1973, la prima crisi energetica

Lo scoppio della guerra tra Israele, Siria ed Egitto interruppe le esportazioni di petrolio e in tutto il mondo il prezzo del combustibile schizzò alle stelle

Non perderti nessun articolo! Iscriviti alla newsletter settimanale di Storica!

1 / 30
1973, la prima crisi energetica

1 / 30

1973, la prima crisi energetica

Nell’autunno del 1973 la guerra dello Yom Kippur rivelò i limiti della crescita economica occidentale basata sull’abbondanza e i bassi prezzi del petrolio, i cui derivati rappresentavano quasi la metà dell’energia primaria utilizzata a livello mondiale. Nell’immagine, il cartello di una stazione di servizio statunitense che annuncia la mancanza di benzina.

Foto: Alamy / ACI

La fine di un’era

2 / 30

La fine di un’era

Il 1973 vide la rottura dell’ordine economico emerso dopo la Seconda guerra mondiale, caratterizzato dalla crescita sostenuta dei Paesi capitalisti sviluppati; un’epoca che in Francia fu significativamente denominata Les Trente glorieuses (i gloriosi trenta) per la sua durata di quasi tre decenni. A partire da quell’anno, la crescita subì un brusco rallentamento, il cui elemento più evidente fu il forte aumento del prezzo del petrolio, considerato il fattore scatenante della crisi per i suoi effetti sull’economia. Il simbolo di quel cambio di tendenza fu l’embargo sulla vendita di greggio agli stati che avevano sostenuto Israele durante la guerra dello Yom Kippur, decretato dai Paesi arabi esportatori di petrolio. Nella foto, un ragazzo riempie delle taniche di carburante in una stazione di servizio in Germania nel novembre 1973.

Foto: AP Images / Gtres

Il petrolio come arma

3 / 30

Il petrolio come arma

Il 6 ottobre 1973, proprio nei giorni in cui si celebrava la festività ebraica dello Yom Kippur, Egitto e Siria attaccarono Israele per riconquistare la penisola del Sinai e le alture del Golan, territori che avevano perso dopo la sconfitta araba contro gli israeliani nella Guerra dei sei giorni del 1967. Re Faysal d’Arabia, che si era impegnato con il presidente egiziano Anwar al-Sadat a usare «il petrolio come arma», convocò insieme all’emiro del Kuwait una riunione degli stati arabi dell’OPEC (l’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio) il 16 ottobre, durante la quale si decise di ridurre gradualmente la produzione di petrolio e di aumentarne il prezzo per minare il sostegno a Israele in Occidente. Il 19 dello stesso mese fu decretato l’embargo sulla vendita di petrolio greggio agli Stati Uniti per il loro sostegno agli israeliani, seguito dall’embargo ai Paesi occidentali che assunsero la stessa posizione. Nella foto, le forze israeliane si dirigono verso le alture del Golan l’8 ottobre 1973 per combattere le truppe siriane.

Foto: Getty Images

Sete di carburante

4 / 30

Sete di carburante

Un automobilista spinge l’auto in coda a una stazione di servizio di Roslindale, Boston, nel 1973. Gli Stati Uniti non riuscivano più a coprire il loro fabbisogno petrolifero con la produzione interna: l’embargo ebbe un impatto diretto sulla loro economia visto che quell’anno gli USA importavano 6,2 milioni di barili di petrolio al giorno. I settori più colpiti furono quelli legati alle automobili: i 117 milioni di veicoli del Paese consumavano molto più carburante rispetto alle auto europee e giapponesi, più piccole, leggere ed efficienti. Nel gennaio 1974 furono adottate misure per il risparmio di carburante, come il limite di velocità nazionale di cinquantacinque miglia (88,5 chilometri) all’ora, e all’inizio di febbraio stati come il Massachusetts, il Maryland e il New Jersey seguirono l’esempio dell’Oregon: i veicoli con targa pari potevano acquistare carburante nei giorni pari e quelli con targa dispari nei giorni dispari.

Foto: Spencer Grant / Getty Images

Tempi di restrizioni

5 / 30

Tempi di restrizioni

Nell’immagine è immortalata una coda per ottenere i buoni per il razionamento del carburante presso l’ufficio postale di Hanover Street a Liverpool, il 29 novembre 1973. In Gran Bretagna solo il venti per cento della fornitura energetica proveniva dal petrolio, mentre il settanta percento derivava dal carbone e il resto era generato da centrali nucleari e idroelettriche. Nel Regno Unito dunque la crisi energetica non fu paragonabile a quella registrata altrove. In realtà il razionamento non entrò mai in vigore, a differenza di quanto avvenuto in altri Paesi europei che temevano una carenza generalizzata di petrolio. Per prevenirla furono adottate anche altre misure come la limitazione del riscaldamento negli edifici pubblici o la riduzione dell’illuminazione. Ma se la scarsità di petrolio fu limitata e temporanea, l’aumento del prezzo del greggio proseguì: tra ottobre 1973 e gennaio 1974 il barile (159 litri) passò da tre a dodici dollari.

Foto: Alamy / ACI

Tutto per risparmiare carburante

6 / 30

Tutto per risparmiare carburante

I Paesi Bassi, che sostennero attivamente Israele, furono il Paese europeo più colpito dall’embargo; all’estremo opposto si trovarono invece Francia e Regno Unito, che avevano preso le distanze dalla politica statunitense nel Vicino Oriente. Nell’immagine, quattro bambini percorrono in bicicletta un’autostrada nei Paesi Bassi il 4 novembre 1973, la prima delle dieci “domeniche senz’auto” introdotte per risparmiare benzina. Il razionamento del carburante terminò lì il 4 febbraio, dopo soli ventitré giorni in vigore, e si rivelò inefficace in quanto molti automobilisti attraversavano il confine con la Germania Ovest per fare il pieno. Anche altri Paesi razionarono temporaneamente il carburante, come la Svezia, e vietarono l’uso della macchina la domenica, come Danimarca, Norvegia, Belgio, Germania Ovest e Italia. L’improvvisa carenza di petrolio mise fine alla sensazione che le risorse a disposizione dei Paesi sviluppati fossero illimitate.

