Durante il ventennio fascista molti italiani avrebbero accolto con soddisfazione l’assassino del duce Benito Mussolini. Molti altri ne sarebbero rimasti sinceramente affranti, ma solo in pochi – due uomini, una donna e un ragazzo – ebbero l’ardire di tentare l’impossibile: eliminare il duce, fondatore e capo del fascismo. Un veterano della Prima guerra mondiale e deputato socialista, una lady irlandese il cui petto ardeva di misticismo, un impavido anarchico già noto alla polizia e un ragazzino bolognese di soli sedici anni dal 4 novembre 1925 al 31 ottobre 1926 attentarono alla vita del presidente del consiglio del regno d’Italia Benito Mussolini. Poi tra il 1931 e il 1932 ci furono i tentativi anch’essi fallimentari degli anarchici Michele Schirru e Angelo Pellegrino Sbardellotto, condannati a morte per fucilazione dal Tribunale Speciale. I loro nomi e le loro figure si perdono negli anfratti della storia, perché l’atto estremo che provarono a mettere in pratica – l’omicidio politico o, in altri termini, il tirannicidio – per una qualche ragione non andò a buon fine. Se uno di loro fosse riuscito nell’intento che si era prefissato, il suo nome avrebbe fatto uno scatto di notorietà, al pari di quelli di Sante Caserio, Luigi Lucheni e Gaetano Bresci rispettivamente attentatori del presidente della repubblica francese Sadi Carnot (1894), di Elisabetta di Baviera detta “Sissi” (1898) e del re d’Italia Umberto I (1900).

Poche ore dopo l'attentato alla sua vita del 7 aprile 1926, Benito Mussolini, con un cerotto sul naso, tenne un discorso dal balcone di Palazzo Chigi davanti a una folla festante
Foto: ©2004 Topfoto
Tuttavia molti storici sono concordi nell’affermare che fra il 1925 e il 1926 gli attentati falliti ai danni del duce contribuirono a fomentare l’ala destra del partito nazionale fascista che spingeva verso una svolta in senso totalitario. Tramite una serie di misure d’emergenza tra cui l’abolizione di tutti i partiti politici eccetto il PNF, la chiusura dei giornali indipendenti, l’istituzione di una nuova polizia politica e di un tribunale rivoluzionario speciale e infine la reintroduzione della pena di morte nel 1926, l’Italia si apprestava a diventare una dittatura. Gli attentati affrettarono tale deriva. Se in passato si tendeva a tener segreti oppure a rintuzzare la portata degli attentati alla vita di primi ministri e altre istituzioni, secondo lo storico Denis Mack Smith a quelli del 1925-1926 «fu data larga pubblicità, e ne fu fatto un uso efficacissimo per attirare simpatie e adesioni».
La creazione e il mantenimento del consenso richiedevano astuzia e cinismo e, in tal senso, si diffusero voci sull’utilizzazione di provocatori da parte del duce per sfruttare i vantaggi pubblicitari connessi a un attentato sventato alla sua vita. Il duce degli italiani e l’uomo forte del fascismo, non poteva non uscire indenne e la sua figura fortificata. Eppure nell’estate del 1910 sulla rivista Lotta di classe Mussolini, all’epoca segretario della federazione socialista di Forlì, sposava le ragioni di quelli che sarebbero stati i suoi futuri assalitori: «Non mettiamoci, giudicando questi uomini e gli atti da loro compiuti, sullo stesso piano della mentalità borghese e poliziesca… Riconosciamo invece che anche gli atti individuali hanno il loro valore e qualche volta segnano l’inizio di profonde trasformazioni sociali». Pur sostenendo che «le bombe non possono costituire, in tempi normali, un mezzo d’azione socialista» l’infervorato militante era convinto che «quando un governo – repubblicano o imperiale o borbonico – imbavaglia e vi getta fuori dall’umanità, oh! Allora non bisogna imprecare alla violenza, anche se fa qualche vittima innocente».
Il piccolo borghese
«Un gesto simbolico di piccola borghesia disingannata e disperata. Il piccolo borghese che è stato sinceramente antifascista, tradito in tutte le sue aspettazioni, aspira al gesto come ad una liberazione». In questi termini Palmiro Togliatti, segretario del partito comunista italiano, avrebbe definito nel 1931 su Stato Operaio il proposito di Tito Zaniboni, ex ufficiale pluridecorato della Prima guerra mondiale, appartenente alla massoneria e che aveva fatto carriera nel partito socialista fino all’elezione nel 1921 a deputato per la circoscrizione Udine-Belluno. Alle prime ore del mattino del 4 novembre 1925 Tito prese una camera nell’albergo Dragoni, di fronte a palazzo Chigi a Roma. Da una finestra avrebbe potuto senza troppa difficoltà far fuoco con un fucile di precisione verso il balcone dal quale Benito Mussolini si sarebbe affacciato da lì a poche ore. Ma mentre l’attentatore era intento a prepararsi un gruppo di investigatori irruppe nella stanza d’albergo e lo arrestò.

