Quando Michelangelo inizia ad affrescare la Cappella Sistina, nel 1508, è un artista affermato. La bellezza sublime della Pietà di San Pietro (1499) lo aveva consacrato a soli ventiquattro anni massimo scultore del suo tempo, conteso dai grandi committenti: a Firenze scolpisce il David ed è incaricato di affrescare una parete della sala del Consiglio di Palazzo Vecchio. Nel 1505 Giulio II lo vuole a Roma perché realizzi la sua tomba, progetto che entusiasma l’artista. Fra i due però avviene una rottura clamorosa. Il papa – racconterà Michelangelo – «si mutò d’oppenione e non la volse più fare», cacciandolo quando gli chiede denari. L’artista abbandona Roma. L’insofferenza di Giulio II non nasce solo dal suo carattere impetuoso: ha sborsato ingenti cifre che l’artista in parte ha usato per il sepolcro, distraendone il resto in investimenti immobiliari.
La medaglia, opera di Leone Leoni, raffigura Michelangelo a 85 anni. British Museum, Londra
Foto: Corbis / Cordon Press
Se Giulio II non ha più interesse verso il suo sepolcro, vuole però che Michelangelo lavori per lui. Dopo essersi fatto erigere a Bologna una statua in bronzo (1508), lo richiama subito a Roma per un nuovo progetto: l’affresco della volta della Cappella Sistina. Nel 1508 la Roma di Giulio II è uno straordinario cantiere. Bramante è impegnato nella ricostruzione della basilica di San Pietro e nei lavori del Palazzo Vaticano. Raffaello affresca le stanze del papa. E per la Sistina il Della Rovere vuole a tutti i costi Michelangelo, che manca però di esperienza: da ragazzo aveva conosciuto la tecnica della pittura murale nella bottega del Ghirlandaio, ma non l’aveva mai praticata. Per l’affresco fiorentino della Battaglia di Cascina era arrivato solo ai cartoni. Più volte proclama che la sua arte è la scultura, non la pittura. Nelle lettere ai familiari, esprime la «grandissima fatica», ma anche lo sconforto per la difficoltà «non sendo», scrive, «io pictore». Pure non rinuncerà alla potente sfida che lo assorbirà per quattro anni e mezzo.
La Cappella Sistina conta già alle pareti gli affreschi di Botticelli, Ghirlandaio, Cosimo Rossi, Perugino e Signorelli. La volta ha subìto due restauri, l’ultimo completato in vista dell’intervento di Michelangelo. In base al contratto egli vi avrebbe dovuto dipingere i «dodici Apostoli nelle lunecte», mentre per la restante superficie erano previste «chome s’usa» decorazioni ornamentali, al costo complessivo di tremila ducati. A Michelangelo il progetto appare subito «cosa povera». Il contratto è perciò rivisto: raddoppiato il compenso, l’artista ottiene di raffigurare quel che desidera non solo sul soffitto, ma anche nei pennacchi e nelle lunette. È verosimile che all’ideazione del soggetto abbia contribuito il teologo platonizzante Egidio da Viterbo, assai influente alla corte papale.
Le difficoltà tecniche
I problemi cominciano con il ponteggio: Michelangelo critica quello eretto da Bramante e ottiene di farsene costruire uno su proprio disegno. Ma la difficoltà più grande sarà proprio l’affresco, una tecnica che non consente errori ed esige tempi molto stretti: preparati i cartoni, bisogna dividere l’intero in parti da completare in un giorno, perché dopo questo tempo l’intonaco secca e non assorbe più il colore. La sezione di muro scelta viene preparata prima con l’arricciatura e poi con l’intonaco. Trasferito il disegno sull’intonaco ancora fresco, si deve subito stendere il colore, velocemente ma con maestria. Michelangelo sceglie di avvalersi di pochi, fidati artisti chiamati da Firenze. I primi tentativi però sono deludenti: l’affresco, realizzato con tecniche eterogenee, si rivela un disastro, la ricetta “fiorentina” dell’intonaco non funziona con i materiali e il clima di Roma. Ci vorranno mesi di angustie e difficoltà perché l’artista conquisti la padronanza dell’arte, tanto da decidere di fare a meno dei suoi aiutanti.