Foto: Alamy / ACI

Vincitori e vinti

7 / 30

Vincitori e vinti

Il re Faysal e Henry A. Kissinger, segretario di stato degli Stati Uniti, si riunirono il 15 dicembre 1973 a Riyadh, capitale dell’Arabia Saudita, per discutere della situazione nel Vicino Oriente dopo la fine dei combattimenti del 26 ottobre. Il 5 marzo 1974 Israele si ritirò dal Sinai e dodici giorni dopo terminò l’embargo petrolifero. La crisi avvantaggiò i Paesi esportatori – nel 1973 e 1974 l’Arabia Saudita, il maggiore produttore mondiale di greggio, registrò tassi di crescita del PIL del venti per cento circa – e le grandi compagnie petrolifere, che videro crescere notevolmente i loro profitti. Negli anni successivi il controllo del petrolio sarebbe passato ai Paesi produttori attraverso la nazionalizzazione (come in Iraq, Algeria, Libia e Venezuela) o la partecipazione a concessionari privati (come la statunitense Aramco in Arabia Saudita); da parte sua, l’Occidente avrebbe dovuto affrontare l’inflazione, la stagnazione economica e la disoccupazione derivanti dalla crisi del 1973 e da un nuovo shock petrolifero nel 1979.

La storia però è molto più complessa. Di seguito è narrata più dettagliatamente:

Foto: AP Images / Gtres

Una spartizione ingiusta

8 / 30

Una spartizione ingiusta

Gennaio 1951: alcuni operai dell’Aramco eseguono opere topografiche per la posa di un nuovo tratto dell’oleodotto in Arabia Saudita.

All’inizio degli anni cinquanta i Paesi produttori di petrolio cominciarono a riflettere sul fatto che il sistema di concessioni alle aziende petrolifere occidentali gli forniva un margine scarso a fronte degli immensi guadagni prodotti dal petrolio. Aramco (un consorzio statunitense formato da Exxon, Mobil, Chevron e Texaco), che godeva del diritto di sfruttamento esclusivo del petrolio saudita, nel 1949 otteneva dei profitti tripli rispetto allo stato arabo. Addirittura, le tasse che Aramco versava al governo federale statunitense superavano di quattro milioni di dollari gli incassi del governo saudita. In pratica, l’amministrazione statunitense riceveva più benefici dal petrolio saudita degli stessi sauditi. Anche in altri Paesi industrializzati la fiscalità sui derivati del petrolio forniva ampi guadagni allo stato.

Foto: AP

Per un trattamento più equo

9 / 30

Per un trattamento più equo

Pompa per l’estrazione di petrolio in Texas. Negli anni cinquanta il mercato mondiale del greggio era controllato da sette gigantesche compagnie, due delle quali erano texane: Gulf e Texaco.

Grazie al precedente del Venezuela, che nel 1943 aveva ottenuto un accordo con le concessionarie petrolifere per ottenere una divisione al cinquanta per cento dei guadagni petroliferi, nel dicembre 1940 i sauditi negoziarono un accordo simile con Aramco, e gli altri stati arabi ne seguirono l’esempio. Era il compromesso massimo a cui fossero disposte le sette grandi compagnie petrolifere ­– le cosiddette Sette sorelle – che dominavano il commercio mondiale del petrolio fin dalla Prima guerra mondiale: le statunitensi Exxon, Mobil, Chevron, Gulf e Texaco; la britannica British Petroleum (in origine anglo-iraniana); l’anglo-olandese Royal-Dutch Shell. Temevano infatti che i Paesi produttori finissero per imporsi su di loro, e non avevano tutti i torti: date le vaste riserve di greggio nel sottosuolo dei Paesi arabi, il loro potere era destinato a crescere sempre di più. Tra il 1948 e il 1972 la produzione petrolifera del Vicino Oriente passò da un milione e 100mila a 18 milioni e 200mila barili al giorno. Nello stesso periodo gli Stati Uniti – che dal 1902 avevano occupato stabilmente il posto di primo produttore al mondo di greggio – passarono da 5 milioni e 700mila a 9 milioni e 300mila barili al giorno. La regione del golfo Persico aveva acquisito un potere cruciale nello sviluppo dell’Occidente industriale.

Foto: AP

Il fatale errore della British Petroleum

10 / 30

Il fatale errore della British Petroleum

Marchi di quattro grandi aziende petrolifere: British Petroleum (BP), Exxon, Chevron e Shell.

La ripartizione al cinquanta per cento rimase tale perché gli stati arabi si trovavano di fronte a un eccesso nell'offerta di petrolio. Infatti dall’inizio degli anni cinquanta il petrolio sovietico aveva iniziato a inondare i mercati. D’altra parte, temevano che se avessero fatto ulteriori richieste alle aziende petrolifere queste avrebbero smesso di estrarre greggio dai loro territori concentrando i propri affari nelle enormi riserve americane, africane e asiatiche. All’epoca infatti i Paesi arabi non erano in grado di gestire direttamente l’estrazione di petrolio, per mancanza della necessaria tecnologia e preparazione. Nel 1959, però, la British Petroleum (BP) decise di ridurre il prezzo della vendita del petrolio del dieci per cento, proprio perché l’eccesso di offerta sovietica aveva costretto ad abbassare i prezzi, e lo fece senza comunicarlo ai Paesi produttori. L’azienda gli aveva insomma imposto unilateralmente un calo di guadagni e dunque la diminuzione del bilancio nazionale. L’azione della BP rivelò la disparità di rapporto tra le compagnie e gli stati produttori.

Foto: AP

L’ultima goccia e la nascita dell’OPEC

11 / 30

L’ultima goccia e la nascita dell’OPEC

Lo sceicco Abdullah Tariki, ministro dell’energia dell’Arabia Saudita e promotore della creazione dell’OPEC, in una fotografia del 1958.

Nell’agosto 1960, sempre unilateralmente, la statunitense Standard Oil ridusse del sette per cento il prezzo della vendita del petrolio. Ciò fece infuriare i Paesi produttori e rese chiarissimo che le aziende petrolifere avrebbero continuato a controllare le nazioni arabe senza che queste potessero controllare nemmeno il proprio petrolio. All’epoca il ministro dell’energia saudita era Abdullah Tariki, uno dei primi ad aver studiato all’estero appunto per formarsi sul business petrolifero. Tariki, che aveva studiato geologia e chimica negli Stati Uniti, fu il promotore della creazione di un cartello internazionale che difendesse i diritti degli stati produttori di petrolio, concretizzatosi il 14 settembre 1960 con l’annuncio della formazione dell’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio (OPEC), che includeva Arabia Saudita, Kuwait, Iran, Iraq e Venezuela.

