Vi fu un'epoca in cui la letteratura scatenò passioni talmente violente da decretare il destino degli uomini. Era il periodo in cui nacquero i primi giornali e il mondo era in fermento. E fra le menti più in linea con il suo tempo vi fu un uomo il cui pseudonimo diceva tutto sulla sua propensione alla disputa: Aristarco Scannabue.
Giuseppe Baretti in un rittratto eseguito dall'amico sir Joshua Reynolds nel 1773
Foto: Pubblico dominio
Gioventù e formazione
Giuseppe Marco Antonio Baretti nacque a Torino il 25 aprile 1719 da una famiglia benestante del Monferrato. Il padre, Luca Baretti, era architetto militare. La madre si chiamava Anna Caterina Tesio e dopo di lui diede alla luce altri tre figli maschi: Filippo, Giovanni e Amedeo. Per questioni ereditarie il primogenito venne ordinato chierico a quattordici anni. Entrò giovanissimo a far parte dell'entourage del letterato Girolamo Tagliazucchi, docente di eloquenza e lingua greca all'università di Torino, che Baretti definirà «santo Veglio», «dotto e dabbene» e «lucido speglio [specchio]».
Nel 1735 Caterina morì, e il vedovo si risposò con Genoveffa Astrua, una donna facoltosa e influente con conoscenze importanti alla corte dei Savoia. I nuovi equilibri familiari, sommati alla fase adolescenziale tumultuosa, portarono ben presto ad uno scontro aperto fra Giuseppe e il padre che, per quieto vivere, lo allontanò da casa mandandolo a dimora presso uno zio, a Guastalla (oggi in provincia di Reggio Emilia). Abbandonata la tonsura, il giovane prese servizio come scrivano presso un'impresa commerciale della zona. In questo nuovo ambiente ebbe modo di continuare a formarsi e conobbe il poeta satirico Carlo Cantoni, membro dell'Accademia letteraria degli Sconosciuti, che influenzerà la sua produzione successiva.
Crescendo Baretti andò sempre più affermando il carattere irruento e insofferente della pubertà. Nel 1739 si trasferì a Venezia, dove conobbe Gasparo e Carlo Gozzi, destinati a diventare intellettuali di primo piano dell'epoca e con i quali fonderà nel 1747 l'Accademia dei Granelleschi, un cenacolo di uomini colti che s'incontrava per discutere di letteratura e costume. Nel 1740 lo troviamo a Milano e due anni dopo a Cuneo, dove lavora come economo. Rientrato a Torino alla morte del padre, con cui i rapporti non si erano mai appianati, negli anni successivi viaggiò ancora fra Milano e Venezia. In questo periodo la sua irrequietezza trovò sbocco nella scrittura. Pubblicò la traduzione di quattro volumi delle Tragedie di Pier Cornelio (1747-48) e le Lettere [...] sopra un certo fatto del dottor Biagio Schiavo da Este (1747), in cui s'iniziano a delineare lo stile scorrevole e immediato e la vis polemica che caratterizzeranno gli anni della maturità.
Il bacino di San Marco verso est (Canaletto, 1730 circa, Boston, Museum of Fine Arts)
Foto: Pubblico dominio
Alla conquista dell'Europa
La mente sempre in fermento di Baretti lo portò nel 1751 a trasferirsi a Londra, dove trovò impiego come insegnante d'italiano e librettista del teatro d'opera, la cui orchestra era all'epoca diretta da un conterraneo, il violinista Felice Giardini. Risale a questo periodo la pubblicazione di alcuni libelli a carattere teatrale e testi di critica della poesia italiana che gli valsero l'affermazione fra il pubblico britannico. D'indole socievole, strinse amicizia con nomi di spicco del panorama culturale londinese. Fra questi il pittore Joshua Reynolds, che nel 1768 fu il primo direttore della neonata Royal Academy of Arts, e Samuel Johnson, saggista, lessicografo e critico letterario, sostenitore della purezza della lingua inglese e acerrimo nemico dei francesismi. Questa frequentazione probabilmente lo ispirò nell'intraprendere un'opera fondamentale, la stesura di un dizionario italiano-inglese, pubblicato nel 1760, che ebbe un buon riscontro.
Anima nomade, Baretti investì il ricavato delle vendite in una sorta di Grand tour che lo portò in Spagna, Portogallo e Francia e nuovamente a Milano. Durante questi viaggi scrisse numerose lettere ai fratelli, che vennero poi raccolte nella pubblicazione Lettere familiari a' suoi tre fratelli Filippo, Giovanni e Amedeo (1762-63). Pubblicate integralmente in Inghilterra, vennero molto apprezzate in quanto foriere del nuovo brioso spirito europeo multiculturale che voleva l'intellettuale ovunque a suo agio e poliglotta. In Italia invece vennero censurate a causa delle rimostranze del ministero portoghese, che si sentiva chiamato in causa per la recente espulsione dei gesuiti dal Paese. Baretti infatti così scrive in una delle lettere: «Ebbene andiamo a Lisbona. Andai dunque coll'Inglese dal console portoghese pe' passaporti, senza i quali i nessuno è ammesso in Portogallo. Il console portoghese, sentendo il mio nome, mi disse che non mi poteva dare passaporto. – Perchè? – Perchè vossignoria ha scritto in Nizza di Provenza un libro in favor de' Gesuiti, in cui disse molte cose orribili del Re di Portogallo e de ' suoi ministri. – Come? Questo non è vero. – Come, non è vero se il Re di Sardegna a mia istanza e del signor de Almada ha mandato in galera lo stampatore di Nizza, bandito lei da tutti i suoi Stati, e fatto confiscare tutte le copie stampate? Se lei va in Portogallo, stia certo che finirà come il padre Malagrida», riferendosi al missionario gesuita condannato a morte e bruciato sul rogo a Lisbona nel 1761. Dopo lo smacco della censura, Baretti tornò dunque nel 1763 a Venezia con un nuovo progetto da realizzare.