Tito Zaniboni nel 1925
Foto: Pubblico dominio
Zaniboni fu incarcerato, processato nella primavera del 1927 e condannato a trent’anni di reclusione per alto tradimento. Con l’armistizio, nel 1943, Zaniboni tornò libero ed ebbe l’incarico di alto commissario per l’epurazione dal fascismo. Quanto all’attentato fallito, si profilò l’ipotesi che un provocatore vicino alla polizia avesse incoraggiato e aiutato Zaniboni nel suo proposito allo scopo di dimostrare al duce la propria fedeltà ed efficienza. Ma lo storico Mack Smith è andato oltre: «Zaniboni fu certamente incoraggiato da un provocatore, e di nuovo l’occasione fu utilizzata per attaccare immaginari istigatori stranieri. Nel quadro di una campagna antimassonica, un uomo quasi certamente innocente, il generale Capello, fu condannato per complicità […] al solito la cosa fu presa a pretesto per perseguitare alcuni dei principali fogli indipendenti».
Lady Violet
«Dall’arma nella sua mano scaturì uno scoppio e il dittatore tremò mentre il sangue gli zampillava dal naso. La donna puntò la pistola per sparare ancora. Era vicina e da quella distanza era difficile che sbagliasse mira, ma quando premette il grilletto la pallottola non partì. Ormai era troppo tardi per disinceppare l’arma e sparare ancora: la folla isterica si era scagliata contro di lei strappandole vesti e capelli, poi robusti poliziotti l’avevano atterrata brutalmente». Così lo studioso statunitense Richard Oliver Collin descrive l’attimo in cui il 7 aprile 1926 un’esile signora di mezza età, dall’aspetto fragile e indifeso sparò in volto a Benito Mussolini mentre questi lasciava il Campidoglio, a Roma, acclamato dalla folla al termine di un convegno di chirurgia. Violet Albina Gibson era la figlia di un nobile angloirlandese, pari d’Inghilterra e frequentatore di Buckingam Palace. Infatuata di misticismo a sfondo cattolico o, secondo alcuni, «non del tutto in senno» per via di gravi problemi di salute che la costrinsero a vari ricoveri, Violet decise di armarsi contro il primo ministro italiano.

Violet Albina Gibson attentò alla vita di Benito Mussolini il 7 aprile 1926
Foto: ©2001 Topham Picturepoint
Secondo Collin fu colpita oltremodo dagli omicidi di marca fascista di don Giovanni Minzoni (1923) e Giacomo Matteotti (1924) ma in generale dalla politica di forza bruta e dalla violenza che aveva attanagliato il Paese. Lo studioso afferma che dopo l’attentato, durante un periodo di ricovero nel manicomio di Sant’Onofrio, Violet avrebbe dichiarato che «l’esistenza di Mussolini è contraria al volere di Dio». Nonostante le ipotesi di un possibile complotto antifascista che avrebbe armato la mano di lady Violet, la donna comparì dinanzi al Tribunale Speciale che decise di assolverla per infermità mentale. Espulsa dal Paese, fece ritorno scortata in Inghilterra dove per lei si spalancarono le porte della clinica psichiatrica St Andrew's Hospital a Northampton. Qui si spense – provando più volte a riottenere la libertà – nel 1956. Nel 1947 scrisse un’accorata lettera alla principessa e futura regina Elisabetta I: «Nel 1926 sparai a Mussolini e fui rinchiusa in questo ospedale per compiacere a Sua Maestà […] Non dovete temere che io tenti ancora di sparare a qualcuno, poiché sono vecchia e malata e impegnata in attività molto tranquille, soprattutto preghiere». Ma Elisabetta non avrebbe mai ricevuto la lettera in cui Violet invocava la grazia, probabilmente perché recava una nota di accompagnamento su cui stava scritto che «il mittente è malato di mente».
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Gino l'anarchico
Anche in seno al proletariato italiano spuntavano i possibili attentatori del duce. Erano «difensori arditi», «vindici», «giustizieri», convinti assertori della «azione diretta», cioè di una risposta mirata e violenta al fascismo. Secondo questi «spettri macabri del momento estremo» c’era solo una soluzione alla tirannide fascista: «Senza despota non c’è dispotismo: se si stronca il tiranno, la tirannide finisce», scrive il giornalista e studioso Giuseppe Fiori. Uno degli attentatori era Gino Lucetti, un manovale marmista ventiseienne originario della Garfagnana e di fede anarchica che provò a stroncare la vita di Benito Mussolini.

