Il processo che portò all’unificazione d’Italia nel 1861 fu una “faccenda” di guerra, ma soprattutto di complicati giochi diplomatici consumatisi nel breve volgere di un biennio. In tale prospettiva il principale tessitore delle fitte trame che portarono alla liberazione dalla dominazione austriaca e all’unificazione fu Camillo Benso conte di Cavour. Con le sue scelte politiche egli plasmò e modernizzò lo stato piemontese, prima come ministro dell’agricoltura e del commercio nel governo guidato dal marchese Massimo d’Azeglio (1850-1852), poi come primo ministro dal 1852 fino alla sua morte avvenuta il 6 giugno 1861.
Secondo gli storici Derek Beales ed Eugenio Biagini egli sperò sempre «in una finale conquista dell’indipendenza italiana, ma fino ad allora l’unificazione italiana non era stata la sua preoccupazione principale». Pur assodato che «l’Austria fosse il nemico del suo Paese», secondo gli stessi storici «non è chiaro in che misura giudicasse la situazione in termini di espansione piemontese, più che di unità italiana». Una personalità bifronte quella di Cavour: laico, sostenitore del libero scambio e rispettoso dell’opinione pubblica da un lato; monarchico, antagonista delle rivoluzioni dall’altro.
Camillo Benso conte di Cavour (1810 - 1861)
Foto: The granger Collection, New York / Cordon Press
Economia, viaggi e salotti
Figlio cadetto del marchese di Cavour, Camillo Benso nacque a Torino nel 1810. Si formò in Accademia militare diventando ufficiale del corpo dei genieri nel 1827. La noia della vita militare nella remota guarnigione di Bard, nelle Alpi francesi, unita alla passione per le discipline matematiche e per l’economia politica lo indussero alla fine del 1831 a congedarsi dall’esercito. Nella sua tenuta di Leri Vercellese si dedicò alle attività agricole sperimentando nuove tecniche di coltura, ma non disdegnava i viaggi e le speculazioni finanziarie. La Svizzera e il calvinismo ginevrino, moderato e tollerante, lo affascinavano e finirono per segnarne il pensiero. Dal pastore riformato Alexandre Vinet (1797-1847) apprese e fece proprio il principio della separazione fra Chiesa e stato.
Alla metà degli anni trenta del XIX secolo frequentò i circoli politici e i salotti della Parigi di Luigi Filippo, assistette ai dibattiti parlamentari, rimase incantato dall’eloquenza di personaggi del calibro di Guizot e Thiers e aderì a una forma di liberalismo laico e moderato. In Inghilterra frequentò banchetti altolocati e ritrovi intellettuali ma al contempo visitò diverse prigioni e s’interessò a quelle istituzioni benefiche finanziate con fondi pubblici secondo il modello della Poor law. Per il giovane Cavour la realizzazione del liberalismo politico passava per la triade libero scambio, modernizzazione dell’agricoltura e industrializzazione. Tra la fine degli anni trenta e la metà degli anni quaranta del XIX secolo investì nella realizzazione di ferrovie, canali, teorizzò l’introduzione dei battelli a vapore e promosse l’uso dei fertilizzanti chimici in agricoltura. Negli anni quaranta fece il proprio ingresso sulla scena pubblica piemonteseprima come giornalista politico (fondò il periodico Il risorgimento), poi come membro della nuova Camera dei deputati, portandosi appresso una fama di progressista nemico delle rivoluzioni.
Cavour aveva una personalità bifronte: laico e rispettoso dell'opinione pubblica da un lato; monarchico e antagonista delle rivoluzioni dall'altro
Politica interna
Passata la corrente rivoluzionaria che nel 1848 scosse l’Europa, il Piemonte si ritrovò con uno Statuto che aveva introdotto nel regno un sistema parlamentare. Cavour si adoperò nelle istituzioni liberali per la modernizzazione dello stato. La razionalizzazione della contabilità andò di pari passo al finanziamento di infrastrutture attraverso il debito e la tassazione di certi redditi e ricchezze. «Paladino del laissez faire come principio generale, Cavour fu nondimeno disposto a giustificare l’intervento dello stato ogni volta che l’iniziativa privata non era in grado di rispondere adeguatamente a quella egli giudicava la necessità di un rapido sviluppo economico», spiegano Beales e Biagini. Nel 1860 il Piemonte arrivò ad avere 800 chilometri di strade ferrate e una flotta che vide il rafforzamento della base portuale di La Spezia. La diminuzione dei dazi doganali si accompagnò alla stipula di trattati commerciali bilaterali con le maggiori potenze europee. La laicizzazione dello stato passò dalle leggi Siccardi, approvate dal governo d’Azeglio e incoraggiate da Cavour nel 1850, che si proponevano di abolire i tribunali ecclesiastici, il diritto di asilo nelle chiese per chi commetteva dei crimini e la riduzione delle festività religiose per favorire l’aumento della produttività.
