Verso le sei del mattino di mercoledì 30 maggio 1431 le prime luci illuminarono le mura del castello di Bouvreuil, che con le sue dieci grandi torri dominava la città normanna di Rouen. Il chiarore dell’alba penetrò attraverso la stretta finestra sbarrata che si apriva in uno di questi edifici, dissipando gradualmente l’oscurità di una stanza in cui una ragazza dai capelli rasati giaceva immobile su una branda coperta da un mucchio di paglia. Due ceppi di ferro posti all’estremità di una lunga catena inchiodata a un’enorme trave di legno le bloccavano le caviglie e le incidevano la carne. Nella stessa stanza, tre soldati – i suoi carcerieri – osservavano la prigioniera, rallegrandosi per il suo destino. La ragazza non sapeva che sarebbe morta sul rogo sette ore dopo.

Giovanna in cella con i suoi carcerieri inglesi. Rilievo di Vital Gabriel Dubray per la base della statua di Giovanna d'Arco in Place de Martroi a Orléans
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Le privazioni del carcere nel quale era rinchiusa da sei mesi, i continui interrogatori e l’angoscia avevano reso il suo volto emaciato e spigoloso. Quella giovane donna dall’aria smunta e dal cranio rasato era Giovanna d’Arco, che poco tempo prima aveva influito profondamente sul corso della Guerra dei cent’anni, rompendo la sequela inesorabile di vittorie inglesi e risollevando le sorti delle stanche armate francesi e del re Carlo VII. Quella stessa giovane coraggiosa che aveva cavalcato a fianco dei migliori capitani del suo tempo, era stata ferita tre volte in battaglia e aveva tentato due volte di fuggire dalle prigioni in cui era detenuta. Solo sei giorni prima sembrava che il destino che l’attendeva non fosse il rogo. Avrebbe dovuto morire lentamente in prigione, a pane e acqua, rinchiusa tra le quattro mura di una cella: la giovane aveva accettato di tradire sé stessa pur di continuare a vivere, anche se miseramente.
Il primo processo
Giovanna era stata ricevuta da Carlo VII due anni prima, quando la posizione del sovrano vacillava di fronte alla pressione dei suoi nemici tra loro alleati: l’Inghilterra e la Borgogna. La giovane contadina aveva candidamente raccontato che le voci che sentiva da quando aveva tredici anni, e che provenivano da Dio, le avevano fatto sapere di essere la prescelta per soccorrere la Francia. Fu accolta alla corte del sovrano come una profeta e fece il possibile perché le sue predizioni si realizzassero. Con indosso un’armatura e in mano uno stendardo, si batté in prima linea infondendo ai soldati francesi il coraggio necessario a liberare la città di Orléans dall’assedio inglese. Convinse inoltre Carlo VII a penetrare per oltre duecento chilometri in territorio nemico, fino a Reims, per farsi consacrare con l’olio benedetto nella cattedrale cittadina. Un gesto che agli occhi del popolo conferiva ai re di Francia la legittimità di governo. Ma poi le cose iniziarono ad andare male.

Il 10 maggio 1429 il segretario del parlamento di Parigi Clément de Fauquembergue fu informato della vittoria francese a Orléans e disegnò così Giovanna a margine di un documento
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Catturata e processata
Dopo alcuni insuccessi militari, Giovanna fu catturata dai borgognoni che la vendettero agli inglesi. Questi la condussero a Rouen, la capitale dei loro domini in Francia, e accettarono di buon grado l’idea dell’Università di Parigi (allora città alleata dell’Inghilterra e della Borgogna) di processare Giovanna per diverse accuse di eresia e stregoneria. Se per i francesi infatti la ragazza era stata mandata da Dio, per gli inglesi e i loro alleati continentali era una creatura diabolica. Il duca di Bedford, governatore della Francia inglese, aveva già scritto al suo giovane nipote Enrico VI d’Inghilterra – proclamato dai suoi sostenitori anche re di Francia – che la disfatta inglese a Orléans era stata provocata da «una seguace del maligno chiamata la Pulzella», la quale aveva fatto ricorso a incantesimi e stregonerie.

