La cucina rinascimentale tra banchetti e nuovi ingredienti

Il periodo che va dal XV al XVI secolo fu caratterizzato da un grande dinamismo gastronomico grazie a una nuova generazione di professionisti della tavola e ai nuovi ingredienti che fecero la loro comparsa sui mercati europei

Sul finire del Medioevo la penisola italiana era costellata da una miriade di signorie e stati regionali. I signori, se da un lato seguivano mire espansionistiche aggressive al fine di garantirsi più vasti territori con cui provvedere ai rifornimenti alimentari, dall’altro finanziavano opere di architettura, urbanistica ed altre arti per dimostrare la propria magnificenza. Oltre alla pittura, la scultura, la musica e la letteratura anche la cucina visse una fase di grande prosperità grazie ad una nuova generazione di cuochi, scalchi e intellettuali che si dedicarono a quella che potremmo definire un’“arte minore”.

Banchetto di Carlo V di Francia. 'Grandes Chroniques de France'. Miniatura di Jean Fouquet. 1455-1460

Banchetto di Carlo V di Francia. 'Grandes Chroniques de France'. Miniatura di Jean Fouquet. 1455-1460

Foto: Pubblico dominio

 

 

Maestro Martino e il Platina

Il primo protagonista di questa nuova generazione fu Maestro Martino de Rossi da Como. Martino nacque fra gli anni venti e trenta del XV secolo nella valle del Blenio, all’epoca territorio appartenente al ducato di Milano. Probabilmente dopo un periodo di apprendistato si trasferì nella capitale: la sua presenza è attestata da un documento che lo annovera tra la corte di Federico Sforza. La sua definitiva affermazione avvenne però a Roma, dove un documento del 1462 lo cita a servizio del patriarca di Aquileia, Ludovico Scarampi Mezzarota, al secolo Lodovico Trevisan, che per la magnificenza della sua tavola era soprannominato “Cardinal Lucullo”.

Martino si differenziava dai colleghi per la capacità di creare piatti ex novo e di reinventare quelli tradizionali secondo un gusto moderno. Le sue ricette verranno trascritte e raccolte nel Libro de Arte Coquinaria, compilato in lingua volgare fra il 1450 e il 1467. Stando al testo, le caratteristiche della cucina di maestro Martino sono caratterizzate da un abbondante ricorso al burro, il ritorno ai sapori originali con la drastica riduzione delle spezie e il bando di alcuni aromi considerati “plebei”, aglio e cipolla in primis. Nel libro compaiono spunti provenienti dalle cucine regionali e l’influenza araba nelle salse a base di uvetta, prugne e uva. Fu lui il primo a scrivere la ricetta della finanziera piemontese realizzata con gli scarti della macellazione di galletti e bovini e della mostarda vicentina. Diede ampio spazio alla pasta, in particolare i vermicelli, che a suo dire una volta essiccati potevano durare anche due o tre anni. Riservava una grande attenzione ai colori degli ingredienti e alle accortezze igienico-sanitarie. Fu il primo ad usare il termine “polpetta” (riferito però a un involtino di carne allo spiedo), ma prese le distanze da piatti di antichissima origine come puree e pappe di cereali e verdure.

Copia del 'Libro de arte coquinaria' di Maestro Martino custodita presso la Library of Congress di Washington

Copia del 'Libro de arte coquinaria' di Maestro Martino custodita presso la Library of Congress di Washington

Foto: Pubblico dominio

Scritto in maniera accessibile, il Libro de Arte Coquinaria propone anche delle varianti in caso di mancanza di alcuni ingredienti. In assenza di un timer, i tempi di cottura vengono proposti secondo lo scandire delle preghiere: due Pater Noster, tre Miserere eccetera. Oggi di questo magnifico testo rimangono quattro esemplari, due dei quali conservati negli Stati Uniti, a Washington e New York e due in Italia, uno presso la Biblioteca Vaticana e uno a Riva del Garda.

Durante il suo soggiorno romano maestro Martino conobbe l'umanista Bartolomeo Sacchi, detto il Platina, e con tutta probabilità i due collaborarono alla stesura di un'altra opera fondamentale della cucina rinascimentale: il De honesta voluptate et valitudine, il primo libro stampato di cucina, edito nel 1474 e firmato dal Platina stesso. Se il risultato finale è un ricettario comprendente diverse ricette di Martino tradotte in latino, l'intento dell'umanista era quello di creare un manuale teorico-pratico di consigli di tipo igienico-sanitario e di buone abitudini quotidiane. Dal 1470 maestro Martino tornò a Milano, nelle cucine del conte Gian Giacomo Trivulzio. Morì in data incerta verso l’ultimo ventennio del secolo.

