Sul muro di un vecchio edificio diroccato all'interno dell'ex ospedale psichiatrico di San Giovanni, a Trieste, campeggia una scritta rossa a caratteri cubitali: "La libertà è rivoluzionaria". Poco distante un altro edificio giallo in ottimo stato presenta una scritta analoga: "La libertà è terapeutica". I due murales sono entrambi opera dell'artista Ugo Guarino, che negli anni settanta aveva preso parte alla lotta dello psichiatra Franco Basaglia per la riabilitazione dei malati mentali culminata poi con la Legge 180 del 1978 che decretava la chiusura dei manicomi.
Uno psichiatra filosofo
Franco Basaglia nacque a Venezia l'11 marzo 1924 in una famiglia agiata. Frequentò il liceo classico Foscarini, dove conobbe l'insegnante antifascista Agostino Zanon dal Bo, fra i fondatori del Partito d'azione veneto. L'opera di dal Bo contribuì a forgiare all'interno del liceo un nutrito gruppo di studenti antifascisti, fra cui si annoverava anche il giovane Basaglia.
Franco Basaglia nel 1979
Foto: © MLucan, shorturl.at/osGS0
Iscrittosi alla facoltà di medicina e chirurgia dell'università di Padova, nel dicembre del 1944 venne arrestato per attività antifascista e rimase in carcere fino alla fine della guerra. Questa esperienza accentuò la sua repulsione per la reclusione e le ingiustizie. Laureatosi nel 1949, cominciò a lavorare come assistente nella clinica per le malattie nervose e mentali della stessa città fino al 1961. Risale a questi anni l'inizio di una sostanziosa produzione di ricerca e l'avvicinamento alla filosofia, in particolare agli scritti di Jean Paul Sartre, all'esistenzialismo e alla fenomenologia. Per questo suo interesse, il direttore della clinica Giovanni Battista Belloni, uomo di vecchio stampo, lo chiamava ironicamente “il Filosofo”. Nel 1953 Basaglia sposò Franca Ongaro, sorella di un compagno di prigionia, che diventerà non solo compagna nella vita, ma anche nella professione. I due condivideranno infatti il lavoro sul campo e la stesura di diversi libri.
«E mi no firmo»
Nel 1961 Basaglia vinse il concorso per l'ospedale psichiatrico di Gorizia e vi si trasferì prontamente con la famiglia a seguito. Uno degli episodi più noti avvenne proprio nel primo periodo della sua direzione, quando l'ispettore capo Michele Pecorari gli portò, come di consuetudine, il registro delle contenzioni su cui il direttore avrebbe dovuto apporre una firma. L'odiosa pratica della contenzione consisteva nel legare al letto per mezzo di cinghie di cuoio i degenti particolarmente agitati. Basaglia prese la penna che Pecorari gli porgeva, rimase in sospeso per qualche attimo e poi dichiarò: «E mi no firmo». Questo atto di ribellione formale lasciò interdetti i presenti e indicò la via che il nuovo direttore intendeva praticare: slegare i “matti”.
'Il volo'. Installazione di Ugo Guarino alla Casa del Popolo di Ronchi dei Legionari nel 1975
Foto: Autore anonimo, 1975 - Centro Di documentazione 'oltre il giardino', sito nel Parco culturale di San Giovanni, ex ospedale psichiatrico
All'epoca, questi erano considerati elementi socialmente irrecuperabili e pericolosi per sé stessi e per gli altri, da allontanare dalla società civile e rinchiudere lontano dagli sguardi delle persone “normali”. I manicomi erano non-luoghi isolati da sbarre e filo spinato, i malati erano controllati a vista da robusti infermieri pronti ad intervenire con metodi violenti e i loro eccessi venivano domati con elettroshock, camicie di forza, lobotomia, psicofarmaci, cloroformio, ma non si tentava di curare la malattia. Basaglia dovette ben presto scontrarsi con la durissima realtà di questo manicomio di frontiera e con la mentalità retriva del personale. Ciononostante rafforzò la sua idea: bisognava estirpare questa terribile istituzione creando alternative. Organizzò un'équipe di giovani psichiatri pronti ad accettare la sfida ispirandosi al modello della comunità terapeutica che Maxwell Jones aveva sperimentato in Scozia. Franca Ongaro, che sosteneva attivamente i progetti del marito, ebbe modo di formarsi per qualche tempo nella comunità di Jones, riportando così a casa l'esperienza pratica di quanto appreso sul campo.
A Gorizia Basaglia attuò nuove regole: abolì le contenzioni fisiche e l'elettroschock, inaugurò un nuovo rapporto col paziente basato sull'ascolto, sul sostegno morale. I pazienti venivano fatti parlare e ascoltati. Istituì assemblee plenarie e di reparto. La parola e l'ascolto ricoprivano ruoli fondamentali. Bisognava però abituare gli assistiti a parlare, poiché ne avevano perso l'abitudine. Antonio Slavich, amico e collega, raggiunse Basaglia a Gorizia. I due si prefissero di parlare quotidianamente con i 650 ricoverati. Slavich fece leva sulla loro curiosità: acquistò una 500 usata beige e li portava a spasso. Durante le loro scorribande nella campagna isontina, rompeva il ghiaccio e li faceva parlare. Nonostante i grandi risultati, l'équipe di Basaglia non ebbe vita facile a Gorizia, dove la diffidenza e spesso l'aperta ostilità verso le nuove metodologie da parte di personale e istituzioni intralciavano il lavoro. I frutti dell'esperienza troveranno sbocco in quello che diventerà il libro simbolo del movimento di Basaglia: L'istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico. Nel 1969 venne chiamato a Parma presso l'ospedale psichiatrico di Colorno. Anche qui le modalità dell'esperienza goriziana si ripeterono sia nelle conquiste che nei fallimenti.
