La vita di Galla Placidia è stata un’avventura con sullo sfondo l’agonia dell’impero romano. Per usare le parole della storica Lidia Storoni Mazzolani, era nata nel mondo antico, morì nel Medioevo. Venne alla luce intorno al 390 d.C. a Costantinopoli e seguì presto il padre, l’imperatore Teodosio I, in Italia. Ma due tragedie erano alle porte: nel giro di pochi mesi la madre Galla morì di parto nella lontana Costantinopoli e il padre si ammalò d’idropisia e si spense a Milano. La prima apparizione pubblica di Placidia fu dunque un evento tragico: una bambina di circa quattro anni, già orfana di madre, che assisteva al funerale del padre e all’appassionata orazione funebre del vescovo di Milano, Ambrogio.
Palazzo di Teodorico. Riproduzione del XIX secolo di un mosaico della basilica di Sant’Apollinare Nuovo, a Ravenna. Mary Evans Picture Library, London
Foto: Scala, Firenze
L’orfana Placidia rimase in Italia, sola in terra straniera, e fu affidata alle cure di una cugina paterna, Serena, sposata con Stilicone, l’uomo a cui Teodosio aveva lasciato il comando dell’esercito e che, di fatto, dalla sua morte esercitava la reggenza della parte occidentale dell’impero romano. Si trasferì a Roma nel palazzo dei Cesari sul Palatino, in una casa piena d’intrighi. Capì presto di essere una pedina all’interno del mercato matrimoniale per arrivare al trono. Serena e Stilicone avevano dato in spose entrambe le loro figlie all’imperatore Onorio, il suo fratellastro, ma furono matrimoni senza figli. Allora, per avere nella loro famiglia un erede al trono, fecero fidanzare Placidia con il loro figlio maschio, Eucherio. La giovane crebbe dunque accanto al suo promesso sposo, anche se poi il matrimonio non si celebrò.
Rimase a Roma anche durante i terribili anni 408 e 409, quando la città era stretta d’assedio dai goti. Alarico, il loro re, era stato più volte deluso dalle promesse tradite dell’imperatore Onorio e aveva deciso di agire con la forza bloccando la città e i suoi rifornimenti. Non temeva certo di essere attaccato alle spalle: Onorio se ne stava nascosto nel palazzo di Ravenna, città imprendibile per via della sua conformazione lagunare, mentre l’esercito imperiale era ormai allo sbando.
Bulla dell’imperatrice Maria, moglie di Onorio. Ritrovata a S. Pietro nel 1544 e risalente al 398-407 d.C.
Foto: RMN-Grand Palais
Nel 408 Placidia fece il suo ingresso nelle cronache con la sua prima decisione ufficiale, per lei di grande portata emotiva. La cugina Serena, che l’aveva allevata, era stata accusata di avere chiamato i goti ad assediare Roma in rappresaglia per la sorte del marito Stilicone, giustiziato in una congiura di palazzo pochi mesi prima. Il senato la condannò a morte. Tuttavia, dato che da donna era imparentata con l’imperatore, non si poteva eseguire la sentenza senza l’approvazione di un membro della famiglia imperiale. Roma era cinta d’assedio e Onorio era lontano. Quindi il senato si rivolse a Placidia, il rango più elevato in città, e lei diede il suo assenso. Non spiegò mai il motivo e sono state fatte le ipotesi più disparate: fu plagiata dai senatori? Covava rancori verso la cugina? Fu costretta? Non si sa, ma nella decisione di quella diciottenne s'intuisce uno dei tratti della sua personalità autoritaria al limite dell’implacabilità. Intanto l’assedio di Roma continuava e anche se Placidia non soffrì la fame e le privazioni, la sua adolescenza fu marcata dalla prigionia fra le mura di una Roma in rapida decadenza, già mezza spopolata e trascurata dall’imperatore, davanti alla minaccia dei barbari armati alle sue porte. La città cadde nell’agosto del 410: i goti vi entrarono e la saccheggiarono. Era inviolata da quasi 800 anni e la notizia fece rapidamente il giro del mondo romano, traumatizzandolo. Roma era stata profanata.
