Ambizioso rampollo di una famiglia della più illustre nobiltà romana, Gaio Giulio Cesare fu protagonista di una spettacolare ascesa politica a Roma, che lo portò nel 59 a.C. al ricoprire la massima carica della repubblica, quella di console. A 42 anni aveva dimostrato la sua abilità negli intrighi, la sua popolarità tra il popolo e, come propretore nella Hispania Ulterior, le sue doti di amministratore. Tuttavia, per essere all’altezza dei suoi rivali dell’aristocrazia romana, in particolare di Pompeo, gli mancava un trionfo militare indiscutibile. Con questo obiettivo in mente – ma anche con quello di accrescere la sua fortuna personale con un sostanzioso bottino –, riuscì a farsi nominare governatore della Gallia Cisalpina, carica che gli dava il comando di quattro legioni e la possibilità di intraprendere una campagna di conquista contro i popoli che abitavano la Gallia libera, un’altra provincia che gli fu attribuita.

Statua di Giulio Cesare di Nicolas Coustou. XVIII secolo
Foto: White Images / Scala, Firenze
All’inizio di marzo del 58 a.C., Cesare occupò la sua nuova carica. Nel corso degli otto anni successivi, con una serie di audaci campagne, sottomise al dominio romano buona parte dei territori che oggi corrispondono a Francia e Belgio, e fece anche qualche incursione in Britannia e Germania. Al termine del suo mandato, Cesare aveva esteso le frontiere della repubblica romana fino all’Europa centrale ed era diventato uno degli uomini più ricchi e potenti di Roma. Tuttavia, la guerra di Gallia non fu una passeggiata per Cesare e le sue truppe, poiché i galli opposero una feroce resistenza e sconfissero i romani in diverse occasioni. La lotta contro i galli rappresentò un’enorme sfida militare che rese evidente il motivo per cui l’esercito romano fu il più potente ed efficace dell’antichità.
Leader carismatico
La leadership dello stesso Giulio Cesare fu una delle chiavi del trionfo romano in Gallia. Lo stile di comando di Cesare si può riassumere in tre parole: aggressività, velocità e rischio. Nel mondo antico, i generali romani godevano di una meritata fama di essere combattivi, ma persino tra di essi Cesare spicca come un comandante estremamente aggressivo. Il suo metodo nelle operazioni militari era sempre lo stesso: andare incontro all’esercito nemico e distruggerlo. Che fossero gli elvezi in cerca di nuove terre, i germani del re Ariovisto che cercavano di stabilirsi in Gallia o il gallo ribelle Vercingetorige, Cesare riuscì a metterli alle corde e a sconfiggerli.

Legionari romani nella formazione 'fastigiata testudo'. Colonna Traiana. Museo della civiltà romana, Roma
Foto: Bridgeman / Aci
Un altro elemento fondamentale dello stile cesariano di fare la guerra era la velocità. Nel caso della guerra gallica, la sua abilità nel muovere l’esercito con grande rapidità ebbe un’importanza particolare, giacché gli permise di compensare il suo principale punto debole, ossia il fatto di essere in netta inferiorità numerica rispetto agli avversari. Un esempio eccellente è dato dalla campagna del 57 a.C. contro i popoli belgi. Quando i romani si scontrarono nei pressi di Bibracte con un enorme contingente di tribù belghe, Cesare rifiutò per vari giorni di dare il via a una battaglia campale contro i nemici, sapendo bene che essi non sarebbero potuti rimanere per molto tempo sul posto, data la loro incapacità di garantirsi il rifornimento di viveri. In effetti, quando le tribù si dispersero per fare ritorno alle loro basi, Cesare agì rapido e guidò l’esercito dapprima contro la capitale dei suessioni e poi contro quella dei bellovaci, fino alla resa di entrambe le popolazioni. Subito dopo invase il territorio dei nervi e, nonostante un loro attacco a sorpresa, li sconfisse sul fiume Sabis. In questo modo, combinando velocità e aggressività, Cesare, con un esercito di 40.000 soldati, riuscì a sconfiggere una coalizione che contava quasi 300.000 guerrieri.
Cesare, inoltre, decise spesso di correre dei rischi che per altri generali sarebbero stati inaccettabili. Non v’è dubbio che molti di questi rischi fossero perfettamente calcolati, come dimostra il fatto che Cesare non subì mai una sconfitta clamorosa. In qualche occasione, però, sfiorò il disastro. Tra il 55 e il 54 a.C. condusse parte del suo esercito in due diverse spedizioni verso l’isola della Britannia. Impegnato ad accrescere la sua fama a Roma, Cesare trascurò la preparazione dell’invasione e sottovalutò il pericolo rappresentato dalle frequenti tormente estive nel canale della Manica. In entrambe le occasioni perse parte della flotta e fu sul punto di rimanere bloccato in Britannia, ma la sorte non gli voltò le spalle e lui poté tornare sul continente con la maggior parte del suo esercito.

