L’anno 1816 è passato alla storia come l’“anno senza estate”. L’eruzione del vulcano Tambora a Sumbawa (Indonesia), avvenuta l’11 aprile dell’anno precedente, liberò tonnellate di polvere di zolfo che si diffusero in tutto il pianeta, provocando un duraturo raffreddamento che alterò il ciclo agricolo e finì per causare carestie. Questi effetti arrivarono a farsi sentire anche in Svizzera: a Cologny, nei pressi del lago Lemano, in un’elegante dimora chiamata Villa Diodati, si era trasferito per quell’estate un gruppo di amici provenienti dall’Inghilterra: il poeta Percy B. Shelley; la sua amante dell’epoca, Mary Godwin; il celebre scrittore Lord Byron; il suo medico e segretario personale John Polidori e Claire Clairmont, sorellastra di Mary.
Villa Diodati. Ubicata a Cologny, in Svizzera, si chiamava Villa Belle Rive, ma Lord Byron le mise il nome della famiglia proprietaria. Il suo aspetto esteriore non è quasi cambiato
Foto: Dea / Album
Da buoni romantici, gli abitanti di Villa Diodati amavano la natura, erano affascinati dai progressi della scienza e nutrivano una grande passione per i romanzi gotici. A causa del clima si videro costretti a passare molto tempo chiusi in casa e si abituarono a trascorrere le serate leggendo racconti del terrore. «La pioggia incessante ci confinava in casa. Alcuni volumi di storie di fantasmi capitarono fra le nostre mani [...] Sono freschi nella mia mente come se li avessi letti ieri», ricorderà Mary anni più tardi.
Commentavano anche i progressi di una scienza che, al tempo, aveva ancora aspetti confinanti con la magia. In particolare erano affascinati dagli esperimenti scientifici legati all’elettricità, come quelli effettuati da Luigi Galvani, che consistevano nel muovere le zampe di una rana attraverso una scarica elettrica, così come dalle speculazioni di Erasmus Darwin sulla possibilità di restituire la vita alla materia inanimata grazie agli impulsi elettrici.
In questo modo, fra storie di fantasmi, esperimenti e letture, la reclusione diede i suoi generosi frutti il giorno in cui Lord Byron propose che ogni membro del gruppo scrivesse una storia del terrore. L’idea fu accolta, e il risultato fu la nascita di due capolavori della letteratura fantastica: Il vampiro, di John Polidori – la storia di un seduttore aristocratico che dissangua tutte le donne che cadono nella sua rete, antecedente il più celebre Dracula di Bram Stoker (1897) –, e Frankenstein, di Mary Shelley.
Il medico scozzese Andrew Ure esegue un esperimento di eccitazione nervosa su di un cadavere nel 1818, anno di pubblicazione di 'Frankenstein'
Foto: Science Photo Library / Age Fotostock
La figlia del filosofo
A quell’epoca, Mary Shelley era ancora Mary Godwin. Nata a Londra 19 anni prima, da bambina aveva presenziato ai circoli letterari e filosofici che suo padre, il filosofo William Godwin, organizzava nella sua casa, di cui facevano parte le penne e le menti più innovative del suo tempo. Fu lì che, nel 1814, conobbe il poeta Percy B. Shelley, al tempo sposato e padre di due figli. Entrambi si innamorarono (fu lei a dichiararsi per prima), ma sin dal primo momento Godwin si oppose alla relazione, ragion per cui, decisa a non rinunciare a una vita in comune, due mesi dopo il primo incontro la coppia fuggì in Francia in compagnia di Claire, figlia della matrigna di Mary. Poco dopo si recarono in Svizzera dove rafforzarono i loro legami con Byron, di cui Claire divenne l’amante.
Quando Byron lanciò la sua singolare sfida, Mary ancora non aveva svelato le sue capacità di scrittrice. Bisogna supporre che la possibilità di affrontare il foglio bianco la spaventasse, dato il suo carattere estremamente sensibile e una certa instabilità emotiva che la portava a cadere spesso in stati depressivi e a porsi continuamente domande sulla relazione fra vita e morte. Forse per questo, l’inconscio – aiutato dal laudano, un oppiaceo di moda all’epoca, che utilizzava per combattere l’insonnia – accorse in suo aiuto. Secondo quanto ebbe a raccontare anni dopo, una notte fece un sogno terrificante: credette di vedere «il pallido studioso di un’arte profanatrice inginocchiarsi accanto al risultato della sua opera, vidi l’orribile fantasma di un uomo disteso dare qualche segno di vita, per via di un potente meccanismo: lo vidi agitarsi, ancora informe ma già quasi umano». Era nato il mostro del dottor Frankenstein.
