Carusi, piccoli "schiavi" nelle miniere di zolfo di Sicilia

Per decenni l’economia dell’isola fu legata all’estrazione della "gialla superiore", lo zolfo, il cui trasporto gravava su ragazzi di otto-dieci anni malnutriti e deformi, sottoposti dai picconieri a maltrattamenti e violenze di natura sessuale

«Mi ricordo come se fosse ora della fila di giovani nudi, anneriti, magri che avevo intorno […] non poteva trovarsi un giovane che fosse abile alle armi, tanto che gli stenti e le fatiche avevano deformato e reso deboli quelle popolazioni». È ciò che annotò negli anni ’70 del XIX secolo il giovane medico del regio esercito italiano Angelo Mosso quando venne chiamato a passare in rassegna gli iscritti alla leva militare di alcuni comuni siciliani il cui sostentamento dipendeva dall’estrazione dello zolfo dalle pirrere (“cave”, ma nell’uso comune “zolfare” o “solfare”). Dopo aver visitato i giovani, Mosso – che alcuni anni più tardi sarebbe diventato un apprezzato medico e fisiologo dando alle stampe il saggio La Fatica (1891) – incontrò gli amministratori del comprensorio: «I Sindaci erano umiliati di tanta degradazione. Sono carusi, essi dicevano, cioè operai che fin da fanciulli hanno lavorato a portare lo zolfo».

Carusi all’imbocco di un pozzo della zolfara. Sicilia, 1899

Carusi all’imbocco di un pozzo della zolfara. Sicilia, 1899

Foto: Pubblico dominio

Gialla superiore

Tra XVIII e XIX secolo l’economia della Sicilia centrale si basava principalmente sull’esportazione della cosiddetta gialla superiore, lo zolfo estratto nelle viscere della terra in quelle che lo scrittore Leonardo Sciascia definisce «preistoriche miniere baronali siciliane». La domanda di zolfo da parte dei Paesi del neo-industrializzato Occidente imponeva sforzi collettivi e inumani per cavare quella ricchezza potenziale dal sottosuolo. Paesi come Sommatino e Riesi in provincia di Caltanissetta, e Ravanusa in provincia di Agrigento erano veri e propri “serbatoi” di braccia da lavoro per la Trabia-Tallarita, la grande zolfara di proprietà dei principi Lanza di Trabia e Pignatelli, passata in seguito alla gestione statale. Qui ogni giorno «dal levare al cadere del sole» lo zolfo veniva estratto da frammenti di roccia più o meno grandi (calcare zolfifero) tramite fusione all’interno di particolari forni detti carcaruna (calcheroni). Dai vari livelli della miniera fino ai forni collocati all’esterno, attraverso cunicoli e gallerie angusti e pericolosi, il trasporto delle pietre gravava unicamente sulle deboli spalle di ragazzini di 8-10 anni: a pieno carico i cosiddetti stirratura (ceste, contenitori) pesavano dai trenta agli ottanta chili, quindi fino a circa il doppio del peso medio di un ragazzino di quell’età.

«La zolfara mi faceva paura, al confronto la guerra in Spagna mi pareva una scampagnata», fa affermare Leonardo Sciascia a uno dei suoi personaggi nel racconto L'antimonio

I carusi erano costretti dalla miseria a lavorare senza sosta in ambienti malsani e potenzialmente letali, con l’incubo della morte a ogni passo a causa d'infezioni da anchilostoma, un pericoloso parassita a forma di uncino che penetrava nell’organismo umano aggredendo l’intestino. Ma ancor più temute dagli zolfatari erano le improvvise esplosioni di gas grisou, che loro erano soliti chiamare antimonio. Leonardo Sciascia vi dedicò un racconto – L’antimonio, appunto, pubblicato in Gli zii di Sicilia, 1958 – in cui il giovane protagonista racconta: «E lavoravo alla zolfara, una settimana nel turno di notte e un’altra nel turno di giorno, senza mai lamentarmi. Avevo solo una gran paura dell’antimonio, ché mio padre c’era rimasto bruciato, e nella stessa zolfara […] Mio zio ancora raccomandò – basse le acetilene [lampade alimentate col gas acetilene] – e un minuto dopo dal fondo della galleria venne un ruggito di fuoco, come avevo visto al cinematografo […] il fuoco venne verso di noi urlando […] la zolfara mi faceva paura, al confronto la guerra in Spagna mi pareva una scampagnata».