La guerra in Gallia portò alla sottomissione di tutto questo territorio. Il ponte sul fiume Gard fu eretto per volere di Agrippa nel I secolo a.C.
Foto: Christian Guy / Gtres
Fortunatamente per Cesare, non dovette mai affrontare tutti i Galli in blocco, poiché questi erano divisi in oltre quaranta popoli diversi. In fin dei conti, la vita politica dei popoli della Gallia, con diverse fazioni di nobili che lottavano ferocemente tra loro per il potere e il prestigio, non era molto diversa da quella di Roma, e Cesare ricorse alla propria esperienza per sfruttare queste divisioni.
Un esercito disciplinato
Cesare sapeva che il risultato finale delle sue campagne dipendeva dalle sue truppe. Per questo fu quello che oggi definiremmo un eccellente motivatore, capace di far sì che i suoi uomini si dedicassero anima e corpo a qualsiasi impegno, che fosse una marcia, un assedio o una battaglia.
L’esercito romano dell’epoca era figlio delle riforme apportate mezzo secolo prima dal console Gaio Mario – parente di Cesare per aver sposato sua zia Giulia Maggiore –, che ne avevano fatto una forza formata praticamente da professionisti. Di conseguenza, i soldati romani erano sottoposti a una disciplina molto dura. La storia del console Tito Manlio Torquato, che più di tre secoli prima aveva fatto giustiziare il suo stesso figlio per aver abbandonato la formazione per affrontare in un combattimento personale il campione di un esercito nemico probabilmente era falsa, ma i legionari di Cesare la conoscevano e ci credevano. Può darsi che, individualmente, i soldati romani non fossero più valorosi o più forti dei loro avversari galli, ma dal punto di vista collettivo erano più disciplinati. Per questo le unità romane erano più efficaci di quelle galliche in combattimento e, soprattutto, erano di gran lunga più capaci di superare situazioni avverse.

Vercingetorige. Dipinto di François-Émile Ehrmann. XIX secolo. Museo Bargoin, Clermont Ferrand
Foto: Roger-Viollet / Cordon Press
Forse l’esempio più chiaro ci è dato dalla battaglia del fiume Sabis, nel 57 a.C. In quell’occasione i belgi sorpresero i romani mentre questi costruivano un accampamento fortificato. L’attacco prese alla sprovvista i legionari, ma la loro professionalità e il loro addestramento li misero in condizione di superare l’emergenza. Cesare diede ordine alle sue truppe di formare una linea di battaglia, cosa che dovettero fare nei pochi minuti che furono necessari ai belgi per attraversare il fiume Sabis. I legionari dovettero mettersi in formazione lì dove si trovavano, raggruppandosi attorno ai centurioni e agli stendardi più vicini. L’esito fu una schiacciante vittoria romana.
I galli diedero prova in ogni momento di straordinario coraggio, come dimostra un episodio che ebbe luogo durante l’assedio di Avarico (Avaricum), la capitale dei biturigi. I romani avevano costruito una rampa grazie alla quale era stato loro possibile avvicinare le torri d’assalto alle mura della città. I difensori galli dovevano distruggerla, o la città sarebbe stata perduta; un guerriero tentò di incendiarla, ma fu abbattuto dal proiettile di uno scorpione, una piccola catapulta utilizzata dai romani. Tre guerrieri, uno dopo l’altro, presero il suo posto, e tutti morirono nel tentativo. Nonostante questi atti di coraggio individuale, però, le unità galliche mancavano del grado di coesione interna e della disciplina che avevano invece le unità romane, e per questo furono sconfitte in gran parte delle battaglie campali.

