Il 30 luglio 1789 in piazza degli Ottangoli, nel cuore di Palermo, c’è una gran ressa. Tra la folla composta da nobili e popolani si erge un patibolo, sul quale presto si terrà un’esecuzione. Il cappio viene calato sul collo di una donna di 75 anni, condannata per omicidio ma trattata come una strega. Giovanna Bonanno è accusata di aver favorito almeno sei uxoricidi: si tratta in buona parte di mariti o amanti di sue concittadine, ricorse ai servigi della donna per vendicare tradimenti o sbarazzarsi di problemi e vessazioni. L’arma del delitto è un veleno insospettabile, che la donna rivendeva alle clienti con la promessa di un effetto assicurato.
Nella pubblicazione La vecchia dell’aceto, Giovanna Fiume (docente di Storia moderna presso l’Università di Palermo) ripercorre ciò che emerge dai 1500 fogli dell’incartamento processuale, evidenziando come nel dibattimento si giochi una partita ben più ampia: l’affermazione della giustizia “illuminata” sulle tenebre dell’inquisizione. Il tutto si svolge in un contesto sociale ancora legato a superstizioni secolari, che il nuovo ordine politico e autoritario tenta di spazzare via con la forza della ragione.

Incisione di Giovanna Bonanno opera di Bartolomeo Pollini
Foto: Pubblico dominio
Contro le “magarìe”
Fino al 1782, il viceregno di Sicilia può contare su uno strutturato sistema di giustizia mutuato dall’inquisizione spagnola, retaggio di una dominazione durata dal XVI al XVIII secolo. È composto da ufficiali e collaboratori in grado di controllare e gestire il dissenso politico e religioso, con forti ripercussioni sulla vita sociale e istituzionale. Al tempo del caso Bonanno, l’apparato giudiziario del viceré Francesco Maria Venanzio d'Aquino, principe di Caramanico (1786-1795), persegue la giustizia laica e illuminata già iniziata dal suo predecessore Domenico Caracciolo, che nel 1782 aveva abolito il Sant’Uffizio. Questa visione, animata dallo spirito che già da qualche decennio imperversa in Europa, deve fare i conti con il contesto sociale in cui tenta d’imporsi, animato dalla superstizione e dalla sfiducia verso l’autorità costituita.
Torniamo al caso di cronaca: vedova, anziana e abituata a vivere di espedienti, Giovanna Bonanno ha tutte le carte in regola per essere considerata una strega. Come riporta Fiume, «Di lei si dice che esca con le ‘donne di fora’, esseri soprannaturali un po’ streghe e un po’ fate, dal cui capriccio può dipendere la buona e la cattiva sorte». Spesso viene interpellata dalle compaesane per le sue “magarìe”, fatture e incantesimi che la donna dispensa su richiesta. I destinatari sono spesso mariti o amanti, che le clienti vorrebbero eliminare senza dolo. L’intuizione giunge dalla notizia di un avvelenamento fortuito ai danni di una bambina, che per errore ha bevuto una lozione per eliminare pidocchi, rischiando la vita. Si tratta di un preparato galenico a base di aceto, vino e arsenico, prodotto e venduto da un certo Saverio La Monica, aromatario palermitano, da cui Giovanna acquista una prima dose per verificarne l’efficacia.

