Alla fine del XVIII secolo le autorità del Regno Unito si trovarono di fronte a un urgente problema: la saturazione delle carceri. Il rigoroso sistema di giustizia britannico sanzionava con dure reclusioni anche i più piccoli furti, perfino quello di una mela, quindi ogni anno il numero dei reclusi cresceva di migliaia. L’estendersi della povertà nelle grandi città, dove si stava sviluppando l’industria, accresceva la criminalità e di conseguenza la repressione. Perciò non è sorprendente che le carceri fossero sature. Vagabondi e ladruncoli di poco conto – per la maggior parte – si mescolavano indistintamente con assassini, in deplorevoli condizioni ambientali e di trattamento.

Arthur Phillip fonda Port Jackson, la futura Sydney, il 26 gennaio del 1788. Olio di Algernon M. Talmage. XIX secolo. Commonwealth Club, Londra
Foto: Bridgeman / Index
Per i governanti britannici la soluzione migliore consisteva nel deportare una parte dei condannati in un qualche luogo remoto dove poter fondare delle colonie. Dal 1717 questa funzione era stata svolta dalle colonie del Nordamerica, come il Maryland, dove in virtù del Trasportation Act, un atto preso dal Parlamento in quell’anno, si era concentrato un buon numero dei carcerati della metropoli. Dal 1775 la rivoluzione nordamericana mise fine a questa possibilità. La legge Hulk (1776) stabiliva che i carcerati fossero sistemati in semplici baracconi, non creati specificamente come prigione, o in navi in disuso: si trattava di un sistema che non poteva risolvere il problema né nel breve né nel lungo periodo.
In questa situazione, e dopo un tentativo fallito nelle terre dell’Africa occidentale, il gabinetto del primo ministro lord North prese in considerazione una terra di deportazione alternativa: l’Australia. Nel 1770 il navigatore James Cook aveva percorso le coste australiane nel suo primo celebre viaggio di esplorazione e da quella spedizione era risultato un rapporto in cui si valutava la possibilità di colonizzare il territorio. Joseph Banks, biologo dell’esplorazione, fa riferimento a un porto naturale con condizioni ideali per creare una colonia di nuovo impianto, con gli elementi necessari per garantire abitabilità e sopravvivenza per la popolazione. Lo battezzarono Botany Bay (Baia Botanica) per via della grande varietà di specie vegetali che vi cresceva e, secondo Banks, era destinato a essere il nucleo della colonia del Nuovo Galles del Sud.
Botany Bay fu scelta per ospitare la prima colonia penale inglese in Australia
In cerca del carcere ideale
Negli anni seguenti si formularono diversi programmi di colonizzazione, in cui si valutava l’interesse commerciale e militare di un insediamento permanente nell’emisfero meridionale. Ma ciò che alla fine spinse il governo a inviare una spedizione in Australia fu il problema dei detenuti. In questo modo, quando nel maggio del 1787 salpò da Londra alla volta di Botany Bay quella che fu chiamata «la prima flotta», sei delle sue undici navi erano piene di detenuti.

Il capitano James Cook. Ritratto di Nathaniel Dance. Paesi Bassi. XVIII secolo
Foto: Photoaisa
Dopo un lungo e periglioso viaggio, compreso un tentato ammutinamento a bordo, il convoglio arrivò in Australia nel gennaio del 1788. Non fu necessario molto tempo per rendersi conto che le informazioni di Banks erano eccessivamente ottimiste: Botany Bay non era un eden, anzi mancava delle condizioni minime per ospitare una colonia penitenziaria. In primo luogo, il porto non aveva la profondità necessaria per ospitare navi di medie dimensioni, inoltre il suo territorio non era fertile e l’acqua scarseggiava.
Arthur Phillip, capitano della spedizione e futuro primo governatore della colonia, diede l’ordine di proseguire la navigazione verso nord, seguendo il perimetro della costa, alla ricerca di una zona più adatta alle necessità della flotta. Poche miglia dopo raggiunsero un luogo che soddisfaceva tutte le aspettative. Lo chiamarono Port Jackson, anche se presto sarà conosciuto come Sydney in onore di Thomas Thownshend, lord Sydney, il ministro che aveva promosso la spedizione dall’altra parte del mondo.
I primi anni della colonia furono disastrosi. Seguendo gli ordini emessi da Londra, Phillip inviò una piccola parte dei detenuti nell’isola di Norfolk, 1.500 chilometri a est dell’Australia, prevenendo un’occupazione da parte della Francia, il cui governo era interessato alla regione. Senza dubbio, la metropoli non aveva previsto che, data l’estrazione sociale eminentemente cittadina della maggior parte dei deportati e le spaventose condizioni di viaggio, che avevano avuto alti costi umani, Phillip si sarebbe trovato senza braccia utili con cui costruire da zero una colonia. Cento uomini erano morti nell’attraversata, e altrettanti erano malati e malnutriti, quindi incapaci di lavorare.