Giovanna fu catturata il 23 maggio 1430 davanti alle mura di Compiègne
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I francesi ritenevano Giovanna un’inviata di Dio; gli inglesi e i loro alleati una creatura diabolica
Durante il processo condotto da Pierre Cauchon, vescovo di Beauvais, e dall’inquisitore Jean Le Maistre, le accuse contro Giovanna furono sostanzialmente ridotte a due: aver sentito delle voci (da lei identificate durante il processo con quelle di santa Caterina, di santa Margherita e dell’arcangelo Michele) che appartenevano in realtà a diavoli, non ad angeli o santi; e, soprattutto, di aver indossato abiti maschili, un atto condannato esplicitamente nel libro biblico del Deuteronomio e che costituiva l’unica imputazione davvero dimostrabile nei suoi confronti. In effetti la ragazza si era messa spesso vestiti da uomo in quanto più consoni alla battaglia e perché la proteggevano dagli sguardi concupiscenti dei soldati. Furono queste le cause che il 23 maggio 1431 portarono alla sentenza che la dichiarava eretica e scismatica. Per evitare la condanna, le venne chiesto di «emendare i suoi errori». Di fronte al suo categorico rifiuto, gli inquisitori provarono a convincerla ricorrendo a una procedura più rapida.
Abiura e pentimento
Giovedì 24 maggio, nel cimitero dell’abbazia di Saint-Ouen, si svolse il penultimo atto della tragedia della giovane. Era stata innalzata una pedana per i numerosi ecclesiastici, tra i quali Cauchon, e una più piccola per Giovanna e un predicatore, che le intimava di confessare. Il boia era in attesa: se Giovanna non avesse ammesso di aver agito contro la Chiesa, l’avrebbe condotta verso la pira eretta poco lontano o forse, secondo altre fonti, nel Mercato Vecchio di Rouen. Ma la morte di Giovanna sul rogo, tanto attesa dagli inglesi, avrebbe rappresentato una sconfitta per Cauchon. L’obiettivo del vescovo era che la donna riconoscesse i suoi errori. Il sermone del predicatore, però, non sembrava sortire alcun effetto. Fu allora che Cauchon cominciò a leggere la sentenza. Lo fece probabilmente con lentezza, per dare tempo alla paura delle fiamme di fare rinsavire la ragazza.
E così fu. Giovanna cedette e abiurò. Disse che se gli ecclesiastici non credevano alla divinità di quelle voci, nemmeno lei vi avrebbe creduto. Si sarebbe rimessa alla Chiesa e ai suoi giudici. Il seguito della scena è confuso. Le fu posta dinnanzi la dichiarazione di abiura. Benché sapesse firmare, Giovanna disegnò un cerchio sul foglio, un gesto che fu preso come una provocazione. Qualcuno, apparentemente un segretario del re d’Inghilterra, le prese la mano e la obbligò a tracciare una croce.

La firma di Giovanna d'Arco su una lettera datata 28 marzo 1430
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Cauchon lesse immediatamente, a voce alta, una seconda sentenza preparata in caso di abiura e che conteneva la formula di rito: Giovanna veniva condannata «alla carcerazione a vita […] al pane del dolore […] all’acqua della tristezza». Ma gli inglesi erano furiosi. Erano venuti ad assistere al rogo della strega francese che aveva ucciso i loro compagni e invece la vedevano uscirne viva. Alcuni soldati scagliarono delle pietre contro Cauchon. Giovanna fu riportata nella sua cella a Bouvreuil, quando invece pensava che, come previsto dalla legge dell’epoca, la firma le avrebbe garantito il diritto a essere reclusa in una prigione ecclesiastica custodita da donne.
Il pomeriggio di quello stesso giorno l’inquisitore Le Maistre le fece visita per controllare che stesse scontando la condanna che le era stata inflitta. Indossava abiti da donna e un barbiere le aveva rasato completamente la testa, affinché i capelli le tornassero a crescere naturalmente in modo femminile. Fino a quel momento, infatti, come prova della sua colpevolezza, avevano continuato a tagliarle i capelli alla maniera maschile, come Giovanna li portava durante le sue campagne militari. Ma nei giorni successivi le cose non andarono come previsto: l’abiura prevedeva che la ragazza vestisse come una donna, ma non lo fece. Furono i suoi carcerieri a nasconderle gli abiti, lasciando solo quelli da uomo in qualche angolo della cella, come forma di vessazione? È possibile, ma molti storici ritengono che Giovanna prese la decisione di sua spontanea volontà – un modo per riconciliarsi con sé stessa dopo quell’abiura che considerava un tradimento verso di sé e verso Dio. Tornare a indossare abiti maschili era riaffermare l’origine divina delle voci che udiva e della missione a cui la chiamavano.
La condanna finale
Il 27 maggio gli inglesi informarono Cauchon che la ragazza aveva nuovamente indosso abiti maschili. Il giorno successivo il vescovo, Le Maistre e alcuni consiglieri entrarono nella cella di Giovanna e la trovarono effettivamente vestita da uomo. Alle domande di Cauchon, la ragazza rispose che si era messa quegli indumenti perché il vescovo non aveva mantenuto le sue promesse: in quella cella era incatenata, non poteva ascoltare messa né ricevere la comunione, tutte cose che riteneva le fossero dovute come compenso per la sua abiura.