Foto: AP

Libia: la fine della barriera del cinquanta per cento

12 / 30

Libia: la fine della barriera del cinquanta per cento

Immagine di una concessione petrolifera in Libia di 113.205 chilometri quadrati affidata a una compagnia occidentale. La fotografia data al febbraio 1971.

Nel 1956 erano state scoperte grandi riserve di greggio in Algeria, e nel 1959 furono scoperte in Libia, governata dal re Idris I. Consapevoli di quanto stava accadendo nel golfo Persico – dove le grandi aziende petrolifere avevano ottenuto il diritto di estrazione su enormi territori –, i libici crearono una moltitudine di concessioni offrendole a compagnie indipendenti. Nel 1969 le loro esportazioni di greggio erano pari a quelle dell’Arabia Saudita. Ma la relazione tra concessionarie e stato iniziò a cambiare da quando, nel settembre del 1969, ufficiali delle forze armate abbatterono la monarchia. Il loro leader, il colonnello Muʿammar Gheddafi, annunciò una nuova era «in cui, con l’aiuto di Allah, potremo ammirare come operano tra noi la prosperità e l’uguaglianza». Le proprietà in mano straniera furono espropriate, le basi militari statunitensi chiuse, le truppe straniere furono espulse e si cercò di cambiare la politica petrolifera, dato che il controllo internazionale del greggio era considerata la principale minaccia alla sovranità libica. Come prima cosa, nell’aprile 1970 la Libia pretese un aumento del venti per cento sul prezzo del petrolio (ovvero di quarantatré centesimi a barile, che allora si vendeva a 2,20 dollari). Un aumento simile non aveva precedenti, e la Esso (filiale europea della statunitense Exxon) fece una controfferta di cinque centesimi al barile. Dal momento che Esso ed Exxon potevano estrarre il greggio da molte altre riserve, erano immuni alle minacce di Gheddafi. Allora il governo libico si concentrò su una compagnia statunitense indipendente: la Occidental Petroleum, che all’epoca non disponeva di greggio fuori dalla Libia, e il cui commercio dipendeva dunque dal petrolio di questo Paese. A settembre la compagnia si piegò alle condizioni del governo e accettò di alzare il prezzo del greggio libico di trenta centesimi: il barile si sarebbe venduto a 2,53 dollari, il prezzo più alto della storia fino a quel momento. Oltretutto la Occidental Petroleum concesse alla Libia una parte degli introiti superiore alla propria: il cinquantacinque per cento dei guadagni alla Libia, il quarantacinque all’azienda. Era la prima volta che un Paese produttore di greggio otteneva la maggior parte dei ricavi derivati dalla sua estrazione.

Foto: AP

Gli accordi di Teheran

13 / 30

Gli accordi di Teheran

La petroliera Almizar nel porto libanese di Sidone nel febbraio 1971, in attesa di caricare 420mila barili di greggio per il porto francese di Le Havre. Il petrolio arrivava a Sidone dall'Arabia Saudita attraverso la Trans-Arabian Pipeline (Tapline), in servizio dal 1950.

Il precedente della Occidental Petroleum sarebbe stato applicato a tutte le compagnie petrolifere che operavano in Libia, e il modello libico avrebbe a sua volta dato il via a una nuova politica petrolifera: nel febbraio 1971 Iran, Iraq e Arabia Saudita firmarono l'accordo di Teheran, che garantiva che gli stati produttori di petrolio avrebbero ricevuto un minimo del cinquantacinque per cento dei profitti e che aumentava il prezzo del petrolio di altri trentacinque centesimi. Nell'aprile 1971 Libia e Algeria negoziarono un ulteriore aumento di novanta centesimi al barile da applicare ai mercati del Mediterraneo. Fu l'inizio di due tendenze: l'aumento dei prezzi del petrolio da parte degli stati produttori e la diminuzione della quota di profitto delle compagnie petrolifere.

Foto: AP

Libia, la prima nazionalizzazione di successo

14 / 30

Libia, la prima nazionalizzazione di successo

Il presidente egiziano Anwar al-Sadat affiancato dal colonnello libico Muʿammar Gheddafi, a sinistra, e dal presidente siriano Hafiz al-Assad, a destra, al Cairo nell'ottobre 1971. I tre si erano riuniti per lanciare un'effimera Federazione delle Repubbliche arabe formata dai loro Paesi per volere di Gheddafi, che all'epoca sosteneva il panarabismo (l'unione dei popoli arabi in un'unica nazione).

Nel 1968 erano nove gli stati del golfo Persico sotto la tutela coloniale della Gran Bretagna: Bahrein, Qatar, Abu Dhabi, Dubai, Sharja, Ras al-Khaima, Umm al-Qaiwain, Fujaira e Ajman. La posizione del Regno Unito gli permise di ottenere preziose concessioni per le loro compagnie petrolifere, soprattutto ad Abu Dhabi e Dubai. Ma la Gran Bretagna, in preda a una crisi economica, non era più in grado di mantenere la sua presenza militare in quei Paesi, così annunciò il suo ritiro entro il 1971. L'Iran, tuttavia, dichiarò la propria sovranità su numerose isole del Golfo situate in prossimità d’importanti giacimenti petroliferi offshore. In risposta, e per rendere sostenibile l'esistenza dei suoi protetti, il Regno Unito li incoraggiò a unirsi in un unico stato e cercò di placare l'Iran offrendogli tre isole appartenenti a Ras al-Khaima e Sharja. Alla fine Bahrein e Qatar dichiararono l'indipendenza e gli altri sette emirati formarono gli Emirati Arabi Uniti. Ma l'occupazione delle isole da parte dell'Iran scatenò le ire del mondo arabo (l'Iran, uno stato di lingua persiana e di popolazione persiana, non è arabo; la sua religione, peraltro, è in gran parte l'islam sciita, mentre nelle altre nazioni arabe è egemone l'islam sunnita). In risposta, il 7 dicembre 1971 la Libia nazionalizzò tutte le proprietà legate agli interessi petroliferi britannici.

