Essere un cittadino romano

Per oltre cinquecento anni la condizione di cittadino romano rese libero chi la possedeva: solo essi, per esempio, potevano occupare cariche pubbliche, arruolarsi nella legione o contare su un matrimonio legale e su figli legittimi

 

 

Nel suo celebre discorso tenuto a Berlino Ovest nel giugno 1963, in piena Guerra fredda, il presidente degli Stati Uniti J.F. Kennedy manifestò il proprio appoggio agli abitanti della città dichiarando: Ich bin ein Berliner (Io sono un berlinese). Oggigiorno nessuno ricorda che l’arringa iniziava con un riferimento ai tempi romani, perché Kennedy stabiliva un parallelo tra l’orgoglio di sentirsi berlinese e quello che un romano, duemila anni prima, avrebbe provato nell’affermare Civis romanus sum, “Sono un cittadino romano”.

La toga era una sopravveste riservata esclusivamente ai cittadini romani. Nell'immagine, sarcofago del III secolo d.C. conservato nella basilica romana di San Lorenzo fuori le mura

La toga era una sopravveste riservata esclusivamente ai cittadini romani. Nell'immagine, sarcofago del III secolo d.C. conservato nella basilica romana di San Lorenzo fuori le mura

Foto: Dagli Orti / Aurimages

I grandi protagonisti della storia di Roma pronunciarono la frase con la stessa fierezza. L’eroe dei primi tempi della repubblica, Gaio Muzio Scevola, si presentò con tali parole (Romanus sum) al re etrusco Lars Porsenna dopo aver fallito nel tentativo di ucciderlo. Quando Cicerone denunciò gli abusi commessi dal governatore della Sicilia, Verre, ricordò le severe punizioni da infliggere al reo sebbene questi, al fine di evitare la tortura, si fosse più volte proclamato cittadino romano. Quasi un secolo dopo, a quanto riferiscono gli Atti degli Apostoli, quando san Paolo venne liberato denunciò i maltrattamenti ricevuti in prigione malgrado fosse per nascita un cittadino romano. Quest’ultimo aneddoto, di cui gli studiosi mettono in dubbio la veridicità, riflette il senso dell’onore che derivava da un simile status giuridico, il più tutelato dell’epoca, nonché quello che garantiva maggiori privilegi.

La cittadinanza romana infatti permetteva all’individuo libero di godere di un insieme di diritti che riguardavano ogni aspetto della vita quotidiana: poteva votare in assemblee e comizi, sposarsi legalmente e avere quindi figli legittimi che ne raccogliessero l’eredità, possedere beni, presentarsi alle elezioni e accedere alle cariche pubbliche, partecipare ai sacerdozi e arruolarsi nella legione. Poteva inoltre dedicarsi a qualsiasi attività commerciale in territorio romano.

Nell’ambito della giustizia, il cittadino poteva intraprendere azioni giuridiche davanti a un tribunale romano, essere assistito dal tribuno della plebe e ricorrere in appello contro le decisioni dei giudici. In epoca imperiale era sufficiente che il cittadino romano di qualsiasi parte dell’impero pronunciasse le parole Cæsarem appello (Mi appello a Cesare) perché la causa fosse trasferita direttamente a Roma. Fu questo il diritto invocato da san Paolo, che riuscì perciò a rimandare il processo di due anni e a portarlo a Roma. I cittadini potevano essere puniti unicamente con le frustate e condannati a morte per decapitazione. In tale modo fu ucciso Cicerone per ordine di Marco Antonio nel 43 a.C. Pure il nonno di quest’ultimo era stato decapitato nell’87 a.C. sotto Mario, durante le proscrizioni.

'Decapitazione di San Paolo'. Un cittadino romano poteva essere giustiziato solo tramite decapitazione, come nel caso di Paolo di Tarso. Olio di Enrique Simonet. 1887. Cattedrale di Malaga

'Decapitazione di San Paolo'. Un cittadino romano poteva essere giustiziato solo tramite decapitazione, come nel caso di Paolo di Tarso. Olio di Enrique Simonet. 1887. Cattedrale di Malaga

Foto: Niday Picture Library / Age Fotostock

Tuttavia la cittadinanza comportava anche dei doveri, soprattutto relativi alla tassazione. Per esempio i cittadini dovevano contribuire alle spese militari con una somma proporzionale alla loro ricchezza o pagare le tasse di successione destinate a finanziare i pensionamenti delle forze militari. Avevano anche l’obbligo d’iscriversi al censo cosicché lo stato potesse calcolare la classe a cui appartenevano in funzione della loro agiatezza e ciò aveva ripercussioni sul tipo di voto nei comizi centuriati.

Cittadine di serie B

Le donne romane erano escluse dalla vita politica e di conseguenza non potevano partecipare a tutte le attività pubbliche che caratterizzavano la dimensione politica del cittadino. Il giurista Ulpiano lo esprime in modo esplicito: «Le donne sono allontanate da tutti gli incarichi civili o pubblici e pertanto non possono essere giudici e non possono assumere cariche magistratuali»; aggiunge anche che «[non possono] garantire per terzi né essere procuratori». Un riflesso di tale mancata partecipazione alla vita pubblica lo troviamo nel nome: le donne non avevano il cosiddetto tria nomina, il segno più evidente della condizione di un cittadino; le donne di una stessa gens, o famiglia, erano chiamate con il gentilizio famigliare, come Claudia, Livia o Cornelia, al quale si aggiungeva un ordinale che ne indicava la successione: seconda, terza, quarta...