Cauchon formulò allora la domanda chiave: aveva sentito di nuovo quelle voci che, secondo la Chiesa, erano di origine diabolica? Giovanna rispose in modo affermativo. «Dio mi ha mandato a dire per bocca di santa Caterina e santa Margherita quale miserabile tradimento ho commesso accettando di ritrattare tutto per paura della morte; mi ha fatto capire che, volendo salvarmi, stavo per dannarmi l’anima!», spiegò. Il notaio che trascrisse quelle parole nel verbale del processo appuntò a margine: responsio mortifera, risposta fatale. Giovanna segnò il suo destino: «Tutto ciò che ho fatto è stato per paura del fuoco».

Pagina finale del processo, con i sigilli notarili, e prima pagina dell'informazione postuma
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Il giorno successivo, martedì 29, si stabilì che la ragazza era ricaduta nell’eresia. Il balivo Jean Massieu si recò nella sua cella per farle sapere che sarebbe stata convocata la mattina seguente nella piazza del Mercato Vecchio di Rouen, dove sarebbe stata dichiarata relapsa – recidiva – e quindi scomunicata. Ma Massieu non fece menzione del rogo perché non era la Chiesa a occuparsi di quella parte: i condannati venivano consegnati al braccio secolare, cioè alla giustizia civile, a cui spettava il compito di eseguire la sentenza di morte. E questo fu ciò che avvenne il mattino seguente. O meglio ciò che sarebbe dovuto avvenire.
Non è chiaro cosa successe nella cella di Giovanna tra l’alba del 30 maggio e il momento in cui uscì in direzione del supplizio finale. Con lei c’erano diverse persone tra cui il domenicano Martin Ladvenu, il confessore incaricato di prepararla alla morte. Quando le annunciarono che sarebbe stata bruciata quello stesso giorno, Giovanna scoppiò in lacrime: «Povera me! Sono stata trattata in modo orribile e crudele… E ora il mio corpo candido e integro, che non fu mai corrotto, sarà consumato e ridotto in cenere!». Queste parole smentirebbero il fatto che Giovanna fosse stata violentata in cella, come invece sostengono alcune fonti. «Preferirei essere decapitata sette volte che bruciata in questo modo!» aggiunse la ragazza. Il rogo infatti implicava l’impossibilità di essere sepolta in un terreno consacrato. In quel momento entrò Cauchon, e Giovanna gli gridò: «Vescovo, muoio per causa vostra!».
Verso il rogo
Perché Cauchon era andato da lei? Forse per portare a termine la sua opera. Giovanna aveva scelto di morire, ma la fine che le veniva imposta era terribile. E soprattutto sarebbe morta scomunicata, al di fuori dalla Chiesa e senza ricevere i sacramenti. Essendo una fervida credente, la ragazza era sconvolta. Cauchon approfittò di questa debolezza: «Hai sempre dichiarato che secondo le tue voci saresti stata liberata» disse rivolgendosi a lei. «Ora puoi ben vedere che sei stata ingannata. Ammettilo». Giovanna rispose: «Sì, sono stata ingannata», e poi restò sola con Ladvenu e si confessò. Il domenicano mandò il balivo Massieu a dire a Cauchon che la ragazza voleva ricevere l’eucaristia. Il vescovo diede l’autorizzazione, perché Giovanna aveva riconosciuto i suoi errori in articulo mortis, in punto di morte.
Questo drammatico episodio è controverso. Innanzitutto contraddice ciò che Ladvenu stesso dichiarò anni dopo: Giovanna avrebbe continuato ad affermare che le voci da lei sentite provenivano da Dio, che tutte le sue azioni erano eseguite per ordine divino e che non riteneva di essere stata ingannata. Poi perché le ammissioni di Giovanna furono riportate nella cosiddetta informazione postuma, un documento che i notai del processo rifiutarono di firmare perché non erano presenti ai fatti, e che potrebbe essere quindi una montatura.
Giovanna riconobbe davvero di essersi sbagliata e si comunicò? O semplicemente Cauchon provò un briciolo di compassione per quella creatura e l’autorizzò a ricevere l’eucarestia nonostante la scomunica? Qualcuno ha sostenuto che la concessione del sacramento implica che Cauchon non credesse alla colpevolezza della ragazza. Ma in realtà la procedura inquisitoriale non impediva ai condannati di comunicarsi se mostravano segni di pentimento. Anni prima, nel 1415, il riformatore religioso Jan Hus aveva potuto confessarsi prima di essere bruciato a Costanza.