Foto: AP

Mossadeq, il precedente fallito

15 / 30

Mossadeq, il precedente fallito

Mohammad Mossadeq, primo ministro dell'Iran, viene dichiarato "Uomo dell'anno 1951" sulla copertina della rivista statunitense Time. Il suo ritratto figura su una mappa del Medio Oriente dove appaiono un pugno alzato in Egitto, che rivendicava il possesso del canale di Suez, e in Iran, dove Mossadeq nazionalizzò l'industria petrolifera.

Esisteva un solo precedente di nazionalizzazione del petrolio: la nazionalizzazione del 1951 da parte di Mohammad Mossadeq, primo ministro dell'Iran, dove lo sfruttamento del petrolio era dominato dagli inglesi. Un'azione concertata di Stati Uniti e Gran Bretagna impedì la vendita di greggio iraniano sui mercati internazionali, mentre la marina britannica annunciò che avrebbe affondato qualsiasi petroliera che avesse caricato greggio in Iran. Il governo di Mossadeq fu rovesciato da un colpo di stato orchestrato dalla CIA e dall'MI6 britannico – e appoggiato dal sovrano iraniano, lo scià Mohammad Reza Pahlavi – che portò il politico iraniano in carcere. Vent'anni dopo le azioni di Gheddafi dimostrarono che la crescente dipendenza dell'Occidente dal petrolio arabo lo rendeva vulnerabile alle ritorsioni legate al petrolio. Gli arabi cominciarono a rendersi conto che il petrolio poteva essere un'arma efficace per raggiungere i loro obiettivi politici e non passò molto tempo prima che cominciassero a pensare a come usarlo nel conflitto con Israele.

Foto: Cordon Press

La guerra dei Sei giorni

16 / 30

La guerra dei Sei giorni

Prigionieri egiziani sorvegliati dai soldati israeliani dopo la cattura nei pressi della città di Al-Arish, nella penisola del Sinai, durante la guerra dei Sei giorni del giugno 1967.

Il petrolio fu usato per la prima volta come arma durante la guerra dei Sei giorni tra arabi e israeliani, che durò dal 5 al 10 giugno 1967 e si concluse con la schiacciante sconfitta di Egitto, Giordania e Siria da parte d’Israele, le cui truppe occuparono la penisola del Sinai, la striscia di Gaza, la Cisgiordania e le alture del Golan. I Paesi arabi, riuniti il 6 giugno, decisero di vietare le spedizioni di petrolio a Stati Uniti, Gran Bretagna e Germania Ovest a causa del loro sostegno a Israele. Le forniture arabe furono ridotte del sessanta per cento, ma l'Occidente resistette senza difficoltà. Da un lato, gli stati sottoposti a embargo aggirarono il divieto acquistando petrolio da altri stati non interessati dal veto arabo. Dall’altro, gli Stati Uniti e i Paesi non arabi produttori di petrolio aumentarono la loro produzione, mentre il Giappone utilizzò un nuovo tipo di nave, le gigantesche "superpetroliere", per immettere il greggio sui mercati internazionali. Nel giro di un mese, gli stati industrializzati reperirono le forniture necessarie, mentre i Paesi arabi furono privati di entrate petrolifere vitali. In agosto Egitto, Siria e Giordania, sconfitti da Israele, chiesero alle aziende di petrolio di ripristinare le forniture per riprendersi dalle perdite economiche causate dalla guerra. Insomma, oltre a essere inefficace, l'arma del petrolio causò danni alle economie arabe, che si aggravarono quando il loro petrolio tornando sui mercati internazionali generò un eccesso di offerta, che fece crollare i prezzi.

Foto: AP

Perché no?

17 / 30

Perché no?

Il 9 gennaio 1968, a Beirut, i rappresentanti di Arabia Saudita, Libia e Kuwait – i tre maggiori produttori di petrolio del mondo arabo – firmano il protocollo che crea l'Organizzazione dei Paesi Arabi esportatori di petrolio. Da sinistra a destra, i ministri Ahmed Zaki Yamani dell'Arabia Saudita, Khalifa Musa della Libia e Abdul Rahman Salim Atiqi del Kuwait. Il loro obiettivo era quello di separare il commercio del petrolio dalla politica dopo il fiasco della guerra dei Sei Giorni.

Nonostante gli eventi della guerra dei Sei giorni, il petrolio poteva ancora essere un'arma potente, come sosteneva Abdullah Tariki, il promotore dell'OPEC, in un saggio pubblicato dopo il conflitto. Tariki – che nel 1962 era stato sostituito come ministro dell'energia saudita da Ahmed Zaki Yamani – considerava il petrolio arabo «un'arma da guerra» e il suo uso perfettamente legittimo: «Ogni stato ha il diritto di usare qualsiasi mezzo a sua disposizione per fare pressione sui suoi nemici. E gli arabi possiedono una delle armi economiche più potenti che si possano usare contro un nemico». Gli arabi possedevano almeno il 58,5 per cento delle risorse petrolifere scoperte nel mondo e i Paesi industrializzati dipendevano sempre più da loro. Perché avrebbero dovuto fornire petrolio all'Occidente quando gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, la Germania, l'Italia e l'Olanda sostenevano il loro nemico, Israele? «I popoli arabi chiedono che venga usata l'arma del petrolio e i governi di ogni singolo stato arabo hanno la responsabilità di ascoltare la volontà delle rispettive popolazioni», concludeva Tariki. Sei anni dopo si presentò una nuova occasione per testare l'efficacia di quest'arma.

Foto: AP

La guerra dello Yom Kippur

18 / 30

La guerra dello Yom Kippur

Dalla sponda orientale del canale di Suez, nella penisola del Sinai, un ufficiale dell'esercito israeliano osserva con il binocolo le postazioni dell'esercito egiziano sulla sponda opposta. 7 agosto 1972.