Nell’ambito privato, la donna era soggetta a restrizioni legali perché non aveva una propria potestas, ma era sottomessa a quella del padre e poi del marito. Alla morte di questi passava sotto il controllo di un tutore perfino per disporre delle sue proprietà e per effettuare certe transazioni legali: era lui che doveva accordare il consenso formale. Secondo i giuristi, la presenza di un tutore veniva giustificata con la debolezza dovuta al sesso, l’ignoranza nelle questioni legali e la mancanza di buonsenso. Poiché non possedevano autorità legale le donne non potevano essere capifamiglia e quindi, una volta vedove, non potevano adottare né esercitare la tutela sui propri figli o su qualsiasi altro membro della famiglia.

Diritti e doveri delle donne di Roma

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Ciononostante le donne romane potevano godere di alcuni diritti basilari del cittadino. Se il padre moriva prima che la figlia si sposasse, questa aveva lo stesso diritto dei fratelli maschi a una divisione equa dell’eredità. Le donne potevano possedere beni, disporne, prendere parte a contratti e amministrare le loro proprietà in completa autonomia ma, se queste attività comportavano un’ufficializzazione giuridica, doveva intervenire il tutore, la cui presenza ed approvazione erano spesso meramente formali giacché era la donna a portare avanti le pratiche. C’erano romane che gestivano immense fortune e, nei suoi epigrammi, Marziale ne deride alcune, per la maggior parte vedove senza figli, perché facili prede dei cacciatori di dote. Ci sono poi casi di liberte ricche e di cittadine che nelle province amministravano gli affari. Ne è un esempio Lidia, una commerciante di stoffe pregiate di Filippi, in Macedonia, che accolse san Paolo e i suoi compagni.

Sebbene la donna non avesse il diritto di prendere decisioni politiche, poteva lavorare nell’ombra e anche promuovere il mecenatismo: Ottavia minore, sorella di Augusto, fece probabilmente costruire a Roma il portico che ne ha assunto il nome e che comprendeva un tempio, una biblioteca e una pinacoteca. Quanto alla religione, le donne erano escluse dalle alte cariche tranne che per i sacerdozi delle dee Cerere e Vesta. È anche vero però che quando gli uomini venivano investiti di ruoli importanti dovevano avere al loro fianco la moglie: il flamen dialis, sacerdote di Giove, doveva avere una consorte che rivestisse il ruolo di flaminica dialis; il rex sacrorum doveva essere sposato e se la sua compagna, la regina sacrorum, moriva, era costretto a rinunciare alla carica.

I cittadini di Roma donano oro e gioielli per costituire un nuovo esercito dopo la sconfitta subita a Canne per opera di Annibale. Olio di Giuseppe Sciuti. 1894. Galleria nazionale d’arte moderna, Roma

I cittadini di Roma donano oro e gioielli per costituire un nuovo esercito dopo la sconfitta subita a Canne per opera di Annibale. Olio di Giuseppe Sciuti. 1894. Galleria nazionale d’arte moderna, Roma

Foto: Bridgeman / ACI

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Come ottenere la cittadinanza

Per essere cittadino romano bastava nascere da un matrimonio in cui gli sposi fossero entrambi cittadini. Nel caso di un’unione non legale la Lex Minicia de liberis – datata presumibilmente intorno al I secolo a.C. – stabiliva che i discendenti acquisivano la condizione del progenitore con lo status inferiore: i figli di un romano e di una non cittadina, o viceversa, non erano dunque cittadini romani. Esistevano però altri modi per acquisire tale privilegio. Potevano ottenerlo gli schiavi divenuti liberti purché rispondessero a tre requisiti ben precisi: essere maggiori di 30 anni, avere avuto come padrone un cittadino romano ed essere stati affrancati sotto la supervisione di un magistrato. In quanto nuovi cittadini adottavano i tre nomi che ne evidenziavano la precedente schiavitù: lo schiavo Narcissus, una volta divenuto liberto imperiale adottò il prænomen e il nome dell’imperatore Claudio, di cui era segretario, e divenne Tiberio Claudio Narciso.

In ambito militare la legione straniera era riservata ai cittadini. Uno straniero, o peregrinus, si arruolava soltanto nelle unità ausiliarie, ma dopo 25 anni di servizio poteva ricevere come premio di pensionamento il diritto di cittadinanza romana e godere finalmente dei diversi vantaggi derivati dal suo nuovo status, tra i quali lo ius connubii, il diritto di sposare legalmente una straniera. Era uno dei più importanti perché durante il servizio attivo i soldati non potevano prendere moglie. Se spesso formavano comunque delle famiglie, la donna e i figli non avevano alcuna tutela legale. Diventare cittadino consentiva quindi di legalizzare le frequenti relazioni dei soldati con donne indigene e di fornire una sicurezza giuridica ai discendenti.

