Caccia al vampiro nel XIX secolo

La leggenda dei morti che tornano in vita è stata forse generata da alcuni processi fisici che possono verificarsi nei cadaveri

Nel XVIII e nel XIX secolo parve diffondersi in tutta Europa un’epidemia di vampirismo. Lo diceva già Rousseau nel 1762: «Se mai c’è stata al mondo una storia certa e provata, è quella dei vampiri. Non manca nulla: rapporti ufficiali, testimonianze di persone attendibili, di chirurghi, preti, magistrati». Naturalmente ci sono sempre stati degli scettici come lo stesso Rousseau o lo scrittore Charles Nodier, che nel 1822 dichiarava: «Tra tutti gli errori popolari, la credenza nel vampirismo è certamente la più assurda». Ma perché tante persone erano fermamente convinte dell’esistenza dei vampiri e testimoniavano perfino di averne visti?

In Transilvania un uomo spara a un cadavere riesumato cui in precedenza era stato piantato un paletto nel cuore. Incisione del XIX secolo

In Transilvania un uomo spara a un cadavere riesumato cui in precedenza era stato piantato un paletto nel cuore. Incisione del XIX secolo

Foto: White Images / Scala, Firenze

L’interesse per i “non morti” doveva molto al monaco benedettino Agostino Calmet, autore di un’opera dal titolo Dissertazioni sopra le apparizioni de’spiriti e sopra i vampiri (1746) in cui il religioso raccoglieva numerosi casi di vampirismo. Calmet descriveva questi esseri come persone morte che tornano per «inquietare i villaggi, offendere gli uomini […] succhiare il sangue dei propinqui, portare ad essi malattie, e farli morire, di maniera che non si può liberare dalle vite moleste, e dalle inquietudini di costoro, se non col disotterrarli, impallarli, tagliar loro la testa, strappar loro il cuore, ovvero abbruciarli». La mancata decomposizione del cadavere era uno dei primi indizi della trasformazione di un defunto in vampiro: «Si considera il corpo disotterrato per vedere, se vi si trovano i segni ordinari […] come la mobilità e la flessibilità delle membra, la fluidezza del sangue», scrive Calmet.

Morti viventi

Il fatto che un corpo non si decomponga può essere il risultato di due fenomeni oggi ben noti: la mummificazione, che avviene in ambienti caldi e asciutti, e la saponificazione, che invece si verifica quando il cadavere è esposto a condizioni di freddo e umidità, un caso comune nell’Europa centrale e orientale. Con il processo di saponificazione gli acidi grassi si trasformano in un composto ceroso simile al sapone che ricopre il cadavere evitandone la putrefazione. Un corpo che subisce un’alterazione simile non ha l’elasticità di un vivente, ma presenta comunque una relativa flessibilità. È quindi probabile che chi si prese la briga di osservare i cadaveri descritti nei trattati sui vampiri stesse in realtà esaminando dei corpi saponificati.

Ritratto di frate Agostino Calmet. XVIII secolo

Ritratto di frate Agostino Calmet. XVIII secolo

Foto: Bnf

Un altro segno che secondo la credenza del tempo identificava i “non morti” erano le macchie di sangue che presentavano alcuni cadaveri riesumati. Calmet lo racconta così: «Vengono a succhiare il sangue […] in tanta abbondanza, che talvolta gli esce dalla bocca, dal naso e particolarmente dalle orecchie, sicché non di rado il cadavere nel sepolcro nuota nel proprio sangue». Secondo un’altra testimonianza raccolta dal monaco, «i cadaveri a guisa di sanguisughe si riempiono tanto di sangue, che si vede manifestamente uscire per i condotti, e per i pori ancora».

Questo fenomeno ha una spiegazione logica: il tempo durante il quale il sangue di un defunto resta fluido dipende soprattutto dalle caratteristiche dell’ambiente in cui viene conservato. A basse temperature può rimanere liquido per più di tre o quattro giorni. Nei casi di sospetto vampirismo, se i corpi venivano riesumati entro questo margine di tempo era dunque possibile trovarli ancora con «le vene […] piene di sangue fluido».