Ritratto di Bartolomeo Scappi

Ritratto di Bartolomeo Scappi

Foto: Pubblico dominio

Bartolomeo Scappi

L’altro grande nome della cucina rinascimentale è quello di Bartolomeo Scappi. Nato attorno al 1500, non se ne conosce la zona d’origine ma le ipotesi variano da Bologna a Venezia o – più verosimilmente - ai dintorni di Varese. La prima documentazione certa risale al 1536 quando, alle dipendenze del cardinal Lorenzo Campeggi, organizza un banchetto in onore dell’imperatore Carlo V. Lo ritroviamo poi a Roma, quando nel 1549 diventa cuoco di papa Paolo III. Da questo momento in avanti servirà ben sei papi di cui si ricorda in particolare l’apprezzamento di Pio V che lo aveva nominato “cuoco segreto”, ovvero cuoco personale. Come maestro Martino, anche Scappi lascerà un’eredità scritta pubblicando nel 1570 Opera, un ponderoso volume in cinque tomi più uno dedicato alla tavola degli infermi e convalescenti.

L’Opera di Bartolomeo Scappi venne pubblicata con la benedizione papale di Pio V, e contiene più di mille ricette oltre a trattare argomenti come la strumentazione di cucina, la conoscenza delle materie prime, le tecniche di cottura e di conservazione dei cibi, le norme igieniche e le indicazioni per allestire i banchetti. Insomma, una sorta di enciclopedia gastronomica corredata da illustrazioni esplicative. Il libro ebbe un successo travolgente, tanto da determinare le basi della cucina classica e di quella francese, e venne ristampato fino al 1643. Scappi morì nel 1577 a Roma, sua patria adottiva, dove venne sepolto nella chiesa dedicata ai cuochi e ai fornai, quella dei santi Vincenzo e Anastasio alla Regola.

La cucina di Scappi

Fin dagli esordi romani Scappi si guadagnò una grande fama, tanto che alla morte di Paolo VI si vociferava che il successivo conclave per eleggere il nuovo pontefice sarebbe durato meno senza i suoi manicaretti. Nella sua Opera possiamo individuare tre filoni regionali facenti capo a tre grandi città: Milano, Roma e Napoli. Accanto a queste, compaiono ricette genovesi, fiorentine, veneziane e via dicendo. Per quanto riguarda l'area “lombarda” (che copre tutta l'area padana) troviamo zuppe, risotti, rane fritte coperte da una salsa detta agliata «come s'usa in Lombardia», torte verdi ripiene d'erbe e una gran varietà di ravioli e tortelli farciti di carne o ortaggi. E poi oche e capponi grassi ripieni, uova «affrittellate» (ovvero frittate), i formaggi – fra cui spicca il parmigiano che egli definisce «il miglior formaggio al mondo». A Venezia è il pesce a farla da padrone: ombrine, spigole, il rombo «in potaggio» (cioè in umido), calamaretti ripieni in brodo. A Genova troviamo il “carpione genovese”, cioè il pesce conservato, la torta genovese alle erbe, la cotognata. A Roma si viaggia fra polpettoni, maccheroni, zeppole (non quelle dolci che conosciamo oggi, ma frittelle di farina di ceci), e i «casci marzolini spaccati» (i pecorini stagionati), mentre il sud è rappresentato dagli immancabili maccheroni, dalla pizza, dalle mozzarelle e da preparazioni vegetali come la «minestra di cavoli torzuti» (cioè il cavolo cappuccio) o i «broccoli acconci» (conditi).

Opera di Bartolomeo Scappi, maestro nell'arte del cucinare. Alessandro de Vecchi, Venezia, 1622

Opera di Bartolomeo Scappi, maestro nell'arte del cucinare. Alessandro de Vecchi, Venezia, 1622

Foto: Pubblico dominio

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Cristoforo da Messiburgo e il banchetto rinascimentale

Se Scappi fu il cuoco dei papi, Cristoforo da Messiburgo fu lo scalco di corte per eccellenza, ovvero la figura che organizzava i banchetti coordinando il personale di mensa, curando l'allestimento della tavola e il menù di concerto con il cuoco e il credenziere.