Delle truppe ausiliarie formate da stranieri, o peregrini con i caratteristici scudi oblunghi, combattono contro i daci. Colonna Traiana inaugurata  a Roma nel 113 a.C.

Delle truppe ausiliarie formate da stranieri, o peregrini con i caratteristici scudi oblunghi, combattono contro i daci. Colonna Traiana inaugurata a Roma nel 113 a.C.

Foto: Scala, Firenze

I peregrini potevano accedere allo status di cittadino anche per concessione individuale o collettiva, a volte come riconoscimento per una prestazione militare straordinaria. Per esempio, il 18 novembre dell’89 a.C., durante la Guerra sociale (91-88 a.C.), il comandante in capo dell’esercito Gneo Pompeo Strabone concesse tale privilegio a un gruppo di trenta cavalieri iberici della regione dell’Ebro, la cosiddetta Turma salluitana, per premiare il coraggio e il valore dimostrati durante l’assedio di Ascoli, una roccaforte dei ribelli italici.

Spesso dunque si faceva leva sull’aspettativa di ottenere la cittadinanza e in tal modo i generali rinforzavano la lealtà delle truppe ausiliarie nelle province. Si vennero a creare delle clientele militari basate sulla relazione personale tra un generale e il suo esercito che si rivelarono uno strumento fondamentale durante le guerre civili. È ciò che accadde quando Cecilio Metello e Pompeo il Grande attaccarono Sertorio nell’Hispania Ulterior. Entrambi i generali concessero la cittadinanza agli spagnoli leali alla propria causa, come dimostrano le numerose iscrizioni ispaniche di Cecilio e Pompeo: i nuovi cittadini formarono il proprio nome in omaggio a questi generali.

Tra coloro che risultarono favoriti da Pompeo figura Lucio Cornelio Balbo, membro di una potente famiglia di commercianti di origine cartaginese stabilitasi a Gades, l’attuale Cadice. Proprio Pompeo concesse la cittadinanza a Balbo, che fu un uomo di fiducia di Giulio Cesarea tal punto che ne amministrò la fortuna privata e ricoprì la carica di console di Roma nel 40 a.C. Nel 56 a.C. i suoi nemici lo accusarono di aver usurpato la cittadinanza e lo sottoposero a processo. Venne difeso da Cicerone e fu assolto; inoltre Balbo ottenne da Cesare la cittadinanza romana per le sue genti, i gaditani.

Il diploma militare era una tavoletta di bronzo che conferiva la cittadinanza ai peregrini arruolati nelle forze armate dopo 25 anni di servizio. I secolo d.C.

Il diploma militare era una tavoletta di bronzo che conferiva la cittadinanza ai peregrini arruolati nelle forze armate dopo 25 anni di servizio. I secolo d.C.

Foto: Bridgeman / ACI

Nel processo di romanizzazione il conferimento della cittadinanza a intere comunità e non a singoli individui giocò un ruolo importantissimo. Man mano che l’Urbe estendeva i propri domini vennero promulgate leggi che in un primo momento concedevano la condizione di latino e in seguito lo status superiore di cittadino romano ai membri dei nuclei urbani che rispondevano a certi requisiti: stile di vita romano, presenza di cittadini romani tra gli abitanti, ecc.

In tal modo si cercava di favorire l’integrazione all’interno dei confini romani e di assicurare la presenza dei soldati nelle legioni, che potevano essere formate unicamente da cittadini. Non solo: simili misure permettevano ai personaggi influenti dei gruppi indigeni di governare le città senza che l’etnia di appartenenza costituisse un problema. Invece di favorire la xenofobia e l’assoggettamento, questa politica permise l’integrazione dei popoli vinti che dimostravano lealtà a Roma: in questo modo bastavano poche forze per controllare le regioni conquistate. S’incentivava anche l’autonomia amministrativa e si accresceva il numero di persone che avrebbero costituito l’élite tramite matrimoni legalmente riconosciuti.

Nessuno è straniero

In tale politica di municipalizzazione si rivelò essenziale lo Ius Latii promulgato dal fondatore della dinastia flavia Vespasiano tra il 73 e il 74 d.C. Grazie a tale decreto le comunità ispaniche raggiunsero lo stato giuridico latino, il cui beneficio più rilevante era la concessione della cittadinanza romana a qualsiasi persona avesse ricoperto una carica pubblica. Il passaggio definitivo giunse con l’Editto di Caracalla, com’è conosciuta la Constitutio Antoniniana promulgata nel 212 d.C. Tale decreto concesse la cittadinanza romana a tutti gli uomini liberi dell’impero. Anni prima, nel 143 d.C., l’oratore Elio Aristide aveva così pronunciato il suo elogio di Roma: «Né i mari né le terre sono un ostacolo sulla strada della cittadinanza, l’Europa e l’Asia non sono trattate diversamente. Tutti i diritti vengono riconosciuti a tutti. Nessuno di coloro che meritano potere o fiducia ne è escluso».
La retorica era divenuta realtà.

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