Si narra che il 14 aprile del 1488 Caterina Sforza, salita spavaldamente sui bastioni della rocca forlivese di Ravaldino, di fronte ai nemici che tenevano in ostaggio i suoi figli e minacciavano di ucciderli se non si fosse arresa, urlò: «Fatelo, se volete. Ho con me lo strumento per farne degli altri!», mentre, sollevandosi le gonne, indicava con la mano il basso ventre. L’aneddoto ha il sapore di una leggenda, eppure, considerata la personalità della sua protagonista, non si può escludere che vi sia un fondo di verità. L’energica Caterina Sforza è uno dei personaggi femminili più singolari del Rinascimento. Non solo intrattenne rapporti con i più importanti esponenti dell’arte e della cultura della sua epoca, ma sfidò ogni convenzione sociale, s'interessò di alchimia e non esitò a scontrarsi con nemici temibili e spietati quali i Borgia.
Caterina nacque a Milano nel 1463, dall’unione illecita di Galeazzo Maria Sforza, futuro duca di Milano, e della bella dama di corte Lucrezia Landriani. Era dunque nipote del potente Ludovico il Moro, duca di Milano, e, nonostante il suo status di figlia illegittima, fu educata in seno alla famiglia paterna, dove crebbe sotto l’influsso dello spirito umanistico proprio del tempo. Aveva dieci anni quando fu promessa a Girolamo Riario, nipote di papa Sisto IV, di vent’anni più vecchio di lei, che avrebbe sposato nel 1477. Benché Riario fosse signore di Imola e Forlì, i due si stabilirono a Roma alla corte papale. Caterina non tardò a ritagliarsi un ruolo di intermediaria tra la corte romana e quella milanese, acquisendo un enorme prestigio; nel frattempo, diede alla luce cinque figli.
Caterina Sforza. Presunto ritratto di Lorenzo di Credi. Pinacoteca civica, Forlì
Foto: Dea / Album
L’anarchia a Roma
La morte di Sisto IV nell’agosto del 1484, tuttavia, mise a repentaglio la posizione conquistata da Girolamo e Caterina alla corte papale. L’elezione del nuovo pontefice apriva infatti il consueto conflitto tra le più potenti famiglie italiane dell’epoca, che ambivano a innalzare un loro esponente al soglio di Pietro. Nel momento di disordine che ne seguì, la stessa residenza dei Riario, Palazzo Orsini in Campo de’ Fiori, fu quasi distrutta.
In ogni caso, la nobildonna non intendeva perdere il proprio ruolo privilegiato. Così, durante l’assenza del marito, malgrado fosse incinta di sette mesi, andò a cavallo a Castel Sant’Angelo per occuparlo a nome del coniuge. In tal modo tenne in scacco i cardinali che, timorosi di cadere sotto il fuoco della sua artiglieria, si rifiutarono di prendere parte al conclave. Alla fine, si giunse a un accordo e Girolamo acconsentì a lasciare Roma ottenendo in cambio la conferma della sua signoria su Imola e Forlì, la nomina a capitano generale delle milizie pontificie e un indennizzo di ottomila ducati.
Negli anni a venire, Caterina avrebbe avuto nuove occasioni di mostrare la propria abilità politica. Alla morte del marito, assassinato nel 1488 da una congiura capeggiata dalla nobile famiglia forlivese degli Orsi, assunse la reggenza di Imola e Forlì in nome del primogenito Ottaviano, allora minorenne. La contessa mise subito in atto una serie di misure che le valsero la benevolenza dei propri sudditi, riducendo le imposte e stringendo alleanze con i signori degli stati confinanti grazie alla conclusione di patti matrimoniali per conto dei figli. Inoltre, guerriera esperta, si occupava personalmente dell’addestramento delle truppe.
La Sforza parve avere un’unica debolezza: i sentimenti. Innamoratasi di Giacomo Feo, un giovane di umili condizioni che era stato al servizio del marito, lo sposò segretamente per non perdere la tutela dei figli di primo letto e la reggenza; da lui ebbe anche un figlio, Bernardino, poi detto Carlo in onore del re di Francia Carlo VIII. Di fatto, Caterina inserì sempre più il giovane amante nella conduzione dello stato, a discapito del figlio Ottaviano, e affidò ai parenti più stretti dell’uomo la difesa delle fortezze della contea. Ma i sostenitori di Ottaviano non si rassegnarono e nel 1495 Giacomo Feo cadde vittima di una congiura di nobili. Fu spietata la reazione di Caterina, che ordinò il massacro di tutte le persone legate ai cospiratori e sterminò così intere famiglie.