Alla fine di agosto del 1973 il presidente egiziano Anwar al-Sadat (che era succeduto al defunto Nasser nel 1970) si recò senza preavviso a Riyadh, la capitale dell'Arabia Saudita, per spiegare i suoi piani di guerra al sovrano dell'Arabia Saudita, re Faysal, e cercare il suo sostegno. La guerra pianificata da Sadat non mirava a sconfiggere Israele e a riportare i suoi confini a quelli del 1948, quando lo stato era nato sotto gli auspici delle Nazioni Unite. Sadat prevedeva qualcosa di più realistico: un'offensiva che avrebbe costretto gli israeliani a sedersi e a negoziare la restituzione della penisola del Sinai all'Egitto e delle alture del Golan alla Siria. I sauditi però erano spaventati dal fiasco prodotto dall'uso dell'arma del petrolio nella guerra dei Sei giorni. Faysal promise a Sadat che avrebbe appoggiato il suo Paese, ma a una condizione: «Questa volta dacci tempo», avrebbe detto, «non siamo disposti a usare il nostro petrolio come arma in uno scontro che duri non più di due o tre giorni e poi si fermi. Vogliamo un confronto che duri abbastanza a lungo da mobilitare l'opinione pubblica mondiale». Il monarca saudita voleva assicurarsi che l'imminente nuova guerra durasse abbastanza a lungo da rendere efficace l'uso del petrolio come arma.

Foto: AP

L’Occidente alla mercè del golfo Persico

19 / 30

L’Occidente alla mercè del golfo Persico

Traffico notturno sugli Champs Elysées a Parigi nel novembre 1980, con l'arco di Trionfo sullo sfondo.

Fortunatamente per Sadat, nel 1973 il mondo era molto più dipendente dal petrolio arabo che nel 1967. La produzione di petrolio degli Stati Uniti aveva raggiunto il picco nel 1970 e da allora era diminuita anno dopo anno. Di conseguenza, gli Stati Uniti e le potenze industrializzate erano più che mai esposti agli effetti negativi dell'arma del petrolio. Nel 1973 si stimava che gli Stati Uniti importassero circa il ventotto per cento del loro consumo di petrolio dal mondo arabo, mentre il Giappone ne importava circa il quarantaquattro per cento e gli stati europei tra il sessanta e il sessantacinque.

Foto: AP

Trionfo e rovina dell’Egitto

20 / 30

Trionfo e rovina dell’Egitto

Un soldato egiziano alza le braccia in segno di vittoria il 7 ottobre 1973, dopo che le forze egiziane hanno sfondato la linea difensiva israeliana a Bar Lev, sulla sponda occidentale del canale di Suez, e sono sbarcate nella penisola del Sinai occupata da Israele.

La guerra iniziò il 6 ottobre con l'attacco siriano alle forze israeliane nelle alture del Golan e l'offensiva egiziana nella penisola del Sinai dopo l'attraversamento del canale di Suez. Alla fine della prima settimana di combattimenti entrambe le parti avevano bisogno di rifornimenti. Il 10 ottobre l'Unione Sovietica organizzò un ponte aereo verso la Siria e l'Egitto per rifornirli di armi e quattro giorni dopo gli Stati Uniti fecero lo stesso con Israele. Forniti di carri armati e artiglieria statunitensi, gli israeliani organizzarono un vasto contrattacco che il 16 ottobre sfondò il fronte siriano e gli permise di accerchiare le forze egiziane sulla sponda occidentale del canale di Suez. Nonostante il vantaggio israeliano, il conflitto era giunto a una situazione di stallo: i leader israeliani sapevano che non potevano umiliare gli avversari come avevano fatto nel 1967, perché non sarebbe stata una pace duratura, ma il seme di una nuova guerra. Quel giorno, con l'intensificarsi dei combattimenti, gli stati arabi ricorsero all'arma del petrolio.

Foto: Cordon Press

Incontro in Kuwait

21 / 30

Incontro in Kuwait

I ministri dei Paesi arabi produttori di petrolio si riuniscono in Kuwait il 17 ottobre 1973 e annunciano tagli alla produzione di petrolio per fare pressione sull'Occidente.

Il 16 ottobre i ministri arabi del petrolio e delle risorse minerarie riuniti in Kuwait stabilirono un aumento del diciassette per cento del prezzo del petrolio, senza avvisare le compagnie petrolifere occidentali: «Questo è il momento che aspettavamo da  tempo», disse Yamani, ministro saudita del petrolio, a uno dei delegati. «È arrivato il momento. Siamo padroni delle nostre risorse». La mossa ebbe un impatto immediato e scatenò un'ondata di panico. Alla fine della giornata il prezzo al barile aveva raggiunto i 5,11 dollari, il settanta per cento in più rispetto ai 2,90 dollari negoziati con le compagnie petrolifere nel giugno dello stesso anno. Il giorno seguente i rappresentanti arabi annunciarono una serie di tagli alla produzione e di embarghi per costringere l'Occidente a cambiare atteggiamento nei confronti d’Israele. Il loro comunicato recitava: «I Paesi arabi esportatori di petrolio sono pronti a ridurre immediatamente le rispettive capacità produttive di almeno il cinque per cento rispetto ai dati di settembre, e in seguito ridurranno la produzione allo stesso ritmo ogni mese fino a quando le forze israeliane non si ritireranno completamente dai territori arabi occupati durante il conflitto del 1967 e ripristineranno i legittimi diritti del popolo palestinese».

Foto: AP

Panico alle stazioni di servizio

22 / 30

Panico alle stazioni di servizio

Veicoli in coda per fare benzina in una stazione di servizio di Hendon (un sobborgo di Barnet, Gran Bretagna) il 27 novembre 1973.

I Paesi arabi annunciarono che gli Stati «che dimostreranno sostegno morale e materiale al nemico israeliano saranno esposti a una drastica e graduale riduzione delle forniture di petrolio arabo, fino alla completa cessazione delle forniture». Così, la minaccia di un embargo totale incombeva sugli Stati Uniti e sui Paesi Bassi, tradizionalmente alleati d’Israele, e su «qualsiasi altro Paese che prenda misure che sostengano attivamente gli aggressori israeliani». Uno dopo l'altro, i Paesi arabi produttori di petrolio decisero d’imporre un embargo petrolifero totale agli Stati Uniti. Nel frattempo, la produzione araba di petrolio diminuì del venticinque per cento e nel dicembre 1973 i prezzi del petrolio salirono a 11,65 dollari al barile. Nel giro di sei mesi il prezzo del petrolio quadruplicò, destabilizzando le economie occidentali e danneggiando i consumatori in modi mai visti prima. Mentre le riserve si assottigliavano, gli autisti facevano la fila per rifornirsi di carburante alle stazioni di servizio e si cercava di ridurre al minimo il dispendio energetico.