Soccorso morto

Il termine dialettale siciliano carusu significa semplicemente “ragazzo”. La parola ha etimologia incerta, sembra però che in origine rimandasse a “tosato”, che descriveva l’aspetto imberbe dei giovanissimi lavoranti. I carusi occupavano l’ultimo gradino della gerarchia sociale delle miniere di zolfo e il loro compito era unicamente quello di trasportare all’esterno il minerale grezzo estratto dai picconieri nei vari livelli della zolfara, e destinato alla fusione. Nella novella Il fumo (1904) lo scrittore Luigi Pirandello è uno dei primi a mettere per iscritto fatiche e sogni dei piccoli intenti a carriari (trasportare): «I carusi, buttando giù il carico dalle spalle peste e scorticate, seduti sui sacchi, per rifiatare un po’ all’aria, tutti imbrattati dai cretosi acquitrini lungo le gallerie o lungo la lubrica scala a gradino rotto della “buca”, grattandosi la testa e guardando a quella collina attraverso il vitreo fiato sulfureo che tremolava al sole vaporando dai “calcheroni” accesi o dai forni, pensavano alla vita di campagna, vita lieta per loro, senza rischi, senza gravi stenti là all’aperto, sotto il sole, e invidiavano i contadini».

'Lu travalliu di lu carusu' (il lavoro del caruso). La foto riproduce l’opera scultorea in bronzo realizzata dall’artista Onofrio La Leggia e ubicata in via Luigi Einaudi a Riesi (Caltanissetta)

'Lu travalliu di lu carusu' (il lavoro del caruso). La foto riproduce l’opera scultorea in bronzo realizzata dall’artista Onofrio La Leggia e ubicata in via Luigi Einaudi a Riesi (Caltanissetta)

Foto: © Giuseppe Giancarlo Calascibetta, 2018

Per la maggior parte erano figli di zolfatari o contadini, i quali vedevano nel prodotto del duro lavoro della propria prole una fonte di reddito che desse un po’ di respiro a vite grame. Alcuni cominciavano a travagghiari (lavorare) già all’età di otto anni, affidati dal padre a un picconiere dietro pagamento del cosiddetto soccorso o anticipo morto. Si trattava di una cifra oscillante tra le 100 e le 300 lire che il picconiere pagava alla famiglia del caruso quale compenso per il lavoro che il ragazzo avrebbe prestato nella miniera. Di norma il caruso avrebbe lavorato al servizio del picconiere fino al raggiungimento della somma corrisposta alla sua famiglia. A loro volta i picconieri venivano pagati dai gabellotti (affittuari) a cottimo, cioè sulla base della quantità di materiale estratto. Ogni picconiere aveva alle proprie dipendenze tra i cinque e i sette carusi, e tra questi e il loro “superiore” s’instaurava un rapporto fondato sullo sfruttamento e, spesso, su maltrattamenti e violenze.

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Vite segnate

«Le ricerche da me intraprese misero in chiaro che su 539 carusi 179, cioè il 33 per cento avevano contratto difetti e malattie gravi, tra cui prevalevano l’ipertrofia cervico-dorsale, la cifolordosi e la cifosi, la costituzione scheletrica grama e la ritardata pubertà», annotava il medico Alfonso Giordano in un opuscolo del 1892. Mentre nelle sue note d’igiene sociale (1903) Giuseppe Giardina spiega come «a lungo andare la colonna vertebrale s’incurva e devia, le spalle divengono ineguali, il petto infossato, l’addome ristretto e sporgente […] gli arti superiori si allungano, il collo rimane tozzo e breve, la testa diviene calva o si rivolge in basso […] i piedi si fanno piatti e larghi e le ginocchia s’ingrossano […] l’individuo così nel suo insieme, presenta, come stigmate del lavoro faticoso e anormale, tutti i caratteri della senilità precoce». Ma ancor più gravi delle deformazioni fisiche erano le privazioni, le prevaricazioni e i maltrattamenti. I carusi dormivano nelle stalle dei picconieri riscaldandosi con la sola paglia, cibandosi quando andava bene di sarde salate e cipolla cruda, erano privi d’istruzione e spesso si accapigliavano fino alle coltellate a causa di furti reciproci di pietre di zolfo, candele o cibo.

