Tra il 134 e il 133 a.C. il generale romano Publio Cornelio Scipione Emiliano schierò tutte le sue truppe davanti alle mura di Numanzia per porre definitivamente fine alla feroce resistenza dei celtiberi. Ma non era solo: al suo fianco si trovava un principe africano, che nel crudo inverno della meseta castigliana divenne presto celebre per le audaci azioni contro i numantini.
Portato a termine l’assedio, Scipione colmò di lauti regali Giugurta – era questo il nome del principe numida – e davanti alle truppe schierate elogiò entusiasta il suo coraggio. Quindi lo condusse nella sua tenda e lì, una volta soli, gli diede un consiglio: «Giugurta, figlio mio, se ti comporterai come ora, sta’ certo che al momento opportuno la gloria e il regno di tuo nonno finiranno nelle tue mani; però non correre troppo, perché l’audacia smisurata sfocia nella sfrontatezza». Dopodiché Scipione aggiunse: «Considera che devi coltivare l’amicizia di Roma, ma non mostrarti troppo generoso con quei romani che apprezzano oltremodo le ricchezze, perché il tuo denaro potrebbe finire per corromperli, e questo sarebbe la tua rovina».
Giugurta abbandona Roma maledicendo la città. Incisione
Foto: Bridgeman / ACI
Stirpe reale africana
Giugurta era nipote di Massinissa, re della Numidia, un Paese dell’Africa settentrionale che aveva aiutato Roma contro Cartagine. Il padre era il principe Mastanabale e la madre era una concubina. Ciononostante, malgrado la sua origine illegittima Giugurta era stato accolto a palazzo dallo zio Micipsa, proclamato re alla morte di Massinissa. Giugurta crebbe vigoroso nel corpo e bello d’aspetto e, in accordo con i costumi del suo popolo, passava la maggior parte del tempo a cacciare fiere a cavallo. Ma era anche umile: per quanto grandi potessero essere i suoi meriti, parlava poco di sé. Spaventato dalla popolarità del nipote, Micipsa lo mandò in Hispania perché combattesse vicino ai suoi alleati romani nell’assedio di Numanzia, dove la fama del ragazzo non fece che aumentare. Al suo ritorno a casa portava con sé una lettera di Scipione in cui questi elogiava il coraggio del giovane.
Dal canto suo lo zio Micipsa decise d’includerlo nel suo testamento e decretò che, alla sua morte, il regno dovesse essere diviso in tre parti, destinate rispettivamente ai due figli, Iempsale e Aderbale, e a Giugurta. Micipsa morì nel 118 a.C. e, come deciso, i tre eredi si riunirono per applicare il testamento. Quella notte Giugurta riunì i suoi soldati e li mandò dove dormiva Iempsale. Questi forzarono le porte, perquisirono l’edificio, massacrarono chi dormiva e, appena trovarono Iempsale, gli tagliarono la testa per portarla al cugino. Nel trambusto Aderbale riuscì a fuggire e radunò le truppe, mentre inviava a Roma dei messaggi per chiedere aiuto. Gli eventi, però, precipitarono: Giugurta attaccò subito Aderbale e lo sconfisse, divenendo a tutti gli effetti il re dell’intera Numidia.
L’incisione mostra il momento in cui Giugurta viene consegnato a Silla, luogotenente di Gaio Mario
Foto: Mary Evans / Scala, Firenze
Aderbale allora si recò personalmente a Roma, dove davanti al senato dichiarò che Giugurta non era l’“eroe” di Numanzia, bensì un traditore che aveva ordinato a sangue freddo l’assassinio del cugino, e che per questo andava punito. Tuttavia, il senato optò per una decisione salomonica: nel 116 a.C. una commissione di senatori viaggiò in Africa per spartire il regno in due parti. Ciò perché, secondo quanto afferma Sallustio, Giugurta aveva mandato a Roma dei messaggeri ben provvisti di oro, che sarebbe finito nelle tasche di certi suoi vecchi amici influenti in senato.