Foto: Cordon Press

Il desiderio di porre fine alla guerra

23 / 30

Il desiderio di porre fine alla guerra

Negoziati tra il generale israeliano Aharon Yariv e il generale egiziano Abdel Ghani el-Gamasy il 28 ottobre 1973, al chilometro 101 della strada Suez-Cairo, per lo scambio di prigionieri e il rifornimento della terza armata egiziana, accerchiata dalle forze israeliane. Si trattò dei primi negoziati diretti tra i rappresentanti dei due stati dal 1948.

Paradossalmente, mentre aumentava la pressione sulle economie occidentali, la situazione militare in Egitto e Siria si deteriorava: la terza settimana di ottobre le forze israeliane arrivarono a cento chilometri dal Cairo e a soli trentadue da Damasco. Ma queste vittorie ebbero un costo umano straordinario: 2.800 israeliani furono uccisi e altri 8.800 feriti. Inoltre, di fronte all'allarmante situazione in Egitto, il leader sovietico Leonid Brežnev chiese al presidente degli Stati Uniti Richard Nixon d’intraprendere un'azione diplomatica congiunta; in caso contrario, affermò, l'URSS sarebbe stata costretta a intervenire per proteggere i suoi alleati egiziani, con una velata allusione al possibile uso di armi nucleari. Le due superpotenze volevano evitare la collisione e forzarono i negoziati tra israeliani e arabi, che pure volevano porre fine a un conflitto economicamente e umanamente catastrofico. Il 22 ottobre fu quindi concordato un cessate il fuoco, che pose fine a sedici giorni di combattimenti incessanti.

Foto: AP

Gli sceicchi ottengono la pace…

24 / 30

Gli sceicchi ottengono la pace…

Un portavoce, affiancato da Belaid Abdessalam (a sinistra) e Ahmed Zaki Yamani (a destra), rispettivamente ministro del petrolio algerino e saudita, annuncia la fine dell'embargo nel marzo 1974.

L'embargo non raggiunse gli obiettivi politici prefissati dai Paesi arabi produttori di petrolio, ma fu un trionfo dal punto di vista economico: il prezzo del greggio, che prima della guerra era inferiore ai tre dollari al barile, sarebbe salito tra gli undici e i tredici dollari per gran parte degli anni settanta. Mentre le compagnie petrolifere occidentali traevano enormi profitti dalla crisi e vedevano moltiplicarsi il valore delle loro immense riserve di petrolio, la guerra dello Yom Kippur mise fine al sistema di concessioni petrolifere che aveva regolato i loro rapporti con i produttori arabi. Questi ultimi incorporarono gli asset delle compagnie petrolifere nelle loro industrie petrolifere nazionali attraverso la nazionalizzazione o l'acquisto, e prima della fine del decennio l'influenza dell'Occidente sul petrolio arabo terminò.

Foto: Cordon Press

… e anche gli Stati Uniti ci guadagnano

25 / 30

… e anche gli Stati Uniti ci guadagnano

Lo scià Reza Pahlavi durante la sua auto incoronazione a imperatore dell'Iran il 26 ottobre 1967 al palazzo Golestan di Teheran. Siede sul cosiddetto "trono del pavone", fatto di 27mila pietre preziose incastonate nell'oro, e indossa la corona imperiale, con 3.380 gemme.

La guerra dello Yom Kippur e l'aumento dei prezzi del petrolio portarono vantaggi geopolitici anche agli Stati Uniti e, per estensione, alle potenze occidentali. Da un lato, il ruolo degli Stati Uniti nella risoluzione del conflitto gli permise di affermare la propria influenza sull'Egitto, fino ad allora nell'orbita sovietica. Dall’altro, in un momento in cui gli americani erano impegnati nella guerra del Vietnam e non erano in grado di assegnare una forza di dissuasione al golfo Persico, l'aumento dei prezzi del petrolio fornì ai regimi alleati dell'Occidente ingenti fondi con cui riarmarsi contro le ambizioni espansionistiche di un Iraq che, sotto Saddam Hussein, aveva stretto legami più saldi con l'URSS. In questo senso, l'Iran dello scià Reza Pahlavi, fedele alleato degli Stati Uniti e allora quarto produttore mondiale di greggio (dopo l'Unione Sovietica, l'Arabia Saudita e gli Stati Uniti), aumentò esponenzialmente il suo potenziale bellico grazie ai proventi del petrolio, assicurandosi il ruolo di gendarme dell'Occidente in Medio Oriente, dove sarebbe diventato un cuscinetto contro l'Iraq e, collateralmente, un sostegno per il Pakistan, anch'esso alleato degli Stati Uniti, contro l'India, sua rivale. Kissinger non sollevò mai la questione del prezzo del petrolio durante i lunghi colloqui avuti con lo scià nel 1974, dopo la crisi petrolifera, e non c'è da stupirsi: il prezzo del petrolio andava già bene così com'era, perché serviva agli interessi geopolitici dell'Occidente.

Foto: Cordon Press

Iran, il secondo shock petrolifero

26 / 30

Iran, il secondo shock petrolifero

Proteste all'università di Teheran contro lo scià Reza Pahlavi nel gennaio 1979, durante le rivolte che portarono al suo rovesciamento. Lo striscione, che recita "Abbasso lo scià, il succhiasangue!", allude alla Savak, la sanguinaria polizia segreta dell'autocrate iraniano.

Nel gennaio 1979 la dittatura filo occidentale di Reza Pahlavi fu rovesciata da una rivoluzione popolare guidata dal clero islamico. La rivoluzione islamica fu uno degli eventi più significativi della Guerra fredda, in quanto alterò profondamente gli equilibri di potere in Medio Oriente, facendo perdere agli Stati Uniti uno dei pilastri della loro influenza nella regione. La rivoluzione iraniana ebbe un profondo impatto anche sui prezzi del petrolio. Da un lato, con i disordini della rivoluzione la produzione petrolifera iraniana finì quasi per arrestarsi; dall'altro, la caduta dello scià fu seguita da un'enorme incertezza sul futuro dell'Iran e del suo petrolio. Tutto ciò fece sì che i mercati globali subissero il secondo grande shock petrolifero del decennio: a maggio i prezzi del petrolio quasi triplicarono, passando da tredici a trentadue dollari al barile.