La vettura su cui viaggiava Mussolini il giorno dell'attentato. La freccia indica il punto preciso in cui la bomba rimbalzò per poi ricadere al suolo
Foto: Pubblico dominio
L’11 settembre 1926 Lucetti attendeva tra la Nomentana e il piazzale di Porta Pia il passaggio della vettura del duce. Arrivato dalla Francia pochi mesi prima, era disoccupato e per le sue idee anarchiche era schedato come sovversivo e dunque considerato un potenziale delinquente. Sempre secondo il racconto di Fiori, quel giorno «l’auto del duce viene dalla Nomentana… s’avvicina… Lucetti aspetta che sia a portata di lancio… è freddo, con forza scaglia una bomba a mano. Ha mirato giusto. La bomba sbatte contro la parte superiore dello sportello di destra. Ma scoppia solo dopo essere caduta a terra, e la macchina è distante già alcuni metri. Mussolini ne esce incolume, le schegge feriscono otto passanti. E la folla si accanisce contro l’attentatore». Nel 1927 Lucetti venne condannato dal Tribunale Speciale a trent’anni di carcere. Liberato dagli alleati nel 1943 morì durante un bombardamento nazista nei pressi di Ischia.
Anteo il ragazzo
«Se tu vedessi, babbo, che faccia da delinquente ha Mussolini» confidò il sedicenne Anteo Zamboni al padre Mammolo, tipografo bolognese d’idee antifasciste: «Sì Anteo, volle attentare a Mussolini. E noi non ne sapemmo nulla, perché egli seppe non farci sospettare, seppe non farci sapere», scrive Mammolo Zamboni, padre di Anteo. Il 31 ottobre 1926, quarto anniversario della marcia su Roma, Mussolini si trovava a Bologna per una serie d’inaugurazioni e poco prima delle 18 si apprestava a raggiungere, a bordo di un’Alfa Romeo scoperta guidata dal gerarca bolognese Arpinati, la stazione ferroviaria per far ritorno a Roma. Tra via Rizzoli e via Indipendenza ci fu «uno sparo. Il colpo lacera la sciarpa mauriziana e la giubba di Mussolini, poi buca il polsino della camicia nera del podestà di Bologna. Sul marciapiede a destra dell’auto, il subbuglio. Novanta secondi dopo lo sparo, giace con quattordici pugnalate, segni di strangolamento e un colpo di pistola, un ragazzo esile, slanciato, i capelli biondicci. Ha sedici anni, si chiama Anteo Zamboni, tipografo…».

Anteo Zamboni cercò di «liberare l’Italia dalla tirannia dell’uomo nefasto». Nell'immagine, un ritratto di Anteo all'età di circa sette anni
Foto: Pubblico dominio
Il quarto tentativo di uccidere il duce divenne la giustificazione per l’instaurazione di una dittatura fascista. Si addensarono persino i sospetti mai provati che alcuni esponenti fascisti avessero progettato di uccidere il duce cercando poi un capro espiatorio. Secondo Mack Smith «ragioni di stato indussero dunque Mussolini ad impartire istruzioni alla magistratura perché fossero inflitte pesanti pene detentive a due familiari del ragazzo in quanto complici dell’attentato, benché la polizia non fosse per nulla persuasa della loro colpevolezza». Mammolo Zamboni, padre di Anteo, e la zia Virginia Tabarroni, furono condannati dal Tribunale Speciale a trent’anni di prigione per aver condizionato il giovane Anteo. Ricevettero la grazia nel 1932. Durante il processo Mammolo sostenne l’innocenza del figlio e l’estraneità sua e della cognata Virginia per convenienza, cioè perché «non si poteva dire allora che la condanna fu conseguenza di un ordine di Mussolini» e dunque un errore giudiziario. Ma nel secondo dopoguerra il padre addolorato fu libero di scrivere che «egli [Anteo] andò incontro al martirio e alla morte con la ferma volontà di liberare l’Italia dalla tirannia dell’uomo nefasto».
Per saperne di più:
Mussolini. Denis Mack Smith, Rizzoli, Milano, 1981.
La donna che sparò a Mussolini. Richard Oliver Collin, Rusconi, Milano 1988.
Anteo Zamboni. Nel ventennale del suo olocausto. Mammolo Zamboni Editore, Bologna, 1946.
Vita e morte di Michele Schirru. Giuseppe Fiori, Laterza, Roma-Bari, 1990.
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