Cavour come cadetto all'Accademia militare di Torino
Foto: Mary Evans P.L. / Cordon Press
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La reazione della Chiesa fu violenta e si cercò tramite il re di sostituire il governo liberale con uno clerical-conservatore. Nel 1852 a seguito di una crisi dovuta al progetto di legge di d’Azeglio sull’istituzione del matrimonio civile, ulteriore passo verso la secolarizzazione, si registrarono le dimissioni del primo ministro che suggerì di chiamare alla guida del governo proprio Cavour. La base del suo potere fu l’alleanza col centro-sinistra guidato da Urbano Rattazzi, denominata “il connubio”, che avrebbe aumentato il consenso parlamentare per attuare un programma riformista. Nel 1854-55 Cavour cercò di reperire i fondi per la guerra in Crimea attraverso la soppressione di ordini monastici «inutili» (francescani e cappuccini), che non si dedicavano cioè a educazione e beneficienza, attraverso la nazionalizzazione delle loro proprietà. La proposta suscitò l’indignazione di Vittorio Emanuele II e della Chiesa di Pio IX, che attraverso il senatore e arcivescovo Nazari di Calabiana stanziò una somma simile a quella che Cavour si proponeva di ottenere dalla soppressione dei conventi. Ma il tentativo di sostituire l’ormai dimissionario governo Cavour con uno più conservatore non andò in porto. Il Paese si apprestava alla vigilia di un nuovo scontro militare con l’Austria.
L’unità
Nel 1855 l’invio di circa 18mila soldati in Crimea, a sostegno della Francia e dell’Inghilterra nel conflitto contro la Russia consentì a Cavour di partecipare al congresso di Parigi del 1856 come delegato del regno di Sardegna, portando all’attenzione generale la situazione italiana. Ma, cosa più importante, nel luglio del 1858 a Plombières, Cavour e Napoleone III fissarono i termini di un’alleanza in funzione antiaustriaca, ponendo le basi del futuro assetto territoriale italiano. La Seconda guerra d’indipendenza scoppiata nell’aprile 1859 vide l’alleanza franco-piemontese ben solida fino al 5 luglio, quando Napoleone III inviò, all’insaputa di Cavour, una proposta di armistizio a Francesco Giuseppe e i due si videro l’11 a Villafranca per concordare i termini della pace.
Il Congresso di Parigi del febbraio - marzo 1856 mise fine alla guerra di Crimea. Il primo uomo a sinistra è Camillo Benso conte di Cavour
Foto: Fine Art Images/Heritage
Cavour si dimise infuriato ma pochi mesi dopo, nel gennaio 1860, fu richiamato dal re al governo. Negli anni che precedettero l’unificazione nazionale Cavour non ostacolò la missione dei Mille di Garibaldi nel regno delle Due Sicilie, anzi la agevolò attraverso rifornimenti di armi, uomini e denaro fino a Napoli, perché una marcia su Roma avrebbe portato a un’insostenibile reazione europea. Dopo i plebisciti e le annessioni del regno di Sardegna, delle Marche e dell’Umbria, Cavour si adoperò per trasformare giuridicamente il regno di Sardegna il regno d’Italia con l’incoronazione di Vittorio Emanuele II il 17 marzo 1861. Nel suo discorso del 25 marzo da presidente del consiglio del regno d’Italia Cavour evidenziò l’esigenza di fare di Roma la capitale del nuovo regno ma «senza porre in pericolo le sorti d’Italia»:
Ho detto, o signori, e affermo ancora una volta che Roma, Roma sola deve essere la capitale d'Italia […] Noi dobbiamo andare a Roma, ma a due condizioni. Noi dobbiamo andarvi di concerto colla Francia; inoltre, senza che la riunione di questa città al resto d'Italia possa essere interpretata dalla gran massa dei cattolici d'Italia e fuori d'Italia come il segnale della servitù della Chiesa. Noi dobbiamo, cioè, andare a Roma, senza che per ciò l'indipendenza vera del pontefice venga a menomarsi. Noi dobbiamo andare a Roma, senza che l'autorità civile estenda il suo potere all'ordine spirituale.
Di salute ormai cagionevole, l’artefice diplomatico del “miracolo” dell’unificazione italiana si sarebbe spento solo tre mesi dopo, a 51 anni, il 6 giugno 1861.
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