Quando nel XVI secolo i primi schiavi africani raggiunsero le coste del Brasile, capirono di avere ben poco in comune con quel nuovo continente e con chi ne faceva parte. Strappati alle proprie origini dai colonizzatori portoghesi, a migliaia furono deportati dalle coste dell’Africa occidentale fino al porto brasiliano di Salvador de Bahia, destinati al mercato di uomini e successivamente al lavoro forzato in miniere e piantagioni. Trovare un punto di contatto per ricreare una comunità e preservare la propria identità diventò quindi un bisogno naturale, costruendo un’alternativa al destino che la schiavitù avrebbe riservato loro.
In questo contesto si sviluppa la capoeira, una disciplina che unisce la danza e le arti marziali scandite a ritmo di musica. Nei secoli,questa pratica è stata un modo per assicurare la sopravvivenza delle tradizioni africane oltre la deportazione e l’oppressione, diventando uno degli emblemi della cultura brasiliana. Bandita nel XIX secolo perché considerata pericolosa e potenzialmente sovversiva, in epoca moderna è stata dichiarata dall’Unesco patrimonio immateriale dell’umanità, testimonianza autentica di un’identità composita, ricostruita partendo dalle proprie radici.
Alcuni uomini sono costretti a marciare dal cuore dell'Africa verso la costa, per essere condotti in America e venduti come schiavi. Incisione del 1859
Foto: Cordon Press
L'Africa in Brasile
Le origini della Capoeira risalgono al XVII secolo, quando le potenze coloniali europee – tra cui il Portogallo – iniziano a tessere le reti della tratta atlantica. Nell’arco di trecento anni (dal 1500 al 1815) il Brasile accolse oltre 4 milioni e 800 mila uomini e donne di origine africana. La cifra non tiene conto delle tante persone che non riuscirono a superare il lungo viaggio attraverso l’oceano. Il tasso di mortalità fu enorme anche tra coloro che furono ridistribuiti sul territorio e sfruttati senza riserve nelle miniere e nelle piantagioni di caffè, tabacco e canna da zucchero.
Le condizioni ambientali e le estenuanti giornate di lavoro spinsero molti schiavi alla fuga o alla ribellione, ma per farlo era necessaria una strategia difesa, quindi un’adeguata preparazione fisica. Gli schiavi iniziarono così ad allenarsi all’ombra delle foreste o durante le pause tra i turni di lavoro. Per non farsi scoprire, i colpi venivano diluiti in sessioni di movimenti fluidi che ricordano una danza dinamica, “un gioco africano”, per illudere gli oppressori che si trattasse solo un innocuo passatempo. Ciò consentì ai potenziali fuggitivi di realizzare un addestramento costante per essere pronti a scappare, o a reagire.
'Capoeira', dipinto di Johann Moritz Rugendas del 1835
Foto: Pubblico dominio
La "danza della zebra"
Durante la prima ondata di migrazioni buona parte degli schiavi proveniva dall’Angola, all’epoca colonia portoghese. Le teorie maggiormente accreditate connettono la capoeira alla danza n’golo, detta anche “danza della zebra” perché alcuni passi ricordano i movimenti dell’animale. Si tratta di un rito di passaggio verso l’età adulta destinato ai giovani uomini in cui due sfidanti si affrontano pubblicamente con l’obiettivo di atterrare l’avversario con calci e colpi sferrati a poca distanza dal suolo. Il tutto è scandito dal battito di mani e dalle percussioni, che creano un sottofondo musicale dal ritmo quasi ipnotico.
Gli stessi elementi si ritrovano nella capoeira, in cui due uomini (capoeristas) si sfidano all’interno di uno spazio circolare (roda) formato da altri partecipanti e osservatori. L’equilibrio si gioca sulla “ginga”, passo base dell’intera pratica: la chiave è restare sempre in movimento, per non farsi trovare dove l’avversario colpisce. I passi sono accompagnati da una musica ritmica suonata con strumenti mutuati dalla tradizione dell’africa occidentale. Primo tra tutti il berimbau (nome derivato dalla lingua bantu), che consiste in un lungo bastone ricurvo con le estremità collegate da una corda. Ispirato ad un arco da caccia, è considerato lo strumento di percussione più antico in assoluto: le prime raffigurazioni si trovano in pitture rupestri risalenti a circa 17 mila anni fa. Gli incontri sono preceduti da una litania (ladainha) cantata dal maestro e accompagnati da canti che raccontano la vita in schiavitù e incitano alla ribellione contro l’oppressore, per riconquistare la libertà.