Mentre i Paesi industrializzati subivano le conseguenze dell'aumento del prezzo del petrolio (inflazione, disoccupazione e un rallentamento economico che portò con sé un nuovo fenomeno: la stagflazione, ovvero la stagnazione economica accompagnata dall'inflazione), i produttori di petrolio vivevano una nuova era di prosperità. L'Arabia Saudita, il più grande esportatore d’idrocarburi al mondo, divenne il prototipo dello stato ricco di petrolio. I suoi ricavi dalla vendita di greggio e dei suoi derivati passarono da 1,2 miliardi di dollari nel 1970 ai 22 miliardi dell'embargo petrolifero del 1973-1974, per arrivare a 70 miliardi nel 1979, dopo la seconda crisi petrolifera. In questo modo, i suoi profitti moltiplicarono quasi del sessanta per cento in meno di un decennio, e le entrate degli altri produttori arabi – Libia, Kuwait, Qatar, Emirati Arabi Uniti, eccetera – crebbero in modo analogo.

L'Arabia Saudita utilizzò questa improvvisa ricchezza per avviare un programma di spesa pubblica senza precedenti nel mondo arabo: dai 2,5 miliardi di dollari del 1970 ai 57 miliardi di dollari del 1980. Una parte significativa fu spesa per la difesa: nel 1981 era il quinto paese al mondo per spesa militare, e la spesa militare pro capite era la più alta al mondo dopo Stati Uniti, URSS, Cina e Gran Bretagna. Da allora, l'industria militare statunitense è stata la beneficiaria quasi esclusiva di questa politica di riarmo: nel 2021 l'Arabia Saudita era il sesto paese al mondo per spese di difesa (dopo Stati Uniti, Cina, India, Russia e Gran Bretagna) e quasi l’ottanta per cento dei suoi armamenti proveniva dagli Stati Uniti. I proventi del petrolio avevano trasformato l'Arabia Saudita nel baluardo statunitense in Medio Oriente contro l'Iraq di Saddam Hussein e l'Iran della rivoluzione islamica. Tuttavia, contribuirono anche a diffondere la versione più rigorosa dell'Islam – il wahhabismo – in Medio Oriente e in Asia.

Foto: Cordon Press

I petrodollari, protagonisti dell’economia globale

27 / 30

I petrodollari, protagonisti dell’economia globale

Il presidente messicano José López Portillo affiancato dai suoi capi di stato maggiore durante la parata delle forze armate il 16 settembre 1982, giorno festivo del Paese. Nel novembre dello stesso anno, alla fine del suo mandato presidenziale, il debito estero del Messico – frutto di prestiti finanziati con petrodollari – ammontava a 87,4 miliardi di dollari, con un aumento del 240% rispetto al 1976.

Il termine "petrodollari" è stato coniato durante la prima crisi petrolifera per indicare la valuta estera guadagnata dai Paesi esportatori di petrolio. Tra il 1974 e il 1981 il loro volume raggiunse un'ampiezza tale da non poter essere assorbito dalle economie di questi Paesi e si concretizzò in vasti flussi finanziari che diedero vita al cosiddetto "riciclaggio dei petrodollari": essi furono investiti nelle banche commerciali occidentali, che li utilizzarono per prestare denaro ai Paesi in via di sviluppo, sprofondati in una grave recessione a causa dell'impennata del prezzo del petrolio del 1973-1974. Nel 1979 la seconda crisi energetica colpì nuovamente e più duramente questi Paesi, che ricevettero nuovi prestiti per salvarsi, ma a tassi d’interesse più elevati (gli stati occidentali aumentarono i tassi d’interesse per contenere l'inflazione dovuta all'aumento dei prezzi del petrolio). Di conseguenza, i Paesi mutuatari non furono in grado di rimborsare i prestiti: la moratoria sul rimborso del debito annunciata dal Messico nel 1982 segnò lo scoppio del problema del debito dei Paesi in via di sviluppo, che rimane tuttora irrisolto.

Foto: Cordon Press

I petrodollari oggi

28 / 30

I petrodollari oggi

I petrodollari hanno anche sostenuto il dollaro con l'acquisto di titoli del tesoro americano, che garantirono la stabilità dell'economia statunitense dopo che il presidente Richard Nixon abbandonò il gold standard nel 1971. Inoltre, il riciclaggio dei petrodollari negli anni ottanta influenzò il destino dei ricavati del petrolio, in particolare quelli provenienti dal forte aumento dei prezzi del petrolio tra il 2003 e il 2008. Così, i fondi sovrani dei produttori del golfo Persico (Arabia Saudita, Kuwait, Qatar, Emirati Arabi Uniti) hanno investito in una moltitudine di settori economici in Occidente, dalle automobili e gli immobili allo sport e al tempo libero. Il Qatar, ad esempio, ha approfittato del crollo del mercato azionario durante la crisi finanziaria del 2008-2009 per investire in Crédit Suisse, Barclays, Volkswagen e Porsche, così come l'Arabia Saudita ha beneficiato del crollo del mercato azionario statunitense all'inizio del 2020 a causa dell'effetto COVID-19 e del rallentamento dell'economia globale per acquisire azioni di multinazionali come Boeing, Facebook, Disney, Marriott, Starbucks, Bank of America e Pfizer.

Foto: AP

Il petrolio sovietico

29 / 30

Il petrolio sovietico

Le piattaforme petrolifere punteggiano il porto di Baku in Azerbaigian (allora una delle repubbliche che componevano l'Unione Sovietica) nel maggio 1966. Il petrolio ha reso Baku, sulle rive del mar Caspio, la quarta città più grande dell'URSS.