Aristarco Scannabue e La frusta letteraria
In quegli anni il panorama culturale della penisola era caratterizzato dal diffondersi di una vivace polemica nei confronti dell'Arcadia. Questa era un'accademia letteraria nata a Roma attorno alla regina Cristina di Svezia nel 1690, che si proponeva di tornare a uno stile semplice e scevro di orpelli, in contrapposizione al pomposo barocco, ispirandosi alle liriche pastorali dell'antica Grecia. In tale polemica s'inserì Baretti, che accusò gli arcadici di fare un uso troppo elevato ed elitario della lingua a discapito della naturale immediatezza e spontaneità, e di utilizzare toni leziosi e inutilmente melodrammatici.
Frontespizio del primo numero della «Frusta letteraria» (1763)
Foto: Pubblico dominio
Nel corso del XVIII secolo si andavano affermando i primi giornali, che divennero strumento fondamentale per il diffondersi del dibattito culturale. In questo panorama Baretti fondò La frusta letteraria, un quindicinale di critica letteraria che diventò una vera e propria spina nel fianco per molti. Egli ne era il solo autore, e concepì la rivista in maniera estremamente originale. Quel che si proponeva era di offrire una panoramica critica sulle recenti produzioni letterarie, e per farlo s'inventò il personaggio di Aristarco Scannabue, un ex soldato con una gamba di legno che passava le giornate nella sua casa di campagna a leggere le ultime novità e a recensirle. Suo interlocutore privilegiato era don Petronio Zamberlucco, anch'egli personaggio di fantasia nato dalla penna di Baretti, che rappresentava la pedanteria e la tradizione polverosa. Zamberlucco amava tutto ciò che era italiano, senza porvi mai alcuna critica costruttiva.
La frusta aveva anche una rubrica di posta dei lettori, con missive che erano in realtà sempre opera dello stesso Baretti. Il suo scopo dichiarato era quello di «provvedersi d’una buona metaforica Frusta, e di menarla rabbiosamente addosso a tutti questi moderni goffi e sciagurati, che vanno tuttodì scarabocchiando commedie impure, tragedie balorde, critiche puerili, romanzi bislacchi, dissertazioni frivole, e prose e poesie d’ogni generazione, che non hanno in sé il minimo sugo, la minima sostanza, la minimissima qualità». In opposizione al formalismo dell'Arcadia, sosteneva la necessità di una «letteratura combattiva e concreta», in cui primeggiassero le «cose naturali, cose belle, cose grandi», raccontate con «semplicità, con forza, con entusiasmo».
Se da un lato amava Metastasio, Ludovico Ariosto e William Shakespeare, dall'altro criticò aspramente Carlo Goldoni, che pur avendo riformato il teatro venne accusato di usare una lingua sciatta e di creare personaggi falsi. Peggio ancora andò all'abate Pietro Chiari, autore di romanzi molto in voga all'epoca, a cui Aristarco diede del «cane […] da trattare come si trattano i cani rabbiosi». La sua frusta non sferzò solo letterati contemporanei, ma anche scrittori precedenti, come Pietro Bembo, o autori di argomenti vari, come l'agronomo Antonio Zanon, e ancora trattati di caccia, sul matrimonio, la salute, la medicina e via dicendo.
Non perderti nessun articolo! Iscriviti alla newsletter settimanale di Storica!
Ultimi anni di Giuseppe Baretti
Aristarco Scannabue si fece così molti nemici. Fra gli altri, finì nel suo tritacarne anche Appiano Buonafede, autore della commedia Filosofi fanciulli. Il commediografo si difese pubblicando un feroce libello dal titolo Il bue pedagogo. Novelle menippee di Luciano da Firenzuola contro una certa Frusta letteraria pseudoepigrafa di Aristarco Scannabue (1764), e si adoperò con zelo per far sì che le autorità di Venezia non solo ricorressero alla censura, ma addirittura provvedessero all'espulsione del critico dallo stato pontificio nel quale si era nel frattempo rifugiato. Da Ancona, dove aveva provato per qualche tempo a proseguire la pubblicazione di La frusta letteraria, Baretti riparò infine in Inghilterra nel 1766. Qui nel 1777 scrisse forse la sua opera più importante, Discours sur Shakespeare et sur monsieur de Voltaire, nella quale elaborò in maniera coerente il suo pensiero, sottolineando la necessità per uno scrittore d'essere libero e riaffermando condanna di ogni regola formale. Malato di gotta, Baretti morì a Londra nel maggio del 1789.
Se vuoi ricevere la nostra newsletter settimanale, iscriviti subito!