Prigioniera di Alarico
I goti uscirono dalle mura tre giorni dopo con una prigioniera illustre: Placidia, la sorella dell’imperatore, e fecero rotta verso sud. Volevano raggiungere l’Africa, il territorio più ricco dell’impero, il suo granaio. Cosa dovette vedere la giovanissima Placidia dalle tendine della sua lettiga durante quel viaggio? Il monaco Rufino d’Aquileia, fuggito da Roma, riportò la violenza barbarica, il pericolo delle frecce, l’incendio della fortezza di Reggio, le devastazioni di campagne e città. San Girolamo invece trascrisse i racconti degli scampati coperti di ferite che si aggiravano fra i ricoveri dei monasteri, o il dramma di quelli che, non potendo pagare un riscatto, venivano trascinati via come schiavi.
L’impossibilità di reperire navi per la traversata verso l’Africa obbligò i goti ad arrestarsi in Calabria, dove il loro re Alarico si ammalò e morì. Secondo lo storico Giordane sarebbe stato sepolto sotto il letto del fiume Busento, a Cosenza, con i suoi tesori; tutti gli schiavi che avevano lavorato per deviare temporaneamente il corso del fiume sarebbero stati uccisi perché non rivelassero l’ubicazione della tomba. Ad Alarico succedette il cognato Ataulfo, che decise di tornare indietro e riattraversare la penisola verso nord per arrivare in Gallia. Sempre con Placidia chiusa in una lettiga a domandarsi cosa ne sarebbe stato di lei, ripartirono. Non si trattava della cavalcata di un gruppo di guerrieri, ma della migrazione di un intero popolo: anziani, donne e bambini che vivevano sui carri con tutto quello che possedevano. Da Rutilio Namaziano sappiamo che i goti si lasciarono dietro strade impraticabili, ponti distrutti, locande e campi bruciati.
Ritratto del re dei goti Alarico, che nel 410 mise a ferro e fuoco la città di Roma e fuggì con un ostaggio di prim’ordine: la sorella dell’imperatore Onorio, Galla Placidia. Incisione del 1782
Foto: Alamy / ACI
Placidia doveva essere terrorizzata: cresciuta nel lusso del palazzo dei Cesari, era finita nelle mani di barbari vestiti di pelli e con i capelli lunghi. Probabilmente era comunque trattata con il prestigio dovuto al suo rango: dopotutto era lei il bottino più prezioso. La sua era sicuramente una sorte migliore rispetto a quella delle patrizie che, per sfuggire alle violenze dell’assedio e del sacco, si erano rifugiate in Africa ed erano state catturate dal comandante romano ribelle Eracliano, che le vendette nei postriboli siriani, oppure delle ragazze strappate alle famiglie a Roma per seguire in catene i guerrieri goti. Placidia rimase a lungo prigioniera, dato che i goti aspettavano l’occasione giusta per scambiarla. Alla fine decisero di alzare la posta: un matrimonio reale con Ataulfo. Lei acconsentì e nel 414, quattro anni dopo il rapimento, i due si sposarono a Narbona con immensi doni provenienti dal saccheggio delle ville romane e che diventeranno il tesoro dei goti in Spagna.
Si è molto speculato su questo matrimonio tra coercizione, fascino e manipolazione, ma è probabile che, dopo una prigionia così lunga ci fossero stati dei cambiamenti nell’animo di Placidia. Sicuramente lei aveva influenzato immensamente Ataulfo, un barbaro originario della Pannonia che fino a pochi anni prima non aveva mai visto la magnificenza dell’impero romano e conosceva solo regolamenti militari e campi a perdita d’occhio da attraversare sui carri. L’uomo che sposò a Narbona era totalmente trasformato: aveva smesso la giacca di rozza pelliccia ed era riccamente vestito, e la sua romanizzazione si deve interamente all’influsso di Placidia.