La creazione di Adamo. Questo celebre pannello rappresenta Dio nel momento in cui trasmette il soffio vitale al primo uomo
Foto: Archivio fotografico Musei Vaticani
La leggenda che vuole che egli abbia fatto tutto o quasi da solo sembra infatti trovare conferma dall’analisi delle sue spese. Della fatica sopportata lavorando per anni in una posizione scomodissima parla in un celebre sonetto: «E’ lombi entrati mi son nella peccia / e fo del cul per chontrappeso groppa / e’ passi senza gli ochi muouo invano». Frattanto, il papa è impaziente. Piero Condivi, il biografo di Michelangelo, racconta che minacciò di buttare l’artista giù dall’impalcatura e che «lo percosse con un bastone». Blandito, minacciato, incalzato, Michelangelo conclude l’opera, che è inaugurata il 31 ottobre 1512. Della sua bellezza è stato testimone in anteprima Alfonso d’Este. Arrampicatosi sul ponteggio, la ammira a lungo e una volta sceso si rifiuterà di andare a visitare le stanze dove lavora Raffaello, il grande rivale.
Michelangelo soffrì fisicamente per la scomoda posizione nella quale fu costretto a lavorare
Il Giudizio Universale
Michelangelo torna a lavorare nella Cappella Sistina vent’anni dopo. Clemente VII, suo committente mediceo a Firenze, lo incarica di affrescare il Giudizio Universale. Un impegno che il nuovo papa Paolo III, appena eletto al soglio nel 1534, costringe l’artista a rispettare, esigendo che lavori esclusivamente per lui. L’affresco è realizzato fra il 1536 e il 1541, ma l’ideazione è anteriore: nel 1537, all’invadente Pietro Aretino che vuole proporre suggerimenti per l’opera Michelangelo può rispondere che ha già «compìto gran parte dell’historia».
Da poco eletto al soglio pontificio, Paolo III obbligò Michelangelo a terminare il Giudizio
Sono anni inusualmente felici quelli in cui lavora al Giudizio, illuminati dall’amore per il giovane Tommaso de’ Cavalieri e dall’amicizia con Vittoria Colonna. Tramite la marchesa di Pescara, donna di profonda cultura e spiritualità, entra in contatto con il “circolo di Viterbo”, animato da idee di riforma interiore della Chiesa incentrate sulla fede nel “beneficio” che Cristo morendo sulla croce ha donato a tutti gli uomini. Questa “terza via”, alternativa sia alla dottrina luterana sia alla linea cattolica più intransigente, conta influenti membri delle alte gerarchie ecclesiastiche.
La cappella di Sisto IV, ricostruita a partire dal 1477. La volta affrescata da Michelangelo ha una superficie di circa 800 metri quadrati
Foto: Archivio fotografico Musei Vaticani
Il legame di Michelangelo con la Colonna e con il circolo degli “spirituali” investe la sua produzione artistica dagli anni quaranta. Il Giudizio ne sarebbe dunque escluso, ma la visione religiosa personale che l’artista vi trasfonde con la libertà di espressione del suo genio racchiude ideali tangenze con le istanze degli spirituali. Sull’enorme superficie della parete Michelangelo pone al centro della scena, ancora una volta, il corpo umano. Adesso però i volti e le membra sono mossi a esprimere tutti i sentimenti legati alla terribilità della situazione. Intorno al Cristo giudice si agitano centinaia di corpi ritratti nella loro umanità. A stagliarsi nudi sul cielo blu di lapislazzuli non sono solo, come di consueto, i dannati, ma anche i salvati, i dottori della Chiesa, i santi privi delle loro aureole e gli angeli senza ali.