'Capoeira en Río de Janeiro'. Dipinto di Augustus Earle del 1824
Foto: Pubblico dominio
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Guerrieri nella foresta
Coltivata come passatempo tutt’altro che innocuo, la capoeira divenne presto una vera e propria pratica di difesa per chi riusciva a sottrarsi al controllo dei proprietari terrieri. A partire dal XVII secolo nel folto della foresta brasiliana si creò un arcipelago di piccole comunità indipendenti – chiamate quilombos, dal termine angolano Kimbundu – divenute l’emblema della lotta alle oppressioni. Il più grande e più famoso è quello di Palmares, che arrivò a contare oltre 20 mila abitanti. Organizzati secondo un sistema gerarchico, i quilombos costituivano una sorta di città-stato, un sistema autonomo in grado di coltivare terreni e produrre utensili, da barattare al bisogno con armi e prodotti più ricercati.
Considerata “impenetrabile e ostile” dai portoghesi, la natura selvaggia dell’Amazzonia divenne un prezioso alleato per i fuggitivi, che nella lotta alla persecuzione trovarono l’alleanza delle popolazioni indigene. Iniziò così un braccio di ferro fra trafficanti di schiavi e deportati: mentre i quilombos reclutavano uomini liberi , i portoghesi tentavano in tutti i modi di recuperarli. Questa caccia all’uomo si risolveva spesso in scontri molto violenti, un combattimento all’ultimo sangue in cui i movimenti tipici della capoeira giocavano un ruolo chiave. In radure artificiali create al limitare della foresta, ex schiavi si difendevano dai loro aggressori con movimenti fluidi ma letali, una danza mortale figlia della schiavitù. Il nome capoeira deriverebbe proprio dall’unione dei termini ka’a (foresta) e puera (che fu), un’espressione che in lingua tupi-guaranì significa “ciò che fu un campo”.
Antica mappa del territorio di Pernambuco. Sulla destra è rappresentato il Quilombo di Palmarés
Foto: Pubblico dominio
«Più sei vicino, più imparerai»
Fino alla fine del XVII secolo i quilombos costituirono un forte simbolo di resistenza all’oppressione europea. Nel 1695 Domingo Jorge Velho, bandeirante (esploratore coloniale) al servizio della corona portoghese, riuscì a espugnare le comunità nascoste nelle foreste. Per farlo si servì di un cospicuo manipolo di schiavi africani e amerindi al suo comando, sfruttandone la conoscenza del territorio e delle tecniche di difesa. In breve tempo i quilombos vennero annientati. Se fino alla metà del XIX secolo la pratica veniva repressa, con l’abolizione della schiavitù in Brasile, nel 1888, sarà ufficialmente bandita dal governo brasiliano per timore che potesse alimentare rivolte popolari.
Ciò che oggi chiamiamo capoeira è una pratica fedele nel tempo allo spirito tradizionale, che nonostante le tante contaminazioni ha saputo mantenere quasi inalterata la propria identità culturale, tesa tra due mondi uniti dalla necessità di sopravvivere e trasformare le sfide in un punto di forza. Come affermava più di recente Mestre Bimba (pseudonimo di Manoel dos Reis Machado, 1899-1974), tra i primi maestri di capoeira riconosciuti all’inizio del XX secolo: «Non aver paura di avvicinarti al tuo avversario: più sei vicino più imparerai».
Domingo Jorge Velho, che nel 1694 distrusse il Quilombo di Palmarés. In quest'olio di Benedito Calixto dipinto nel 1903 è rappresentato insieme alla sua mano destra, Antônio Fernandes de Abreu
Foto: Pubblico dominio
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