La pace durò poco: già dal 113 a.C. Giugurta iniziò a inviare nel territorio di Aderbale i suoi soldati affinché rapinassero, stuprassero e uccidessero nella più totale impunità. Invece di rispondere alle provocazioni, Aderbale mandò un’ulteriore richiesta di aiuto ai romani. Quando lo venne a sapere, Giugurta sferrò l’attacco contro il cugino, ma Aderbale riuscì a fuggire e si rifugiò dentro le mura della città di Cirta. Nel frattempo, a Roma, benché i sostenitori di Giugurta s’impegnassero a difenderlo, era necessario prendere una decisione. A Cirta, infatti, viveva un’importante colonia di commercianti italici che rischiava di essere massacrata da Giugurta. Alla fine il senato decise di mandare una commissione che imponesse la fine delle ostilità. Giugurta rifiutò decisamente le richieste del senato e impedì ai membri della commissione di parlare con Aderbale. Malgrado l’atteggiamento arrogante di Giugurta, gli emissari del senato non si lamentarono e ritornarono sereni a Roma: a quanto pare, Giugurta li aveva di nuovo corrotti con le sue ricchezze. Nonostante ciò, Aderbale fece in modo che uno dei suoi uomini sfuggisse all’assedio e portasse a Roma un’ultima richiesta di aiuto. La maggior parte dei senatori continuava a sostenere che si trattasse di una questione interna dei numidi, mentre il popolo era inquieto per i concittadini intrappolati a Cirta.
Il senato si vide costretto a mandare una nuova commissione, ma Giugurta corruppe i suoi membri perché autorizzassero l’attacco alla città. A quel punto i romani di Cirta, convinti che Giugurta sarebbe stato clemente almeno con loro, convinsero Aderbale ad arrendersi.
Cavaliere umida in un particolare della Colonna Traiana. Copia del XIX secolo
Foto: White Images / Scala, Firenze
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La guerra contro Roma
Tuttavia, Giugurta non mostrò alcuna pietà: non solo ordinò di giustiziare il cugino dopo averlo sottoposto a crudeli torture, ma fece trapassare con la lama anche tutti gli italici che gli capitavano a tiro. L’opinione pubblica romana ebbe un moto d’indignazione, e il senato non poté far altro che dichiarare guerra a Giugurta. All’inizio la campagna sembrò svolgersi in modo favorevole alla repubblica, le cui truppe avanzarono facilmente nella Numidia; nel frattempo Giugurta cercava di evitare uno scontro diretto.
Dopo poco giunse a Roma la notizia che Giugurta si era arreso, eppure il re numida non venne punito né gli vennero richieste delle concessioni territoriali di un certo rilievo. La corruzione aveva nuovamente sortito il suo effetto. L’uomo si presentò quindi a Roma per difendersi dalle gravi accuse a suo carico. Continuò a negare i crimini commessi, perché in cuor suo credeva che, con il denaro e il carisma, avrebbe potuto ammorbidire la disapprovazione del popolo. Nell’assemblea i nobili, da lui corrotti, gli ordinarono di rimanere in silenzio e, anche se la folla cercò di fargli confessare i crimini tra grida e minacce, lui riuscì a imporsi con il suo atteggiamento privo di scrupoli. Alla fine dell’assemblea partì subito per la Numidia, probabilmente obbedendo ai consigli del senato.
Gaio Mario espone Giugurta in catene durante la sua parata trionfale. Metropolitan Museum, New York
Foto: Quintlox / Aurimages
La fine del re numida
La guerra riprese in Africa, stavolta sotto il comando di uno degli acerrimi nemici di Giugurta: il console Quinto Cecilio Metello che, pur avendo ottenuto significative vittorie sull’avversario, non riusciva a catturarlo. Alla fine il popolo nominò console Gaio Mario perché sconfiggesse definitivamente il capo numida. Malgrado la superiorità militare romana, Mario dovette combattere per circa tre anni (107-105 a.C.) prima di abbattere definitivamente Giugurta, e ci riuscì soltanto grazie a un tranello. Tramite il suo luogotenente Silla, Mario promise al re Bocco di Mauretania, suocero di Giugurta e precedentemente suo alleato, che gli avrebbe dato parte della Numidia qualora gli avesse consegnato il genero. Bocco convocò quindi Giugurta a palazzo, lo imprigionò e lo consegnò a Silla e a Mario, che lo portarono a Roma in catene. Nell’Urbe il re numida fu costretto a sfilare nel trionfo di Mario assieme ai suoi due figli.
Le fonti non concordano su quale fu la sua fine: alcune sostengono che venne lasciato morire di fame in prigione, mentre altre raccontano che venne strangolato.
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