Ataulfo in una miniatura del manoscritto 'Semblanzas de Reyes'. Niblioteca nacional, Madrid
Foto: Album
Regina dei goti
Il primo matrimonio di un’erede imperiale con un barbaro fu un evento epocale. Da prigioniera, Placidia aveva aggiunto un titolo nobiliare ai già tanti che possedeva: era ora anche regina dei goti. Dopo le nozze, la coppia si trasferì a Barcellona, dove Placidia poté riposare in una casa vera, finalmente al sicuro in una città romana. Pochi mesi dopo nacque un bimbo, che la coppia decise di battezzare con il nome del nonno: Teodosio. Era chiaro l’intento di dare al piccolo i titoli per essere un pretendente al trono, il primo di sangue misto. Purtroppo però il bambino morì pochi mesi dopo. Fu una perdita che Placidia non dimenticò mai e che sarebbe riaffiorata fino all’ultimo istante della sua vita.
Nel 415 Ataulfo fu assassinato da uno stalliere e con lui se ne andò la possibilità che nascesse un nuovo erede al trono di sangue misto. Gli succedette Sigerico, ostile da subito a Placidia, che umiliò costringendola a marciare davanti al suo cavallo per dodici chilometri. Appena una settimana dopo fu assassinato anche lui. Il successore, Vallia, era un regnante più accorto. Intanto, a Ravenna, Onorio aveva nominato il patrizio Costanzo suo reggente e questi concordò il riscatto con Vallia. Placidia fece dunque rotta verso Ravenna; dopo anni di nomadismo e notti sotto le stelle, tornava in una città torbida, silenziosa, della quale Sidonio Apollinare diceva: «Zanzare e rane, a Ravenna non si trova altro». L’accompagnava un drappello di guerrieri goti come guardia del corpo, che tenne vicino per molti anni a venire. Costanzo mirava al trono e all’inizio del 417 la sposò con l’assenso di Onorio. Se del matrimonio con Ataulfo si è data una visione romantica, del secondo marito sappiamo, almeno da Olimpiodoro, che Placidia lo detestò. Costanzo era un uomo brutto, pragmatico ai limiti della rozzezza, calcolatore, ma capace di organizzare efficientemente le poche risorse dell’impero romano d’Occidente al tracollo e difendere i suoi fragili confini. Dall’unione nacquero due figli: Giusta Grata Onoria e Valentiniano.
Galla Placidia e Ataulfo si trasferirono a Barcellona, dove vissero fino alla morte di lui. Incisione del 1920
Foto: Alamy / ACI
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Placidia imperatrice
Costanzo salì al trono come co-imperatore nel 421 e lei divenne augusta dell’impero, imperatrice. Fu un periodo breve e relativamente tranquillo per Placidia, che preferì dedicarsi a sviluppare la sua profonda religiosità lasciando le decisioni amministrative al marito che, però, morì improvvisamente pochi anni dopo. Vedova per la seconda volta, si ritrovò in una situazione scabrosa. Sempre secondo Olimpiodoro, il fratellastro Onorio mostrò una predilezione incestuosa per Placidia, che però non cedette. La sua posizione a corte scricchiolò fino a farsi insostenibile. Cacciata da Ravenna si rifugiò a Roma per poi imbarcarsi frettolosamente con i figli su una nave diretta a Costantinopoli, la città dove era nata e che aveva lasciato da bambina.
Qui però l’accoglienza fu tiepida: in molti non le perdonavano quel matrimonio barbaro che aveva rischiato d’inquinare il sangue romano. Lei si ritirò nella casa che la madre le aveva regalato quando era nata, la Domus Placidiana. Ma la sua personalità forte e determinata la fece tornare presto nelle grazie della corte imperiale fino al momento in cui fu raggiunta dalla notizia della morte di Onorio, che non aveva lasciato eredi. Si doveva dunque trovare in fretta un successore e, tra i pretendenti, Placidia era quella che incarnava al meglio la dignità imperiale (era umile ma fiera) e avrebbe saputo difendere la dinastia. L’imperatore di Costantinopoli Teodosio II fece coniare le prime monete con la sua effigie e la rispedì in Italia con i figli e un esercito per sopraffare l’usurpatore che nel frattempo si era insediato, Giovanni.