I guerrieri galli si proteggevano con scudi di legno rivestiti di pelle ed erano armati di spade, giavellotti, archi e frecce. In basso, guerriero gallo. I secolo a.C. Museo della Civiltà Romana, Roma
Foto: Leemage / Prisma Archivio
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Il coraggio dei centurioni
Coloro che in ultima istanza garantivano la coesione delle legioni erano i centurioni. Ogni legione contava sessanta di questi ufficiali, al comando di una centuria di ottanta uomini. Da loro ci si aspettava che in combattimento dessero prova di coraggio e di sprezzo della morte davanti ai loro uomini, ed evidentemente spesso si comportarono in questo modo, a giudicare dal numero elevato di perdite subite in alcune battaglie. Uno dei casi più estremi di cui siamo a conoscenza ebbe luogo proprio durante la campagna di Cesare in Gallia nel 52 a.C. Contando i loro morti dopo un fallito assalto a Gergovia, la capitale degli arverni, i romani si resero conto di aver perso quasi 700 legionari e 46 centurioni, il che equivale a dire che i legionari avevano subito il 14 per cento di perdite a fronte del 76 per cento dei centurioni.
Il De bello gallico, l’opera scritta dallo stesso Cesare per celebrare le proprie conquiste in Gallia, abbonda di episodi di eroismo i cui protagonisti sono i centurioni. Per esempio, Publio Sestio, nonostante fosse malato e digiuno da vari giorni, si riunì con altri centurioni davanti alla porta di un accampamento per il tempo sufficiente a organizzare la difesa, lottando fino a perdere conoscenza per le gravi ferite riportate. Marco Petronio, nel fallito attacco alla città di Gergovia, morì mentre proteggeva la ritirata dei suoi uomini, che si salvarono grazie al suo sacrificio.

Consapevole dell’impossibilità di resistere all’assedio romano, Vercingetorige si arrese a Giulio Cesare. Dipinto di Lionel Royer. 1899. Museo Crozatier, Puy-en-Velay
Foto: Bridgeman / Aci
Il caso più rilevante, però, è quello riguardante i centurioni Tito Pullone e Lucio Voreno. Cesare li presenta come due ufficiali continuamente in competizione per dimostrare davanti all’esercito il proprio coraggio. Il culmine della loro sfida personale fu raggiunto nell’inverno del 54 a.C., quando i due facevano parte della legione che fu assediata nell’accampamento dai nervi. Nel corso di un attacco sferrato alla base romana, il centurione Tito Pullone uscì dall’accampamento e affrontò da solo un gruppo di guerrieri nervi, seguito subito dopo da Lucio Voreno. In una lotta accanita, i due centurioni si salvarono reciprocamente la vita e riuscirono a fare ritorno all’accampamento romano senza che, per usare le parole di Cesare, «si potesse decidere quale dei due dovesse essere preferito per il proprio valore».
Maestri nella guerra d’assedio
Anche la superiorità tecnologica ebbe un ruolo determinante per la vittoria finale dei romani, in particolare per quanto riguarda la conquista delle città. La scienza militare romana dell’epoca conosceva un grande numero di tattiche e macchine d’assedio che si potevano utilizzare nell’assalto alle fortezze, come torri mobili, artiglieria e arieti. In precedenza, i soldati realizzavano immense opere di circonvallazione per porre in isolamento le città attaccate, un lavoro per il quale erano particolarmente allenati per via della loro abitudine a costruire accampamenti fortificati in territorio nemico.

Ricostruzione dell'assedio romano di Avaricum
Foto: Adam Hook / Osprey Publishing
L’esempio più noto e più spettacolare di accerchiamento di una città gallica fu quello di Alesia. Per prendere la città dove con il suo esercito si era rifugiato Vercingetorige, il leader della grande rivolta del 52 a.C. contro il dominio romano, Cesare ordinò di accerchiarla con una circonvallazione di 16 chilometri. Questa era formata da una muraglia con torri ogni 25 metri e protetta da due fossati, uno dei quali colmo d’acqua. Davanti ai fossati vi era una zona di trappole, come pali appuntiti conficcati in buchi del suolo e piccole punte metalliche nascoste tra l’erba. Per difendersi al sopraggiungere di un esercito gallico di soccorso, Cesare costruì una linea
di controvallazione di 21 chilometri, che doveva proteggere il suo esercito dagli attacchi dall’esterno. Alla fine, Cesare sconfisse sia l’esercito assediato all’interno di Alesia sia l’esercito di soccorso, nonostante il fatto che dal punto di vista numerico, nel loro insieme, fossero decisamente superiori, e non è esagerato affermare che le fortificazioni romane ebbero un ruolo chiave nella vittoria. In ultima istanza, i legionari erano molto pericolosi sia quando impugnavano la dolabra, o dolabella, un’arma che era metà piccone e metà ascia e veniva usata durante gli assedi, sia quando impugnavano il gladius, la spada corta.
La combinazione di un esercito quasi professionale guidato da un generale brillante e dalle grandi capacità nella presa delle città andava oltre le possibilità dei galli. I romani ebbero successo in tutti gli assedi intrapresi, tranne quello di Gergovia. Questo non deve farci pensare che il risultato della guerra fosse già deciso in anticipo. In diverse occasioni la situazione di Cesare e del suo esercito in Gallia si rivelò simile a un gigantesco castello di carte: una sola sconfitta avrebbe potuto distruggerlo. Tuttavia questo non accadde mai, e le conquiste di Cesare cambiarono per sempre la storia della Gallia e della stessa Roma.
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