Rivista delle tradizioni popolari italiane, dove venne pubblicato il saggio. L’introduzione del libro rimanda a Tolstoj, primo segnale dell’amore di Grazia per la letteratura russa, a cui in futuro verranno accostate le sue opere.

Segnata dalla morte del padre per una crisi cardiaca, avvenuta nel 1892, e della sorella Vincenza a causa di un aborto quattro anni dopo, Grazia dovette affrontare un ulteriore scoglio. I suoi tentativi letterari, infatti, facevano male a sua madre, la quale veniva aizzata da tutto il paese, che vedeva appunto nella scelta di Grazia di scrivere un comportamento «poco decoroso per una signorina». Ma forse proprio da quella donna severa che era la madre la scrittrice ereditò la forza e la determinazione che la contraddistinsero durante tutta la sua vita. La giovane era decisa a non aspettarsi nulla da nessuno, fuorché da sé stessa.

In quell’epoca si innamorò dell’amico di suo fratello Santus, Antonio Pau, «un bellissimo giovane bruno dall’aria un po’ beffarda» che lei osservava di nascosto. Era un amore da bambina, che si affievolì con il passare del tempo lasciando spazio a Fortunio. Definito storpio in Cosima (probabilmente in realtà era guercio), figlio illegittimo di un cancelliere, ma poeta, fu il suo primo amore fisico: con lui la donna scoprì i primi baci rubati, benché il giovane non la attirasse particolarmente.

Francobollo commemorativo del 100° anniversario della nascita di Grazia Deledda

Francobollo commemorativo del 100° anniversario della nascita di Grazia Deledda

Foto: Alamy / Aci

Ma l’amore che la segnò più profondamente fu uno non corrisposto. Nel settembre del 1891 Deledda ricevette una lettera in cui il giornalista romano Stanis Manca la informava di volersi recare a Nuoro per intervistarla. Grazia scambiò la cortesia di queste poche righe per un’attrazione, della quale si convinse ancora di più dopo l’intervista. La corrispondenza con il giornalista invece si affievolì fino a sparire, gettando la scrittrice in un baratro di lettere a senso unico in cui lei cercava disperatamente di ridestare l’attenzione di lui. Manca, finalmente, rispose stroncando in malo modo tutte le illusioni della giovane.

Per qualche anno Grazia continuò a scrivere in segreto, ma il suo successo era ormai inarrestabile. Riceveva decine di lettere, che aspettava timorosa e palpitante. In una delle missive un’ammiratrice la invitò a trascorrere qualche giorno a Cagliari. Fu proprio durante questo viaggio che la scrittrice conobbe, il 22 ottobre 1899, Palmiro Madesani, un funzionario del ministero delle finanze. L’11 gennaio 1900 la coppia contrasse matrimonio a Nuoro e si trasferì a Roma, dove nacquero due figli: Franz e Santus.

A passeggio con la famiglia: Deledda, suo marito Palmiro Madesani e i loro figli in vacanza

A passeggio con la famiglia: Deledda, suo marito Palmiro Madesani e i loro figli in vacanza

Foto: Mondadori / Age Fotostock

Successo inarrestabile

La pubblicazione, nel 1903, di Elias Portolu la confermò come scrittrice di fama internazionale. Cenere, pubblicato come romanzo unico l’anno seguente, venne apprezzato, tra gli altri, da Giovanni Verga e nel 1916 se ne fece un film. Seguirono titoli come L’Edera, Colombi e sparvieri e Canne al vento, che la consacrarono definitivamente. In Canne al vento, la sua opera più conosciuta, i grandi temi da lei trattati convergono tutti: la colpa, il non poter sfuggire al destino, insieme a un altro elemento comune, ovvero l’assenza di personaggi buoni e cattivi. La scrittrice li paragona tutti a delle canne, che a ogni soffio di vento si piegano e sbattono l’una contro l’altra.

In quegli anni il marito lasciò il suo impiego di funzionario pubblico per diventare il suo agente letterario e cavalcare con lei l’onda del successo. Nonostante gli intellettuali dell’epoca la definissero, con sessismo, «la massaia della letteratura», la sua prosa scorrevole e forte si fece spazio nel panorama internazionale. I suoi personaggi, a volte duri come le donne della sua terra, a volte contorti, piegati, ma non per questo rotti, come gli uomini della sua vita, le valsero nel 1927 il premio Nobel per la letteratura del 1926. L’anno precedente il premio non era stato infatti assegnato per mancanza di candidati che rispondessero ai requisiti. Il riconoscimento le venne conferito il 10 dicembre 1927.

La scrittrice Grazia Deledda durante la cerimonia di assegnazione del premio Nobel per la Letteratura

La scrittrice Grazia Deledda durante la cerimonia di assegnazione del premio Nobel per la Letteratura

Foto: Bruni Archive / Age Fotostock

Dall’assegnazione del primo premio Nobel per la Letteratura, nel 1901, sono stati conferiti 125 premi. Di questi, solamente 14 sono andati a scrittrici. Grazia Deledda fu la seconda donna della storia a riceverlo, preceduta solo da Selma Ottilia Lovisa Lagerlöf, svedese, insignita del Nobel nel 1909. Dei sei italiani fino a oggi premiati solamente Giosuè Carducci, che ricevette il Nobel nel 1906, precede Deledda. Nelle ragioni della scelta la giuria sottolineava «la sua potenza di scrittrice […] che con profondità e con calore tratta problemi di generale interesse umano». Grazia Deledda morì a Roma il 15 o il 16 agosto del 1936 per un cancro al seno. Le sue spoglie riposano nella chiesa della Madonna della Solitudine, ai piedi del monte Ortobene, a Nuoro.

Al momento della consegna del Nobel, la scrittrice affermò: «Sono nata in Sardegna, la mia famiglia composta da gente savia ma anche di violenti e di artisti produttivi […] Ma quando cominciai a scrivere, a 13 anni, fui contrariata dai miei. Il filosofo ammonisce: se tuo figlio scrive versi, correggilo e mandalo per la strada dei monti. Se lo trovi nella poesia la seconda volta, puniscilo ancora. Se va per la terza volta, lascialo in pace perché è poeta. Senza vanità, anche a me è capitato così».

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