Rovescio della moneta d’oro conosciuta come “solido di Galla Placidia”. Coniata a Ravenna nel 425-450 d.C. Museo nazionale romano, Roma
Foto: Bridgeman / ACI
Placidia tornava in Italia, e lo faceva da imperatrice. Non più sorella, figlia o moglie di imperatori: stavolta era lei a detenere il potere assoluto, e lo esercitò dal 425 al 437. S’installò dunque ad Aquileia e qui aspettò che le truppe di Bisanzio, con un inganno, saccheggiassero Ravenna e le portassero Giovanni in catene. Purtroppo, erano anni terribili: i barbari sciamavano per i territori dell’impero romano d’Occidente azzannandone pezzi e mutilandolo con pretese di legittimazione che assomigliavano a ricatti. Le campagne d’Italia erano diventate un campo di battaglia e i tranquilli borghi d’un tratto vennero investiti dalle razzie degli unni e dei goti: frecce e fiamme, saccheggi e stupri.
La violenza irruppe nella vita di tutti, dalle classi più agiate fino alla plebe. Era in questo mondo che Placidia prese il potere e, come gli altri reggenti, non fu capace di fermare la valanga che stava disgregando l’integrità dell’impero. Non lasciò quasi mai Ravenna, lontana dai continui fuochi e ribellioni che si accendevano un po’ ovunque ma non riuscivano a raggiungere lei, chiusa nel palazzo imperiale. Negli anni in cui fu imperatrice perse l’Africa del nord, che fu conquistata dai vandali quando lei cadde vittima di un inganno perpetrato da Ezio, uno dei tre uomini che aveva messo a capo delle forze armate e che passarono molto tempo a guerreggiare fra di loro mentre l’impero cadeva a pezzi.
Il sacco di Roma. I goti saccheggiarono la capitale dell’impero romano d’Occidente nel 410. Roma era inviolata da 800 anni. Incisione del XIX secolo
Foto: Granger / Album. Colore: Santi Pérez
Il ritiro religioso
Nel 437 Placidia abdicò in favore del figlio Valentiniano III. Il misticismo era sempre stato un tratto fondante del suo carattere e da quel momento si occupò sempre più di questioni religiose. Non era riuscita e tenere insieme l’impero romano d’Occidente, e s’impegnò quindi a difendere l’ortodossia cattolica contro le eresie ariane e nestoriane. Erano gli anni in cui si facevano intense, a volte persino sanguinose, le dispute teologiche e Placidia era una donna credente e inflessibile che di notte si ritirava dentro la chiesa di San Vitale a Ravenna, al lume delle candele, a pregare. Furono poche le apparizioni in pubblico: per onorare le personalità ecclesiastiche, come l’investitura del vescovo Pietro Crisologo, oppure per il suo instancabile lavoro di mecenate di chiese e mosaici.
La sua vita stava volgendo al termine, ma il passato ritornava. Il padre aveva incoraggiato un’assimilazione dei barbari nel sangue romano, lei stessa aveva generato il primo pretendente al trono barbaro e ora la figlia Onoria aveva ereditato la sua tempra. Obbligata a fidanzarsi con un senatore anziano, Onoria mandò un anello ad Attila in persona chiedendo di venire a liberarla. Era il gesto folle di una giovane, ma il re degli unni lo interpretò come una promessa di matrimonio e scese pochi anni dopo in Italia a reclamare la sua sposa – e il titolo d’imperatore romano che ne conseguiva. Scoperto l’intrigo, il fratello Valentiniano decise di metterla a morte e solo l’intervento di Placidia poté salvare la ragazza e commutare la pena in esilio. Ormai Placidia aveva esaurito le forze per lottare: nel 450, forse sentendo la fine vicina, chiese che le fosse portata da Barcellona la salma del piccolo Teodosio, il figlio avuto trentacinque anni prima dal goto Ataulfo e morto infante. Solo quando ebbe il corpo del piccolo accanto a sé, morì. Fu quasi sicuramente sepolta insieme a lui.
'San Giovanni appare a Galla Placidia'. Nel dipinto di Nicolò Rondinelli della fine del XV secolo, Placidia ringrazia san Giovanni per averla salvata da un naufragio. Pinacoteca di Brera, Milano
Foto: Scala, Firenze
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