Nel 192 d.C., Roma visse una giornata drammatica. Un incendio distrusse completamente il Tempio della Pace, costruito da Vespasiano su un lato del Foro romano e considerato da molti l’edificio più bello e importante di Roma. Non si sapeva se il fuoco fosse conseguenza di un fulmine – anche se non si addensarono nuvoloni né si udirono tuoni – o di un piccolo terremoto che scosse la città. Comunque fosse, dopo aver inghiottito le enormi ricchezze custodite all’interno del tempio come offerte, il fuoco si propagò per gran parte della città. Le fiamme raggiunsero il foro repubblicano e distrussero il tempio di Vesta, anche se, secondo lo storico di lingua greca del III secolo Erodiano, fu risparmiata la statua di Pallade Atena che si trovava al suo interno e della quale si diceva fosse stata portata a Roma da Troia.
Dopo la morte, Commodo fu oggetto della damnatio memoriae da parte del Senato, ma poi venne riabilitato da Settimio Severo, che voleva ricollegarsi alla dinastia antoniniana. Musei Capitolini, Roma
Foto: Luisa Ricciarini / Prisma archivio
I romani cominciarono a speculare sul significato di quell’evento. Molti sostenevano che la distruzione del tempio della Pace fosse presagio di una guerra, mentre altri videro nell’incendio e in altri disastri che avevano colpito la città un castigo degli dèi per gli eccessi di Commodo, l’imperatore che da oltre un decennio reggeva le sorti di Roma.
All’epoca ormai pochi ricordavano il giovane di appena 19 anni che, dopo essere succeduto al padre Marco Aurelio, aveva sedotto il popolo con il suo indubbio fascino e il suo nobile portamento. Secondo Erodiano, autore della cronaca più dettagliata sul principato di Commodo, ora «il popolo romano non guardava più a Commodo con benevolenza, ma anzi attribuiva la causa delle ininterrotte disgrazie alle sue uccisioni indiscriminate e alla sua indegna maniera di vivere».
Per i cronisti dell’epoca, Commodo appariva ormai come uno dei «cattivi imperatori», paragonabile a Caligola o a Domiziano per i suoi eccessi da megalomane, i suoi crimini e infine per la sua morte violenta.
L’imperatore, con una statua della Vittoria e una foglia di palma, lascia l’anfiteatro seguito dai gladiatori. Dipinto di E.H. Blashfield. Hermitage Foundation Museum, Norfolk
Foto: Sloane
In realtà, Commodo non fu un princeps così cattivo, o almeno questo sostengono gli storici più recenti. L’amministrazione dell’Impero conservò in buona parte l’ordine e la disciplina impartiti da Marco Aurelio. Infatti, l’imperatore mantenne nei posti chiave del governo politici e leader militari che già si erano distinti con suo padre, come Elvio Pertinace e Settimio Severo, che successivamente divennero imperatori. Sappiamo anche che contrastò gli abusi degli esattori delle imposte nelle colonie, e che minoranze come quella dei cristiani godettero sotto il suo regno di una relativa sicurezza, in netto contrasto con le persecuzioni condotte dai suoi predecessori e dai suoi successori.
Tuttavia, il modo in cui faceva amministrare le province e gli insuccessi in campo militare (anche se possedeva notevoli capacità strategiche) con l’abbandono dei territori conquistati dal padre e la stipula di trattati svantaggiosi con i marcomanni e i quadi, popolazioni sottomesse da Marco Aurelio, lo resero inviso e poi ostile al Senato nel corso degli anni.
Di fatto, per l’élite sociale romana rappresentata in Senato, Commodo era un imperatore che non mostrava alcun interesse per il governo. Le sue apparizioni pubbliche erano infrequenti e generalmente parlava di futilità che esasperavano i senatori,
delegando tutte le sue responsabilità a uomini come Cleandro, un liberto di origine frigia che suscitò scandalo tra i patrizi romani trafficando apertamente con cariche pubbliche e seggi al Senato. Cleandro morì in seguito a un’insurrezione scoppiata a Roma nel 190 o nel 192, sacrificato dall’imperatore.
L’eroe dei giochi
Dopo l’incendio del Tempio della Pace, il comportamento di Commodo parve oltrepassare i limiti accettabili. Secondo i cronisti del tempo l’imperatore entrò in una spirale di megalomania. Diede il proprio nome alla Roma ricostruita dopo l’incendio, chiamandola «l’immortale e prospera Colonia Commodiana». Inoltre, fece in modo che le sue legioni pretoriane portassero il titolo di “commodiane erculee”, che il mese di luglio fosse rinominato “Commodo” e che il giorno in cui erano state annunciate tali misure fosse ufficialmente “il giorno di Commodo”. Ovunque vennero erette statue dell’imperatore, persino nel Senato (al quale impose il nome di “Senato Commodiano fortunato”), e fece sostituire con una sua effigie la testa del colosso che si trovava di fianco all’anfiteatro Flavio, il Colosseo.
Il mosaico raffigura due delle attività preferite dell’imperatore Commodo: una lotta di gladiatori e una venatio, o caccia agli animali selvatici, nell’anfiteatro. IV secolo. Galleria Borghese, Roma
Foto: Bridgeman / ACI
Più oltraggioso ancora fu il clamore che Commodo suscitò prendendo parte personalmente a spettacoli di gladiatori e alla caccia alle belve che si organizzavano a Roma. In passato, imperatori come Caligola avevano praticato l’arte gladiatoria, la grande passione della Roma imperiale, ma solo occasionalmente e davanti a un pubblico ristretto. Commodo, invece, decise di scendere in prima persona nell’arena per essere acclamato per le sue gesta come gladiatore o cacciatore (venator). Grazie alla sua costituzione fisica potente e a un addestramento coscienzioso, Commodo brillò particolarmente nelle venationes, la caccia agli animali selvatici. Erodiano narra che in un’occasione abbatté cento leoni utilizzando esattamente cento giavellotti, tanto era buona la sua mira.