Murales di Ugo Guarino nell'ex ospedale psichiatrico di San Giovanni, a Trieste
Foto: © Martina Tommasi
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La "città dei matti" e la Legge 180
Nel 1971 Basaglia accettò la direzione dell'ospedale psichiatrico di Trieste. Michele Zanetti, presidente della provincia di centro-sinistra che all'epoca gestiva il manicomio, gli aveva garantito piena libertà d'azione. L'enorme struttura sorgeva sul colle di San Giovanni, nell'immediata periferia della città, e ospitava 1182 malati di cui 840 sottoposti a regime coatto. Basaglia si mise all'opera, riorganizzò l'équipe di collaboratori e i reparti. L'obiettivo era spezzare l'isolamento dei degenti integrandoli nella città grazie a soluzioni alternative di cura (e non di contenzione). Forte delle esperienze di Gorizia e Parma, aveva ben chiaro che per attuare un cambiamento profondo era necessario un piano politico. Bisognava chiudere letteralmente il manicomio e distribuire gli assistiti in una rete di servizi esterni. Far entrare i “matti” in città e i cittadini negli spazi del manicomio. Lavorare ponendo la persona al centro. Prevenire e curare, non escludere e reprimere. Così si organizzarono i “gruppi appartamento, prima all'interno del comprensorio e poi in città (destando le proteste dei triestini). Si mirò a responsabilizzare i malati, a renderli autonomi. Nel 1973 arrivò il riconoscimento giuridico della Cooperativa Lavoratori Uniti che offrì agli ex reclusi la possibilità di mantenersi occupandosi della pulizia e manutenzione dei reparti, del parco, delle cucine.
Nello stesso anno nacque Psichiatria Democratica, un movimento anti-istituzionale di confronto fra le diverse realtà di cura alternativa. Vi si avvicinarono non solo i medici, ma anche infermieri, politici, sindacalisti, studenti, gente comune. Intanto nei padiglioni del parco si organizzavano corsi creativi di pittura e scultura, di scrittura e teatro per gli assistiti. I “matti” venivano fatti uscire, partecipare alle iniziative della quotidianità cittadina o a brevi villeggiature fuori porta. Si cercava di normalizzare la loro esistenza. Ovviamente non era sempre facile, c'era paura sia da parte d ei “malati” che dei “sani”, ma la direzione era quella giusta, e in breve il parco di San Giovanni si aprì alla città: si organizzavano feste, concerti, attività culturali. Nel marzo del 1973 prese forma Marco Cavallo, un'opera collettiva, un cavallo azzurro di cartapesta nato nei laboratori artistici dell'ospedale grazie alle idee dei ricoverati. Azzurro come il cielo libero e con i sogni dei malati nella pancia. Per farlo uscire, Basaglia in persona dovette spaccare un cancello. Quindi, il corteo con seicento persone fra utenti e operatori si snodò dal manicomio a piazza Unità, il salotto buono della città, affermando simbolicamente e con forza la propria esistenza.
Il dibattito sui manicomi arrivò in Parlamento, ma se da un lato le frange più progressiste dei partiti erano favorevoli all'abrogazione dei manicomi, ci si doveva comunque confrontare con i timori della gente comune e con l'opposizione dell'ala politica più conservatrice. Il 13 maggio 1978 venne infine approvata la Legge 180, scritta e promossa dal deputato DC e psichiatra Bruno Orsini e meglio nota come Legge Basaglia, che portò alla chiusura dei manicomi. Da questo momento, i malati acquisiranno una nuova dignità, la persona otterrà una nuova centralità e verrà presa in carico basandosi sull'accoglienza e la collaborazione attiva, e non sulla reclusione e l'annientamento. La prima reazione dei cittadini fu ostile. Nacquero in tutta Italia associazioni di familiari che chiedevano l'abolizione della legge, sentendosi abbandonati con i familiari malati in casa. Anche nei condomini, pensare di avere un appartamento “di matti” sullo stesso pianerottolo non era cosa gradita. La rivoluzione basagliana fu un atto contro l'oppressione. Se oggi l'atteggiamento generale verso la malattia mentale è più comprensivo, non dobbiamo dimenticare che in Italia l'80% dei manicomi fa ancora ricorso alla contenzione.
L'opera collettiva 'Marco Cavallo'
Foto: Pubblico dominio
Dopo l'approvazione della legge, Franco Basaglia fu sottoposto a diversi processi per omicidio, di cui veniva sistematicamente accusato ogni volta che un ex internato si macchiava di tale crimine. Fu sempre assolto. Morì a Roma per un tumore cerebrale il 29 agosto del 1980. Questo il suo monito: «Un giorno forse i manicomi li riapriranno, ma oggi li abbiamo chiusi. Abbiamo dimostrato che l'impossibile è possibile».
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