Charles-Henri Michel evoca in quest’olio l’unica comunione ricevuta da Giovanna a Rouen, per mano di Martin Ladvenu, prima d’incamminarsi verso il rogo. 1899. Musée de beaux-arts, Rouen
Foto: Josse / Leemage / Getty Images
Verso le otto, dopo aver ricevuto la comunione, Giovanna salì su un carro con indosso una lunga veste bianca. Secondo alcune fonti le avevano collocato sul capo rasato una mitra sulla quale erano scritte quattro parole: eretica, recidiva, apostata e idolatra, i peccati per i quali era stata condannata. L’accompagnavano Ladvenu e un altro domenicano, Isambard de la Pierre, così come il balivo Massieu. Il gruppo era circondato da un centinaio di soldati armati di asce e spade. Durante quello straziante percorso attraverso la città, la ragazza pianse e pregò ad alta voce.
Nella piazza del Mercato Vecchio si accalcava una folla enorme. Davanti alla maestosa chiesa di Saint-Sauveur oggi scomparsa erano stati eretti un palco per i giudici civili, rappresentanti della giustizia secolare a cui sarebbe stata consegnata la prigioniera; una grande tribuna destinata agli ecclesiastici e una costruzione ancora più alta, con un basamento in muratura, su cui erano accatastati dei fasci di legna da ardere sormontati da un palo minaccioso. Affiancata da Ladvenu e Massieu, Giovanna fu costretta innanzitutto ad ascoltare i rimproveri di un predicatore (l’ammonizione), che prolungarono la sua agonia. Finito il sermone, verso le nove, le fu letta la sentenza: i giudici la dichiararono idolatra, scismatica, invocatrice di diavoli e soprattutto eretica e relapsa: aveva promesso di non ricadere negli stessi errori, come appariva in una lettera firmata di suo pugno, ma non era riuscita a evitarlo, «alla guisa di un cane abituato a tornare nel suo vomito». Anche queste circostanze smentirebbero l’informazione postuma, secondo la quale Giovanna aveva riconosciuto quel mattino stesso che non poteva fidarsi delle voci da lei udite.
Quindi le fu annunciato che, «in quanto membro marcio», veniva respinta dall’unità della Chiesa e consegnata alla giustizia secolare. Abbandonata al suo destino davanti a migliaia di persone ed esposta allo scherno dei soldati inglesi, Giovanna pregava alla ricerca disperata di qualche forma di conforto. Ma non tutti furono crudeli con lei. Quando quella creatura angosciata chiese una croce, fu proprio un inglese ad averne pietà: spezzò un bastone e gliene costruì una. Probabilmente furono Ladvenu o Massieu a consegnargliela, e Giovanna se la strinse al petto, infilandola tra la veste e il corpo.
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Sulla pira
Dopo la lettura della sentenza ecclesiastica, la giustizia civile avrebbe dovuto pronunciare il verdetto di morte, ma non fu così. Il procuratore di Rouen era circondato da soldati inglesi furiosi, stanchi di ascoltare formule giuridiche e sul punto di ammutinarsi. Temendo forse di mettere a rischio la propria incolumità, gridò al boia di sbrigarsi a fare il suo dovere. Geoffroy Thérage, che da più di un decennio svolgeva questo incarico a Rouen, allontanò Giovanna da Massieu. Un inglese gridò al balivo intento a confortarla: «Spicciati, non vorremmo ritrovarci ancora qui all’ora di cena». Il boia condusse la ragazza sulla sommità della pira senza alcun riguardo e la legò al palo.
Il fatto che il tribunale civile non avesse letto la sentenza di morte costituiva una palese illegalità. Forse è per questo che il conte di Warwick, capitano di Rouen, quel mattino non si presentò: in qualità di massimo rappresentante della legge, era tenuto a farla rispettare; quindi Giovanna non avrebbe potuto essere giustiziata senza un processo civile, come invece accadde. In realtà forse fu lui stesso a ordinare al procuratore e al boia di procedere rapidamente all’esecuzione, per evitare che Giovanna approfittasse della lettura della sentenza di morte per ribadire che le sue voci provenivano da Dio.