Una vecchia signora passeggia nella neve. Olio di August Allebe. 1863
Foto: Cordon Press
Maleficio o veneficio?
La prima vittima è un cane randagio, cui la donna dà in pasto pezzi di pane imbevuti con l’“arcano liquore”, che oltre a sortire l’effetto desiderato non lascia tracce di avvelenamento. La scoperta si converte in un vantaggioso espediente per fare affari: come sosterrà lei stessa, il veleno è «megghiu di magarìi», meglio degli incantesimi. Efficace, economico e facilmente reperibile, non ha colore né sapore sospetto e può essere facilmente mescolato a cibi e bevande. La morte della vittima sopraggiunge – non priva di sofferenze – tra gli otto e i quindici giorni, con le sembianze di un malanno gastrointestinale che non lascia scampo. Le prime somministrazioni sui concittadini servono ad aggiustare il tiro sul dosaggio, mentre l’efficacia comprovata procaccia alla donna fama e nuove clienti, precettate da due socie in affari. Sorvolando sui singoli casi, ciò che balza all’occhio è il movente alla base delle richieste: chi acquista il veleno vuole mettere fine a matrimoni infelici, compiere vendette passionali o risolvere situazioni familiari spinose. In un contesto di sfiducia verso le autorità, l’unica soluzione sembra essere un intervento fatale, che per molti sconfina nella magia.
Come sottolinea Fiume, l’intera faccenda si snoda sulla distinzione tra “malattia” o “malarìa”, malanno o maleficio. Nel XVIII secolo la medicina tradizionale ha ancora un approccio sperimentale, in buona parte mutuato dalle usanze popolari. Esprimere una diagnosi per avvelenamento non è semplice, quando le lacune scientifiche lasciano spazio ad interpretazioni più o meno aderenti alla realtà, in cui «cause naturali e cause magiche non si escludono vicenda—. A Palermo non tutti credono che Giovanna sia una strega, ma per ben due anni nessuno si azzarda a sconfessarla. Fiducia cieca e scetticismo sostengono lo stesso muro di omertà, che viene infranto solo a fronte delle prime denunce all’orecchio della giustizia, che trascinano Giovanna al cospetto della Corte Capitanale di Palermo.
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Un maxiprocesso esemplare
Con un tranello ordito dalla madre di una sua vittima, Giovanna viene colta in flagrante dal commissario di ronda don Matteo Fodale. Finisce dritta in carcere, accusata di aver commercializzato una soluzione potenzialmente mortale, conoscendo lo scopo ultimo delle sue clienti. Il processo dura solo nove mesi: dopo l’arresto nell’ottobre 1788 la condanna arriva il 30 luglio 1789, esito di un dibattimento di dimensioni spropositate per numero di testimonianze. Ogni voce è utile, «affinché – riporta Fiume – i delitti non restino impuniti per difetto di prove e per provvedere alla pubblica tranquillità con l’esercizio della pubblica vendetta».
La raccolta delle argomentazioni include un’accurata istruttoria volta a determinare la natura e l’efficacia di quell’ «acqua che fa morire». Per farlo, viene addirittura chiamato in causa l’aromatario, cui viene chiesto di riprodurre la lozione per paragonarla al liquido in possesso della Bonanno, quindi sperimentarla su cani randagi, proprio come aveva fatto la donna. Il rigore caratterizza anche gli interrogatori, che tendono a screditare “malìe e prestigi” anche a costo di condizionare la spontaneità delle testimonianze raccolte tra la popolazione interpellata. Il processo prende le sembianze di un dibattito tra ragione e superstizione, in cui la giustizia secolare è chiamata a dimostrare una volta per tutte la propria supremazia sulle tenebre dell’inquisizione.

Un processo dell'Inquisizione rappresentato in quest'olio di Francisco Goya. 1816
Foto: The Granger Collection, New York / Cordon Press
Bruciata dai “lumi”
Il processo si conclude il 30 luglio 1789 con la condanna a morte di Giovanna Bonanno, unica tra le imputate a meritare la pena capitale. L’accusa è di omicidio, nonostante la donna non avesse mai somministrato personalmente il veleno alle vittime. Le socie “dispensatrici” se la cavano con il carcere, così come le reali esecutrici dei delitti. Impiccata in pubblica piazza, il suo supplizio funge da esempio punitivo, a riconferma della necessità di una giustizia organizzata e autoritaria, rettificata dalla ragione.
Tra le contraddizioni che caratterizzano la vicenda, spicca una formalità poco illuminata: nonostante il processo formale, Giovanna è stata torturata con “tratti di corda”; una pratica dal sapore inquisitorio, impartita nonostante la donna avesse già confessato le proprie responsabilità nelle prime fasi dell’interrogatorio. Anche l’epilogo lascia qualche dubbio sull’atteggiamento non persecutorio della giustizia capitale: come sottolinea Fiume, «la solennità della cerimonia si può paragonare solo a quella dell’ultimo rogo, celebrato nel lontano 1724».
Per saperne di più:
- La vecchia dell'aceto, la modernizzazione giudiziaria nel reato di maleficio nella Palermo del tardo Settecento. Giovanna Fiume. “Quaderni storici” - Nuova serie, vol 22 n.66 - Fonti Criminali e storia sociale (Dicembre 1987, pp. 855-877
- Contra Haereticos. L'inquisizione spagnola in Sicilia. Valeria La Motta. Pubbl. Istituto poligrafico europeo (2019)
- Curiosità popolari tradizionali. Giuseppe Pitré. Vol. VII, L. Pedone Lauriel, Palermo 1889, p. 35
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