Federico Fellini, quando «l’amore per la realtà è più forte della realtà»

Con quattro premi Oscar al miglior film straniero e uno alla carriera nel 1993, due David di Donatello, una Palma d’Oro, Federico Fellini è una pietra miliare nella storia del cinema italiano. Il suo stile di regia, le sue immagini, le sue riflessioni sul cinema hanno influenzato profondamente i cineasti contemporanei

Federico Fellini, riminese di nascita ma romano d’adozione, è stato un osservatore d’eccezione dei tipi umani che affollano le sue due città, icasticamente rappresentati durante gli oltre quarant’anni trascorsi dietro la macchina da presa. La sua è una satira a volte bonaria, altre crudele, dell’umanità nelle sue accezioni più disparate, che lascia emergere una realtà sovrabbondante. Una realtà che supera gli stessi personaggi e finisce per confondersi con un sogno lucido, sia esso di Fellini o degli spettatori.

Scena tratta dal film “L’intervista” (1987)

Scena tratta dal film “L’intervista” (1987)

Foto: Pubblico dominio

I primi anni a Roma

La poetica di Fellini non nasce da assidue frequentazioni dei cinema di Rimini. I suoi soggetti si sviluppano a partire dai ritratti e dalle vignette umoristiche, che già durante gli anni scolastici riscuotono un discreto successo. Firma infatti, quando è ancora al liceo, sul finire degli anni trenta, alcuni contributi per la Domenica del Corriere. Ma è a Roma che ottiene una certa notorietà come autore di soggetti comici, che lo porterà poi a scrivere le prime sceneggiature per il cinema. Qui Fellini entra a far parte della redazione della rivista satirica Marc’Aurelio, molto in voga tra la gioventù dell’epoca. Gli episodi che tratteggia sono scene di vita quotidiana, abitate dai personaggi più svariati e che preludono ai soggetti dei suoi film: il ragazzino della periferia, la stella del varietà, il tabaccaio dal grembiule nero, il fattorino dai baffetti all’americana e così via.

La comicità, intesa da Fellini come «commedia [...] dramma comune, umano, umoristico, risibile, addirittura buffonesco» è la cifra che caratterizza questi primi anni romani e che costituirà l’humus delle sue produzioni cinematografiche. «A me pare di avere fatto dei film anche comici. Lo sceicco bianco, I vitelloni non erano dei film comici? E La città delle donne non era un film comico? Come anche , del resto» dichiarerà il regista.

Scena tratta da "I vitelloni" (1953)

Scena tratta da "I vitelloni" (1953)

Foto: Pubblico dominio

Il realismo felliniano

Grazie alla notorietà acquisita con il Marc’Aurelio, Fellini riesce a incontrare diverse personalità del mondo radiofonico e dello spettacolo, tra cui il comico Aldo Fabrizi. È proprio l’attore romano a presentargli Roberto Rossellini, per il quale Fellini cura i copioni dei due film candidati ai premi Oscar per la migliore sceneggiatura: Roma città aperta (1945) e Paisà (1946). Fellini riconosce nel regista un maestro, ma i suoi primi film, pur mantenendo una matrice neorealista, se ne discostano per un aspetto sostanziale. A comprenderlo immediatamente è Pier Paolo Pasolini, che in una lunga lettera pubblicata postuma chiama «creaturale» il realismo felliniano, notando: «Che esistesse una realtà e un realismo, Fellini lo è venuto a sapere attraverso un processo immediato e non problematico. Rossellini può averlo influenzato nel senso che l’amore per la realtà è più forte della realtà».

Quello che lo scrittore coglie del regista riminese è il disinteresse verso un verismo che ritragga precisamente le condizioni in cui versavano gli strati popolari nell’Italia degli anni del fascismo e del dopoguerra. La realtà politico-sociale che condiziona la vita dei protagonisti non è che uno sfondo destinato a perdersi. Ciò che conta è l’esistenza del personaggio, ritratto nel suo vagare tra eventi mondani o feste di paese. Proprio in questi momenti ludici il reale può manifestarsi per quello che è, senza che le convenzioni del lavoro o delle istituzioni possano definirlo e conferirgli una certa sensatezza. È così che gli spettatori sono invitati, osservando e partecipando alle rocambolesche avventure dei protagonisti, a chiedersi quale sia la ragione dietro questo vivere.

Anche i personaggi arrivano alla fine a un punto di rottura. A Gelsomina, protagonista del film premio oscar La strada (1954) che in lacrime dice di essersi stufata di vivere, il Matto risponde nel suo toscanaccio: «‘Un lo so a cosa serve questo sasso qui ma a qualcosa deve servire, perché se questo è inutile, allora è inutile tutto. Anche le stelle. Almeno credo. E anche tu… anche tu servi a qualcosa, con la tu’ testa di carciofo».