Ladvenu rimase accanto a lei sulla pira a consolarla; Massieu e Isambard de la Pierre attesero sotto. Quest’ultimo corse alla chiesa di Saint-Sauveur quando Giovanna gli chiese di poter vedere la croce dell’altare. Il domenicano tornò con il simbolo sacro e lo tenne davanti agli occhi della ragazza mentre il boia accendeva il rogo. Contrariamente a quanto si faceva di solito con i condannati per sottrarli al supplizio delle fiamme, Thérage non strangolò Giovanna, affermando che il palo era troppo alto per poter raggiungere il collo della ragazza. Ma molto probabilmente fu per paura degli inglesi, che volevano vedere con i loro occhi la morte della strega. Il boia temeva che potessero ucciderlo se le risparmiava la sofferenza.
Il boia Thérage non la strangolò, come si faceva di solito per risparmiare ai rei il supplizio delle fiamme
La legna cominciò ad ardere e Giovanna disse a Ladvenu di andarsene. Le fiamme si alzarono e il fumo avvolse la ragazza, il cui sguardo restò fisso sulla croce sorretta da Isambard de la Pierre. Tra i gemiti di dolore, Giovanna invocò il nome di Gesù. Fu questa l’ultima parola che pronunciò, emettendo un forte grido che si sentì in tutta la piazza. Poi la sua testa ricadde di lato e Giovanna spirò, asfissiata dal fumo.

Questo quadro in cui Jules Eugène Lenepveu evoca con slancio realista gli ultimi istanti della vita di Giovanna d’Arco è esposto al Pantheon di Parigi. XIX secolo
Foto: Mondadori / Getty Images
Sangue e cenere
Qualche istante più tardi il boia fece abbassare le fiamme e allontanò le braci dal cadavere, in modo che tutti potessero vederlo e convincersi che la ragazza era morta. Il fuoco aveva consumato integralmente la lunga veste bianca di Giovanna. Ora il suo povero corpo, arso e nudo, era esposto agli sguardi della folla, mostrando «tutti i segreti che una donna può e deve conservare», secondo le parole di un testo dell’epoca, il Diario di un borghese di Parigi. Questa nudità postuma e infamante fu l’ultima vendetta degli inglesi contro l’audacia della giovane donna che li aveva sfidati. Ma una sorpresa li attendeva. Quando Thérage tornò ad alimentare le fiamme, la scatola cranica e la cavità addominale del cadavere esplosero, mentre gli arti s’irrigidirono ritraendosi sul torso. Però a quel punto la legna sulla pira finì e la cremazione restò incompleta: dal busto fuoriuscirono le viscere fumanti, rivelando un cuore ancora pieno di sangue. Il boia tentò di bruciare ciò che rimaneva del corpo con una miscela di olio e zolfo, ma non ci riuscì. Gli inglesi vollero che i resti fossero gettati nella Senna, per evitare che si trasformassero in reliquie.

Particolare di uno degli otto grandi dipinti di Lionel Royer sulla vita di Giovanna d'Arco nella basilica di Bois-Chenu, eretta in suo onore nei pressi di Domrémy, dov’era nata
Foto: Alexandre Marchi / EFE
L’atteggiamento coraggioso della ragazza di fronte alla morte convinse molte persone che a bruciare non era stata un’eretica, ma una santa. Quella sera stessa il domenicano Pierre Bosquier, che aveva partecipato al processo in qualità di consigliere, dichiarò in stato di ebbrezza che i giudici avevano commesso un errore. Fu rinchiuso nel suo convento a pane e acqua per nove mesi. Guillaume Manchon, uno dei tre notai del processo, si ammalò per una trentina di giorni e, con il compenso ricevuto per il lavoro svolto, comprò un messale con cui pregare per Giovanna.
La Pulzella era morta. Gli inglesi rimasero in Francia per altri vent’anni, finché non persero la Normandia nel 1450. Dopo aver sconfitto gli storici nemici, Carlo VII sollecitò al papa una revisione del processo di Giovanna. Il re di Francia infatti non voleva che la sua Corona fosse dovuta alle gesta di un’eretica. Le irregolarità che avevano caratterizzato il processo (il fatto che Cauchon fosse vescovo di Beauvais e non di Rouen, l’imprigionamento di Giovanna a Bouvreil e non in un carcere ecclesiastico, l’assenza di una sentenza secolare prima della sua esecuzione) facilitarono la riabilitazione della ragazza nel 1456. Anche questa fu una decisione politica, come in precedenza lo era stata la condanna. Infine, il 16 maggio 1920, quella stessa Chiesa che aveva bruciato sul rogo Giovanna d’Arco cinquecento anni prima la dichiarò santa.
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Per saperne di più
Giovanna d’Arco. Colette Beaune. Il Saggiatore, Milano, 2019
Il processo di condanna di Giovanna d’Arco. T. Cremisi (a cura di). SE, Milano, 2000