Gli Stati Uniti e l'Arabia Saudita non furono gli unici protagonisti della crisi del 1973: l'Unione Sovietica era un altro attore importante. Il 25 settembre 1973, dodici giorni prima dell'offensiva siriana ed egiziana contro Israele, Radio Mosca invitò i Paesi arabi produttori di petrolio a «usare l'arma del petrolio contro l'aggressione israeliana» e quattro giorni dopo li esortò a «usare il petrolio come arma politica contro l'aggressione imperialista». In questo modo, l'URSS mirava a raggiungere due obiettivi: da un lato, destabilizzare le economie capitaliste e, dall'altro, aumentare le entrate derivanti dalla vendita del petrolio, di cui all'inizio di quell'anno era il secondo produttore mondiale (gli Stati Uniti erano primi, l'Arabia Saudita terza). All'epoca due terzi del greggio esportato dall'URSS erano destinati ai Paesi satelliti, mentre il resto finiva sul mercato internazionale, che nel 1973 portò allo stato sovietico un introito di 1,2 miliardi di dollari. Questa cifra raddoppiò nel 1974, quando fornì petrolio soprattutto agli Stati Uniti e ai Paesi Bassi, che stavano soffrendo per l'embargo petrolifero dell'OPEC (i sovietici non solo vendevano il proprio petrolio, ma importavano il greggio arabo e lo rivendevano a un prezzo da tre a quattro volte superiore a quello pagato, il che valse loro gravi critiche da parte dei produttori arabi). Quell'anno l'Unione Sovietica divenne il primo produttore di petrolio al mondo e per la prima volta le entrate petrolifere rappresentarono il cinquanta per cento dei ricavi in valuta estera. L'URSS trasse così notevoli vantaggi dall'uso del petrolio come arma da parte dei Paesi arabi produttori, una strategia che gli stessi sovietici avevano incoraggiato a utilizzare.

Il petrolio era diventato un reddito essenziale per l'Unione Sovietica, la cui economia inefficiente si rifletteva chiaramente in un'agricoltura in cui venivano fatti enormi investimenti (un rublo su tre), che però non davano frutti. Ciò costrinse il Paese a importare grandi quantità di grano pagate in dollari (nel 1975, ad esempio, ne importò per un valore di 1,5 miliardi di dollari), ottenuti dalla vendita del petrolio, il cui prezzo era salito alle stelle in seguito alle crisi del 1973 e del 1979. Quest'ultima colpì duramente le economie del blocco sovietico. Sebbene la prima crisi energetica non le avesse toccate con la stessa forza dell'Occidente capitalista, grazie alla fornitura di greggio sovietico a condizioni molto favorevoli, il prezzo che pagavano si avvicinò gradualmente a quello del mercato internazionale, e dopo la crisi petrolifera del 1979 l'URSS aumentò i prezzi come gli altri produttori; la crisi economica del mondo occidentale si trasmise così ai Paesi a economia pianificata.

Foto: AP

Il rubinetto del gas sovietico

30 / 30

Il rubinetto del gas sovietico

Ingegneri della società Achimgaz (costituita da una filiale della tedesca BASF e della russa Gazprom) si dirigono verso una piattaforma di perforazione vicino a Novyj Urengoj nel novembre 2018. La città di Novyj Urengoj è stata fondata nel settembre 1973, in seguito all'inizio dello sfruttamento del giacimento di gas naturale di Urengoj, il secondo più grande al mondo. Il primo pozzo è stato perforato nel 1966 e la produzione è iniziata nel 1978; il processo di estrazione avrebbe richiesto un centro urbano nelle vicinanze per ospitare i lavoratori.

Dopo la prima crisi petrolifera le economie industrializzate hanno cercato di ridurre il consumo di petrolio rivolgendosi ad altre fonti energetiche, come il nucleare (non è un caso che il movimento antinucleare, all'origine dei movimenti politici verdi, sia emerso negli anni settanta e abbia preso piede nel decennio successivo). Tra queste fonti alternative c'era il gas, e un'Europa occidentale che desiderava emanciparsi il più possibile dal petrolio arabo per evitare ulteriori shock energetici trovò nel gas una fonte energetica alternativa, che l'URSS era disposta a vendere in cambio di valuta estera, di cui aveva disperatamente bisogno. Nel 1982 i sovietici iniziarono la costruzione di un gigantesco gasdotto di 4.650 chilometri tra il vasto giacimento siberiano di Urengoj e la città di Užhorod in Ucraina, allora una delle repubbliche dell'Unione Sovietica. In origine, il gasdotto doveva passare attraverso la Repubblica Democratica Tedesca, ma la Repubblica Federale Tedesca protestò perché temeva che la Germania comunista potesse interrompere le forniture di gas in caso di crisi tra i due Paesi. Il gas sovietico (40 miliardi di metri cubi all'anno) avrebbe rappresentato il trenta per cento delle importazioni di gas della Repubblica Federale Tedesca e della Francia, e il quaranta per cento di quelle italiane, i loro principali clienti, che, insieme al Giappone, fornirono anche finanziamenti, tecnologia e attrezzature per la sua costruzione. Ma gli Stati Uniti, allora sotto la presidenza di Ronald Reagan, consideravano queste cifre come un livello troppo alto di dipendenza dall'URSS, che avrebbe potuto esercitare pressioni politiche sui suoi clienti occidentali riducendo o tagliando le forniture di energia (proprio come avevano fatto i produttori di petrolio arabi nel 1973). Gli Stati Uniti lanciarono quindi un embargo contro le aziende coinvolte nella costruzione del gasdotto, aprendo una delle più grandi crisi della Guerra fredda con gli alleati europei, ai quali gli americani proposero come alternative il carbone statunitense e il gas norvegese, entrambi rivelatisi insufficienti. Dopo aspri scontri il governo statunitense pose fine alle sanzioni nel novembre 1982 e nel 1984 il gasdotto transiberiano dell'UPU iniziò a pompare gas verso l'Europa occidentale. Quarant'anni dopo, nel 2022, la Russia, erede della defunta Unione Sovietica, avrebbe usato l'arma del gas proprio come i Paesi arabi avevano usato l'arma del petrolio...

Foto: AP

1973, la prima crisi energetica

Se vuoi ricevere la nostra newsletter settimanale, iscriviti subito!

Per saperne di più

Gli arabi. Eugene Rogan, Bompiani, Milano, 2016.

Condividi

¿Deseas dejar de recibir las noticias más destacadas de Storica National Geographic?