Giulietta Masina in "La strada", 1954

Giulietta Masina in "La strada", 1954

Foto: Pubblico dominio

Nonostante la differenza di ambientazione e di estrazione sociale dei personaggi, anche in La dolce vita (1960) Fellini, attraverso l’evoluzione umana del protagonista Marcello, porta il pubblico a farsi le stesse domande che si era posta Gelsomina. Sul finale del film Marcello, dopo un infinito peregrinare tra i luoghi e le feste frequentate dalle stelle del varietà, appare moralmente sconfitto, incapace di riconoscere la purezza nel volto di una ragazza incontrata tempo prima. La sua incapacità di ricordarla lo fa percepire come vittima senza speranza di quella realtà da lui sempre inseguita.

Il cinema come messa in scena di un sogno

Con La dolce vita Fellini inizia una nuova stagione creativa, che con (premio Oscar al miglior film straniero nel 1964) e Giulietta degli spiriti (1965) raggiunge il suo apice. In questi due film il regista mette in scena i sogni dei protagonisti. Sia Guido in sia Giulietta in Giulietta degli spiriti sono in crisi, creativa nel primo caso, coniugale nel secondo. In entrambe le pellicole, la trama è costituita da pochissimi eventi e si svolge interamente nelle fantasie e nella memoria di Guido e Giulietta. Tra ciò che accade al di fuori dei protagonisti e ciò che questi ricordano non c’è distinzione, e i personaggi e le scenografie assumono un ruolo simbolico.

Qualche anno prima Fellini aveva conosciuto la psicoanalisi junghiana tramite il dottor Bernhard, presso cui faceva psicoterapia. In questo modo, il cinema diventa per lui uno strumento per indagare le fantasie e i simbolismi dell’inconscio collettivo, attraverso figure di suore, prostitute, saltimbanchi e ambientazioni oniriche. «Non faccio un film per dibattere tesi o sostenere teorie. Faccio un film alla stessa maniera in cui vivo un sogno. Che è affascinante finché rimane misterioso e allusivo, ma che rischia di diventare insipido quando viene spiegato».

Non sono soltanto i personaggi e le scenografie a rendere le atmosfere dei film allusive, ma anche le musiche e i colori. Giulietta degli spiriti è infatti il primo film a colori del regista. Si tratta di un colore pulito, luminoso, che sembra quasi artificiale. L’effetto che vuole creare è quello di far apparire gli oggetti come se fossero visti per la prima volta. Fellini stesso è uno spettatore: «Ho bisogno di essere un ospite nella mia stessa creazione. Deve esserci sempre questa estraneità».

Federico Fellini sul set del film "Amarcord" nel 1973

Federico Fellini sul set del film "Amarcord" nel 1973

Foto: Cordon Press

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L’autobiografia

Le atmosfere oniriche inaugurate con i film degli anni sessanta rimangono una costante nella produzione felliniana, soprattutto quando rievoca i due luoghi in cui ha vissuto per tutta la sua vita: Roma in Roma e Rimini in Amarcord. In questo caso non ci sono protagonisti, perché il ruolo centrale è interpretato dalle due città. Anche la trama svanisce: si tratta piuttosto di una sequenza di scene che ritraggono un mondo che non tornerà più. In Roma (1972) Fellini è presente nel ruolo di sé stesso: vi recita nell’atto di girare il suo ultimo film. Così, il regista ricorda a sé e agli spettatori che quella non è Roma, ma la Roma dei suoi ricordi.

Non è la prima volta che Fellini racconta alcuni dettagli della sua storia nelle proprie pellicole: già nel 1952, ne I vitelloni, aveva doppiato l’attore che interpreta Moraldo nell’ultima scena, nell’atto di salutare un amico dall’interno del treno in partenza da Rimini e diretto a Roma.

Il regista arriva finalmente a omaggiare la città che gli diede i natali il 20 gennaio 1920 con il film Amarcord, del 1973, premiato lo stesso anno con l’Oscar al miglior film straniero. Sulle note delle musiche composte da Nino Rota, sfilano tutti i personaggi della sua gioventù e le atmosfere, i suoni e i colori vengono ricordati con nostalgia. La folla di soggetti ritratti nelle riviste satiriche durante il liceo e nei primi anni romani riprende vita – ci sono anche gli uomini del regime, fino ad allora mai apparsi. Amarcord è quasi un testamento, una sorta di monito a ricordare un mondo spazzato via troppo velocemente da un’Italia pronta a cambiare definitivamente volto.

Il passaggio del transatlantico Rex. Scena tratta dal film "Amarcord"

Il passaggio del transatlantico Rex. Scena tratta dal film "Amarcord"

Foto: Pubblico dominio

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