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Mary Shelley, ritratto opera di R. Rothwell. 1840. National Gallery, Londra
Foto: Prisma / Album
Mary tradusse il suo incubo in un breve racconto su di uno scienziato che creava un essere mostruoso. Di ritorno in Gran Bretagna, Mary trasformò il suo primo racconto in un romanzo che venne pubblicato nel 1818 con il titolo Frankenstein o il moderno Prometeo, senza che apparisse il nome dell’autrice. Contò per esso sull’aiuto di Shelley, con cui si era sposata dopo il suicidio della sua prima moglie; la stessa Mary scriverà più tardi: «Mio marito mi ha sempre incitata a scrivere la mia pagina nel libro della fama e a crearmi una reputazione nell’ambito letterario». Nel 1831, riscrisse completamente la storia fino a ottenere la versione definitiva che è giunta fino ai nostri giorni.
Il dottore e la sua creatura
Il romanzo racconta la storia di uno scienziato svizzero, il dottor Victor Frankenstein, che, dopo aver assistito alle lezioni di un professore dell’Università di Ingolstadt, in Baviera, sugli ultimi progressi della scienza, decide che lui andrà ancora più lontano. «Esplorerò nuove vie, nuovi poteri fino ad arrivare ai misteri più profondi della creazione». Frankenstein si mette a studiare febbrilmente l’anatomia animale e i processi di generazione e corruzione, finché un giorno riceve un’illuminazione che gli fa scoprire «la causa della generazione e della vita» e lo convince di essere «capace di dare vita alla materia inanimata».
Per quasi due anni, Frankenstein realizza misteriosi esperimenti in una soffitta che utilizza come laboratorio. Con diverse parti di cadaveri che raccoglie nelle sale di dissezione e di animali che trova nei macelli forma un corpo umano di grandi dimensioni (2,40 metri di altezza). Usando sicuramente una pila come quella inventata da Alessandro Volta verso il 1800, gli applica impulsi elettrici per cercare di donargli la vita. Finalmente, in una piovosa notte di novembre, alla tenue luce di una candela, Frankenstein vede che il suo mostro apre un occhio e inizia a respirare. Scappa terrorizzato e quando torna la Creatura – questo è il nome che ha dato alla sua creazione – è scomparsa. A partire da questo momento si sviluppa un intrigo romanzesco in cui il nuovo essere sperimenta la solitudine e l’ostilità degli uomini, uccide senza volerlo un bambino e sfida il suo creatore.
Edizione di 'Frankenstein' del 1831
Foto: Mary Evans Picture / Age Fotostock
Nelle tre versioni della storia si avverte l’incessante sforzo che l’autrice compie nell’intento di comprendere la stretta relazione fra vita e morte. Il decesso di due dei suoi figli, a causa di infezioni contratte durante un lungo viaggio in Italia, e quello dello stesso Percy B. Shelley in un naufragio, nel 1822, non fecero altro che accentuare la sua morbosa ossessione. Allo stesso tempo, nell’opera si trova il riflesso delle preoccupazioni scientifiche della sua epoca, come la legittimità della ricerca che contravveniva la morale tradizionale e la capacità dell’essere umano di creare e distruggere la vita.
Consacrata alla letteratura, alla cura del suo unico figlio superstite, Percy Florence, e al ricordo di Shelley, Mary si rifiutò sistematicamente di contrarre un nuovo matrimonio adducendo che dopo aver sposato un genio avrebbe solo potuto sposarne un altro. Di ritorno a Londra dopo un viaggio nel continente, iniziò a soffrire i primi sintomi della malattina, un tumore celebrale, che la porterà alla tomba il 1 febbraio del 1851. Dopo la sua morte, quando i suoi parenti presero visione delle sue proprietà trovarono, avvolto nella seta insieme al poema di Percy B. Shelley Adonais, il cuore di colui che era stato il suo sposo e mentore. Forse lo conservò nella speranza che, un giorno, un Victor Frankenstein in carne e ossa le restituisse il suo amato.
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