Attrezzatura antivampiro composta da strumenti del XIX e XX secolo, in parte ispirati ai romanzi e al cinema. Royal Armory Museum, Leeds

Attrezzatura antivampiro composta da strumenti del XIX e XX secolo, in parte ispirati ai romanzi e al cinema. Royal Armory Museum, Leeds

Foto: Royal Armouries Museum / Alamy / Aci

In ogni caso, un rallentamento del processo di coagulazione può essere determinato da vari fattori. Quando si legge di cadaveri con macchie di sangue attorno alla bocca o che nuotano nel proprio sangue (sicuramente un’esagerazione), potrebbe trattarsi semplicemente di un’emorragia post mortem prodottasi proprio in questa fase di fluidità ematica. Un colpo subìto durante il trasporto al cimitero o mentre la bara viene calata nella tomba può provocare un trauma e la conseguente fuoriuscita più o meno abbondante di sangue dal naso o dalla cavità orale. Inoltre la concentrazione di enzimi anticoagulanti nel plasma di un morto può variare a seconda delle cause del decesso. Ci sono quindi varie spiegazioni naturali per le perdite ematiche dagli orifizi del volto di un cadavere senza che sia necessario ricorrere al vampirismo come invece vorrebbe la credenza popolare.

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Grida dall’oltretomba

Le leggende tramandano che per porre fine alle apparizioni di un vampiro era necessario dissotterrarlo e piantargli un paletto nel cuore. Appena pugnalato, il cadavere avrebbe emesso un grido. Nelle sue Dissertazioni Calmet riporta uno di questi casi: un governatore locale «fece ficcare, secondo il solito, un palo acuto nel cuore del morto […], e trafiggerlo da una parte all’altra, tal che colui gettò un orribile grido, come se fosse vivo». L’urlo era dunque considerato un’altra prova del fatto che i vampiri fossero ancora in vita e solo la procedura del paletto poteva ucciderli davvero.

Ma ovviamente anche episodi di questo tipo hanno una spiegazione scientifica. La violenza del colpo inferto con la stecca causa la rapida fuoriuscita dell’aria presente all’interno della cassa toracica del cadavere, che transitando per la gola può produrre una specie di suono. Chi assisteva alla riesumazione e piantava il piolo nel cuore del defunto interpretava il rumore simile a un ruggito come un grido di dolore.

La fine di un vampiro. Incisione di Les Tribunaux Secrets, 1864

La fine di un vampiro. Incisione di Les Tribunaux Secrets, 1864

Foto: Mary Evans / Scala, Firenze

Le unghie e i capelli

Un altro sicuro indice di vampirismo era quello dei morti «cui cresce la barba, i capegli, le unghie». Naturalmente quando una persona muore le cellule non ricevono più nutrimento e i capelli e le unghie smettono di crescere, sebbene alcune illusioni ottiche possano dare l’impressione opposta. Nel caso dei capelli, i processi post mortem di essiccazione, disidratazione e ritrazione della pelle del cranio possono lasciare scoperte delle parti prima nascoste sotto il cuoio capelluto. La chioma dei defunti inoltre tende a ricadere all’indietro dando la sensazione di essere cresciuta. Lo stesso accade con le unghie che, quando l’epidermide delle dita si ritrae, appaiono più lunghe di quanto non siano realmente.

Una rilettura degli antichi casi di vampirismo dimostra quindi che le credenze popolari erano alimentate da un’osservazione accurata dei cadaveri e di molti fenomeni allora apparentemente soprannaturali. Le spiegazioni però erano tutt’altro che scientifiche. In una certa misura, dunque, la credenza nei vampiri non era altro che il prodotto dell’ignoranza in merito ai processi di decomposizione e alle cause di alcuni fenomeni naturali oggi perfettamente spiegabili.

Nosferatu. Versione cinematografica di Dracula, il vampiro più famoso della storia

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Foto: Album

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