Pur nel mantenimento di elementi essenziali della tradizione iconografica, non c’è più l’organizzazione spaziale gerarchica e rassicurante in cui l’angosciante visione dei tormenti dei dannati è controbilanciata da schiere ordinate di santi aureolati e angeli alati. Ogni uomo è investito dal giudizio di Dio. Manca la Chiesa, con le sue istituzioni e i suoi riti, con la sua mediazione. E forse è questo a fare scandalo, insieme e più della nudità.
L’entusiasmo e lo sdegno
Appena svelato, l’affresco suscita reazioni contrastanti. A quelle positive di Vittoria Colonna che dell’opera dice che «ci mostra la morte e quel che siamo in modo soave» e degli ammiratori dell’artista si contrappongono quelle di Biagio da Cesena, che ha potuto vedere l’affresco non ancora completato, e dei “chietini” citati nella lettera di Nino Sernini al cardinale Ercole Gonzaga il 19 novembre 1541, i quali sostengono «non star bene gli inudi in simil luogo». Dietro i “chietini” si profila la corrente degli intransigenti di Gian Pietro Carafa, di lì a poco cardinale inquisitore del Sant’Uffizio, istituito nel 1542, e futuro papa Paolo IV (1555).
I nove pannelli della volta della Cappella Sistina raccontano la creazione del mondo e dell’uomo secondo la Genesi
Foto: Archivio fotografico dei Musei Vaticani
Quando Pietro Aretino, non senza ipocrisia, nel 1545 scrive a Michelangelo una lettera durissima, cavalca un’opinione ormai diffusa: lo accusa di esprimere, nella «perfettion di pittura», «impietà di irreligione», mostrando proprio nel luogo più sacro, «gli angeli e i santi, questi senza veruna terrena honestà, e quegli privi d’ogni celeste ornamento». Argomenti che verranno ripresi da Lodovico Dolce nel suo Dialogo della pittura (1557).
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Gli interventi censori
Michelangelo non è toccato direttamente dalla persecuzione guidata dal potente Carafa che colpirà i suoi amici, accusati di eresia luterana, debellando ogni dissenso religioso interno alla Chiesa. Troppo grande forse il nome dell’artista, al quale ben quattro papi – Giulio II, Clemente VII, Paolo III e Giulio III – hanno voluto legare il proprio. Appena eletto, Paolo IV lo priva delle laute provvigioni e accarezza l’idea di distruggere il Giudizio. Saputo dell’intenzione di farglielo “accomodare”, Michelangelo avrebbe replicato: «Dite al papa che questa è piccola faccenda e che facilmente si può acconciare; che acconci egli il mondo, che le pitture si acconciano presto».
È sotto Pio IV però che verrà sanzionato l’ “imbraghettamento” dei nudi del Giudizio. Il 21 gennaio 1564, il papa decide di applicare all’affresco il decreto sulle immagini promulgato nell’ultima sessione del Concilio di Trento. Michelangelo muore il 18 febbraio. Il lavoro è affidato a Daniele da Volterra, che gli è stato vicino al capezzale. A lui si deve l’esecuzione della prima censura, la copertura delle nudità di alcuni personaggi con interventi “a secco” e, per san Biagio e santa Caterina, la distruzione e il rifacimento di una porzione dell’intonaco originale. A questo seguiranno, fin nei secoli successivi, numerosi altri interventi assai meno rispettosi dell’opera. Che, grazie anche al gigantismo, cifra dell’arte michelangiolesca che si confà ai riti della Chiesa postridentina, viene mantenuta. Ma con le nudità coperte.
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Per saperne di più
I segreti della Sistina. Roy Doliner, Benjamin Blech. Rizzoli, Milano, 2007.
Michelangelo, una vita inquieta. Antonio Forcellino. Laterza, Roma-Bari, 2005.