Vista delle miniere di zolfo di Agrigento, in Sicilia. Fotografia scattata nel 1927

Vista delle miniere di zolfo di Agrigento, in Sicilia. Fotografia scattata nel 1927

Foto: The Print Collector / Heritage Image / Cordon Press

Ma i pericoli più gravi per la loro incolumità venivano dagli zolfatari adulti che sfogavano sui carusi le proprie insane voglie di natura sessuale. La sera del 21 giugno 1931 venne ritrovato su una sponda del fiume Salso, al confine tra i territori di Riesi e Sommatino, il cadavere martoriato di un caruso. Aveva solo tredici anni Salvatore Zuffanti quando venne immobilizzato, sodomizzato, colpito ripetutamente al volto e alla testa con una pietra, strangolato, infine messo in un sacco e gettato nel fiume. Il suo capomastro quarantenne, uomo già noto alla giustizia, venne arrestato e poi condannato a morte per fucilazione. Gaetano Baglio (1905) riconduce le cause della diffusione «della sodomia e della pederastia nelle zolfare» alla lontananza dei lavoratori da casa insieme alla «mancanza di svaghi, l’assoluta assenza di pudore fra operai che lavorano nudi in ambiente semibuio, che per distrarsi non hanno altra conversazione dilettevole se non quella grassa, e che usano come carezza più frequente e briosa la sculacciata, quel difetto provoca nei solfarai un bisogno di abbandonarsi a sensazioni erotiche». In un ambiente tutto maschile «i punti abbandonati e pericolosi delle gallerie divengono bordelli» e spesso uno stesso caruso sottoposto a violenze «divenendo adulto, desidera provare quelle sensazioni corrotte, a cui altri lo ha abituato; e perciò alletta o costringe i carusi se li tira addosso, e li fa sodomisti attivi».

Ciaula scopre la luna

I carusi erano parte integrante degli scioperi, specie alla fine del XIX secolo. In caso di malcontento ai picconieri, che precedentemente avevano preso accordi con i loro giovani sottoposti, bastava una semplice parola d’ordine: «Leva». Appena pronunciata «i carusi abbandonano sui piazzali della miniera sacchi, sterratoi ed altri utensili, e si danno a correre per le campagne e per le vie mulattiere, scappando dalla miniera» annota Baglio. Senza manodopera, i picconieri si recavano dai proprietari o affittuari della miniera per negoziare nuove e vantaggiose condizioni. I carusi che non rientravano a lavoro venivano acciuffati dai regi carabinieri nelle campagne, ricondotti alla zolfara e spesso bastonati. In soccorso dei carusi venne in pieno fascismo la legge n. 653 del 26 aprile 1934, la quale esplicitava che «è vietato adibire i minori di anni 16 nei lavori sotterranei delle cave, miniere e gallerie ove non esiste trazione meccanica» e, in particolare, «nel sollevamento di pesi e nel trasporto di pesi […] quando tali lavori si svolgono in condizioni di speciale disagio o pericolo; nei lavori di carico e scarico dei forni delle zolfare di Sicilia».

Riproduzione dell’opera scultorea 'Lignati allu carusu' realizzata dall’artista Onofrio La Leggia e ubicata in via Luigi Einaudi a Riesi (Caltanissetta)

Riproduzione dell’opera scultorea 'Lignati allu carusu' realizzata dall’artista Onofrio La Leggia e ubicata in via Luigi Einaudi a Riesi (Caltanissetta)

Foto: © Giuseppe Giancarlo Calascibetta, 2018

Tuttavia la fatica, le privazioni e le umiliazioni dei carusi si allentarono solo sul finire del secondo conflitto mondiale: fu allora che alla Trabia-Tallarita i giovani trasportatori vennero sostituiti dagli asini. E fu così che Ciàula, il caruso “senza età” protagonista della novella di Pirandello (Ciàula scopre la luna, 1925), venendo in superficie «il carico gli cadde dalle spalle. Sollevò un poco le braccia; aprì le mani nere in quella chiarità d'argento. Grande, placida, come in un fresco, luminoso oceano di silenzio, gli stava di faccia la Luna».

Per saperne di più:
Il lavoro dei fanciulli nelle zolfare. ​Alfonso Giordano in Rivista d’igiene e sanità pubblica, Roma 1892.
a vita, il lavoro e le malattie degli operai delle miniere di zolfo in Sicilia. Note d’igiene sociale. Giuseppe Giardina, Società anonima cooperativa tipografica, Napoli 1903.
Il solfaraio. ​Gaetano Baglio, Luigi Pierro Editore, Napoli 1905.
La miniera Trabia-Tallarita. Storie e lotte degli zolfatari. Giuseppe Giancarlo Calascibetta (a cura di), Associazione culturale “Amici di Riesi” di Bergamo e Lombardia, 2011.

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