Secondo lo stesso autore, Commodo si guadagnò l’approvazione della folla per il suo coraggio e la sua destrezza, «ma quando scese nudo nell’anfiteatro e, cinte le armi, si mise a combattere come un gladiatore, allora il popolo assistette a uno spettacolo disgustoso: un imperatore romano [...] rivestiva armi non da soldato e disdicevoli all’onore dello Stato romano e non contro i barbari, disonorando la propria dignità con un abito turpe e disprezzato».
Erodiano, autore di una storia degli imperatori romani, riferisce che Commodo «scese nudo nell’anfiteatro [nell'arena del Colosseo] e, cinte le armi, si mise a combattere come un gladiatore»
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Alla ricerca del plauso
Con questi comportamenti Commodo cercava di dare prova della sua forza davanti al popolo e, soprattutto, di affermarsi davanti all’aristocrazia romana. Lo storico Cassio Dione narra di come una volta l’imperatore si fosse avvicinato con atteggiamento minaccioso alla tribuna dei senatori con la testa di uno struzzo che aveva appena reciso con una roncola, mentre il povero animale decapitato ancora correva per l’arena. Molti senatori cercarono di dissimulare il loro riso nervoso masticando le foglie d’alloro delle loro corone, poi, su ordine di Commodo, come già avevano fatto in altre occasioni, esclamarono all’unisono: «Sei un dio, sei il primo, sei il più fortunato di tutti! Sei e sarai sempre vincitore! Tu, o Amazonio, vinci sempre!».
Era così ossessionato dai giochi gladiatori che all’avvicinarsi del nuovo anno, il 193, quando i consoli incaricati dovevano prestare giuramento davanti all’imperatore, Commodo decise di riceverli nelle baracche della scuola dei gladiatori invece che nel palazzo e vestito della toga imperiale come era consuetudine. Comunicò la sua decisione a Marcia, la sua favorita, ma le suppliche insistenti e le lacrime della donna per il progetto «così assurdo e indegno di un imperatore» lo irritarono molto.
Anche Leto, il prefetto del pretorio, ed Ecletto, il cubicolario (addetto alla custodia della camera da letto dell’imperatore), ai quali l’imperatore aveva ordinato di fare i preparativi necessari per la cerimonia, cercarono invano di dissuaderlo. Visibilmente adirato, Commodo si ritirò nelle sue stanze e scarabocchiò su una tavoletta i nomi di «coloro che dovevano essere messi a morte quella notte»: per primi comparivano i nomi di Marcia, Leto ed Ecletto, seguiti da quelli di un grande numero di senatori. Abbandonò quindi la tavoletta sul letto e si allontanò dalla stanza.
Un piccolo paggio imperiale chiamato Filocommodo, con il quale l’imperatore dormiva spesso, entrò nella stanza cercando qualcosa con cui giocare, e quando vide la tavoletta sul letto, la prese. Il destino volle che si imbattesse in Marcia che, abbracciandolo, gli prese la tavoletta con l’intenzione di restituirla a Commodo. Tuttavia, spinta dalla curiosità, Marcia lesse quanto vi era scritto; furiosa per la scoperta dei piani dell’imperatore, andò in cerca di Leto ed Ecletto, che non credettero a ciò che Marcia raccontava loro: «Guardate che festa ci godremo stasera!», esclamò Marcia, amareggiata.
Commodo strangolato dal liberto Narcisso sotto gli occhi della sua amante Marcia. Dipinto di Fernando Pelez. XIX secolo
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Determinati ad agire per primi, i tre decisero di avvelenare un piatto di carne destinato all’imperatore. Tuttavia, come narra Cassio Dione, «lo smodato consumo di vino e i bagni, di cui era solito abusare, impedirono che soccombesse; vomitò qualcosa, ed essendogli nato il sospetto, si mise a minacciare. Allora inviarono contro di lui Narcisso, un atleta, e lo fecero strangolare mentre prendeva un bagno».
Il mistero del complotto finale
Diversa è l’interpretazione che di questo racconto ha dato lo storico Jean Gagé del Collège de France. Secondo lo studioso, la lista di persone che l’imperatore aveva condannato a morte – i morituri, per usare il famoso termine latino – non conteneva i nomi di senatori rivali di Commodo, bensì quelli di autentici gladiatori che avrebbero dovuto prendere parte ai giochi per i festeggiamenti del nuovo anno.
Forse qualcuno di loro aveva lo stesso nome di un senatore; per esempio, si sa che in quegli anni era famoso un gladiatore di nome Pertinace, omonimo dell’Elvio Pertinace che succedette a Commodo. Secondo la tesi dello storico francese, Marcia, Leto e i senatori dovevano semplicemente essere gli officianti dei riti in onore di Ercole.
Dopo tredici anni di governo, Commodo aveva dilapidato le ricchezze dell’Impero per i suoi capricci, come la polvere d’oro che si metteva sui capelli affinché brillassero. Con lui ebbe fine la dinastia degli Antonini, che avevano governato mantenendo una relativa pace, e dopo la sua morte Roma sprofondò nel caos. Come disse Cassio Dione, testimone degli eccessi di Commodo e di quel che accadde dopo: «La storia era passata da un impero d’oro a uno di ferro arrugginito».