La colonia penale di Port Arthur, in Tasmania, che fu istituita dopo quella di Port Jackson (che poi cambierà nome in Sydney) in Australia
Foto: Age Fotostock
Sopravvivere nella colonia
La mancanza di disciplina e le condizioni inumane in cui vivevano i detenuti costituivano un altro problema. Gli uomini si ritrovarono a costruire un luogo in cui trovare rifugio fra gli abusi di funzionari e capisquadra, anch’essi carcerati, utilizzati dalle autorità come carcerieri.
Di fronte all’improduttività e alla fame, il governatore Phillip fu costretto a sollecitare urgentemente rifornimenti dalla metropoli. Londra tardò nel rispondere alla chiamata; tutto sommato si trattava di una colonia-discarica, dove il Regno Unito gettava i suoi rifiuti sociali senza tanti riguardi, lontano da sguardi indiscreti. Quando arrivò una piccola flotta con le provviste – che coprirono appena le necessità più elementari – il Nuovo Galles del Sud era sull’orlo della fine. Tanto che a Londra si arrivò a dibattere se fosse valsa la pena di riscattarla.
Nonostante i problemi, il governo continuava a mandare detenuti in Australia. I carcerati arrivavano a migliaia. Uomini e donne venivano stipati nelle stie delle navi, vicini gli uni agli altri, senza praticamente avere l’opportunità di respirare aria fresca nel corso di tutta l’attraversata, che durava mesi, a parte quando veniva loro permesso di recarsi sul ponte, sempre nei limiti di una zona recintata.

Aborigeni australiani. Incisione del 1879. Londra
Foto: Scala, Firenze
Questo ambiente favoriva la propagazione di malattie come il tifo, il colera e la febbre gialla, che provocavano morti in grande numero. Nel terzo viaggio, per esempio, buona parte dei passeggeri era già cadavere all’arrivo in Australia, e altri morirono poco dopo. Erano viaggi infernali, in cui divenne abituale nascondere la morte di un detenuto per potersi spartire la sua razione di pasto e in cui erano frequenti le punizioni corporali contro reclusi già molto debilitati.
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Prostitute e bambini
Con uomini adulti erano presenti anche anziani e donne. Queste ultime, per la maggior parte, finivano per prostituirsi, nella colonia come durante il viaggio, per poter sopravvivere. Vi erano anche dei bambini, poiché il codice penale inglese ammetteva la pena della deportazione a partire dall’età di nove anni. Il governo pagava gli armatori in base al numero di detenuti trasportati, a prescindere dal fatto che fossero vivi o morti, quindi era ovvio che non si spendesse molto per il loro mantenimento.
Una volta a terra, i detenuti sufficientemente in forze erano costretti ai lavori forzati: nella costruzione di strade, ponti, edifici pubblici, così come per lavori agricoli e nell’allevamento, fondamentali per la nuova colonia. Il Nuovo Galles del Sud iniziò a prosperare e a creare le proprie vie commerciali, così che attrasse sempre più coloni liberi, ognuno dei quali aveva diritto a un numero determinato di detenuti al suo servizio. Anche questi ultimi, tuttavia, ottennero la libertà e contribuirono a fondare una nuova nazione in Oceania.
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Per saperne di più
La riva fatale. R. Hughes. Adelphi, Milano, 1995