Nato a Ferrara verso la fine del XV secolo da una famiglia agiata originaria delle Fiandre, in seguito al matrimonio con Agnese di Giovanni Gioccoli Messiburgo ottenne degli incarichi di prestigio alla corte degli Estensi in veste di amministratore ducale ma, soprattutto, di scalco. Nel 1533 ricevette il titolo di conte palatino conferitogli da Carlo V in persona. Apprezzatissimo per la sua capacità di esaltare la prodigalità del principe, fu consulente di Isabella d'Este alla corte dei Gonzaga a Mantova. Nel 1549 uscì postumo un suo scritto fondamentale, stampato più volte fino ai primi decenni dei XVII secolo. L'opera, intitolata Banchetti, composizione di vivande e apparecchio generale grazie alle sue descrizioni ricostruisce un banchetto cinquecentesco.

Per la progettazione del ricevimento, lo scalco collaborava con due figure fondamentali. Da un lato vi era il credenziere, che si occupava dell'apparecchiatura, di piegare i tovaglioli con fogge particolari, profumare le tovaglie, realizzare composizioni floreali e sculture spesso a tema mitologico non sempre edibili che contribuivano al trionfo della tavola. Infine serviva piatti freddi, insalate, biscotti, frutta e confetture: i cosiddetti “servizi di credenza”, che avevano la funzione d'intrattenere e incuriosire i commensali mentre i cuochi terminavano la preparazione dei piatti caldi. Al capo cuoco invece spettava proporre e realizzare il menù, coordinare la brigata di cucina, provvedere alla pulizia e alla disciplina delle cucine e gestirne l'economia. Anch’egli contribuiva alla spettacolarizzazione del banchetto ad esempio con costruzioni di zucchero o carni di selvaggina che una volta aperte ne contenevano altre di dimensioni minori sortendo così un “effetto matrioska”.

La preparazione del formaggio. Miniatura tratta dal manoscritto 'Tacuinum Sanitatis'. 1474

La preparazione del formaggio. Miniatura tratta dal manoscritto 'Tacuinum Sanitatis'. 1474

Foto:Rue des Archives / Tal / Cordon Press


 

Il banchetto cominciava con piatti preparati in anticipo: insalate, formaggi dolci zuccherati (lo zucchero era una spezia pregiata), biscotti, salumi, pesci conservati. I piatti di servizio variavano: da uno a tre, da sedici a venti portate di carne o pesce realizzate secondo differenti tecniche di cottura. La pasta e i maccheroni andavano conditi con cacio e zucchero, retaggio della cucina aristocratica medievale. Zuppe e minestre, che Messiburgo considera «cose vile da femminuccia», servivano da rinforzo ai piatti forti di carne e pesce che venivano proposti in diverse versioni: arrosti, fritti, lessi, allo spiedo e via dicendo. I diversi servizi erano inframezzati da spettacoli, danze ed esibizioni musicali che contribuivano a creare un’atmosfera lussuosa che andava al di là della mensa. I servi indossavano travestimenti e livree per accentuare lo sfarzo del ricevimento. La conclusione del pasto lasciava spazio a torte, ortaggi cotti, formaggi stagionati, frutta, confetti e confetture. Ciascuno assaggiava quel che voleva e nell'ordine che preferiva, ma solitamente si cominciava con le pietanza più morbide per andare poi su quelle più dure.

I nuovi cibi coloniali

All'inizio del XVI secolo fanno la loro comparsa nuovi ortaggi. Bartolomeo Scappi ne cita alcuni per primo nella sua Opera, quando non erano ancora affermati sui mercati europei. Ad esempio, le «zucche turchesche», quelle che usiamo oggi, si aggiungono a quelle «nostrali», più piccole e “a trombetta”. Ancora Scappi è il primo a citare i cavolfiori, mentre i fagiolini compaiono per la prima volta nel testo di Messiburgo. Dalle Americhe arrivano i «fagioli senza occhio», più grandi e carnosi di quelli autoctoni. Inoltre si comincia a coltivare il finocchio, fino ad allora usato solo come aroma. Scappi lo introduce in tutte le liste di vivande, da consumare sempre a fine pasto. A Scappi verrà anche attribuita la riabilitazione della melanzana, giunta in Europa nel XIII secolo e la cui etimologia deriva da “mela insana”, in quanto veniva considerata un ortaggio nocivo. Egli la propone in una versione bollita e poi ripassata cotta in forno con erbe e spezie quali la pimpinella, menta, maggiorana, chiodi di garofano e zucchero.

Miniatura tratta dal 'Tacuinum Sanitatis'. XV secolo

Miniatura tratta dal 'Tacuinum Sanitatis'. XV secolo

Foto: Fine Art Image / Heritage

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