Non molto tempo dopo, nel 1497, ottenuta l’approvazione dello zio Ludovico il Moro, la contessa si risposò nuovamente con Giovanni de’ Medici detto il Popolano, appartenente a un ramo cadetto della potente famiglia fiorentina, che era giunto a Forlì per motivi diplomatici. Si trattò ancora una volta di un’unione sfortunata, poiché poco dopo aver dato alla luce un altro figlio, che sarebbe divenuto celebre con il nome di Giovanni dalle Bande Nere, e nel pieno dello scontro che vedeva contrapporsi Firenze e Venezia, Caterina dovette assistere, nel 1498, alla morte improvvisa del suo terzo marito. Non passò molto tempo che il papa Borgia, Alessandro VI, manifestò la sua volontà di annettere le città della Romagna allo Stato pontificio. Com’era naturale, la volitiva Caterina Sforza vi si oppose con ogni forza.
Nell’affresco figurano Girolamo Riario (il secondo da sinistra) e papa Sisto IV. Melozzo da Forlì, 1477. Pinacoteca Vaticana
Foto: Erich Lessing / Album
L’avversione dei Borgia
La nobildonna si preparò a resistere a un eventuale assedio delle truppe di Cesare Borgia, duca di Valentinois – regione storica della Francia sudorientale – e figlio del papa. Iniziò ad arruolare e addestrare nuove milizie e a immagazzinare munizioni e viveri; poi potenziò le difese delle sue fortezze, soprattutto quelle di Ravaldino, dove lei stessa risiedeva.
Il Borgia, però, non era un nemico di poco conto: una volta prese Imola e Forlì, pose l’assedio alla rocca di Ravaldino. Era il 19 dicembre del 1499. Caterina oppose una strenua resistenza, brandendo personalmente le armi sugli spalti, finché, il 12 gennaio del 1500, dopo una serie di sanguinosi scontri, i soldati di Cesare Borgia fecero breccia nelle mura di Ravaldino e la contessa fu catturata. Prontamente, la Sforza si dichiarò prigioniera dei francesi (alleati del Valentino), sperando di poter beneficiare di una legge in vigore nel regno di Francia che proibiva di tenere le donne come prigioniere di guerra. Ma fu inutile.
Cesare Borgia la tenne con sé e la condusse a Roma, dove fu accolta dal papa Alessandro VI con apparente cortesia e alloggiata presso lo splendido palazzo del Belvedere, in cima al colle Vaticano. Tuttavia, in seguito a un suo fallito tentativo di fuga e accusata di aver cercato di assassinare il papa con una serie di lettere impregnate di veleno, la fiera contessa fu incarcerata a Castel Sant’Angelo; ironia della sorte, proprio la fortezza che molti anni prima aveva difeso con tanto ardore.
La rocca di Ravaldino da cui Caterina Sforza affrontò l’assedio di Cesare Borgia
Foto: Riccardo Sala / Age Fotostock
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Il ritiro in Toscana
Peraltro, la sua reclusione non durò a lungo. A liberarla intervenne il comandante generale dell’esercito francese, Yves d’Alègre, giunto a Roma a capo delle milizie di Luigi XII per conquistare il regno di Napoli, e il 30 giugno del 1501 la Sforza uscì di prigione.
Rifugiatasi a Firenze, dimorò nella villa medicea di Castello, un tempo appartenuta al suo terzo marito. In seguito, alla morte di Alessandro VI (1503), cercò di recuperare i possedimenti perduti dalle mani del nuovo papa, Giulio II, ma fu la stessa popolazione di Imola e Forlì a opporsi al suo ritorno. La signoria fu dunque affidata ad Antonio Maria Ordelaffi, erede di una delle più influenti famiglie di Forlì.
Ormai estinto ogni fervore guerriero, Caterina trascorse gli ultimi anni della propria vita dedicandosi ai figli e ai nipoti, oltre che allo studio dell’alchimia. Morì nel maggio del 1509, a soli quarantasei anni, colpita da una grave forma di polmonite e, così come aveva disposto, le sue spoglie ebbero una modesta e anonima sepoltura nel convento di Santa Maria delle Murate a Firenze.
Fu il nipote Cosimo I de’ Medici, granduca di Toscana, a porre sulla tomba una lapide di marmo con il suo nome. Nel 1835, la lapide e le stesse ossa di Caterina, casualmente ritrovate, andarono perdute durante i lavori di ristrutturazione del convento, convertito allora in prigione di Stato.
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