1943: il tricolore di tre prigionieri di guerra sventola sul Lenana

Tre italiani, prigionieri degli inglesi in Kenya, fuggono dal campo per dare la scalata al picco Lenana e issarvi il tricolore. Un'impresa folle e audace, una storia di determinazione e coraggio

Addis Abeba, Etiopia, 1939. Nell’impero coloniale italiano, proclamato appena tre anni prima dal duce Benito Mussolini, arriva un giovane funzionario volontario coloniale. Si chiama Felice Benuzzi, triestino, che vanta un ottimo curriculum sportivo avendo partecipato a diversi campionati di nuoto internazionali fra il 1933 e il 1935. Benuzzi è anche un esperto alpinista. Sin da giovanissimo ha scalato le Dolomiti, le Alpi orientali e le Alpi Giulie sotto la guida di Emilio Comici, un mostro sacro dell’alpinismo italiano dell’epoca. La permanenza africana di Benuzzi ha però vita breve: con lo scoppio della Seconda guerra mondiale i possedimenti coloniali italiani in Africa diventano teatro di sanguinosi scontri: da un lato le forze dell’Asse (italiani e tedeschi) e dall’altro gli Alleati (americani, inglesi e le loro truppe coloniali). La cosiddetta Campagna dell’Africa Orientale Italiana (AOI) impregna boscaglie e savane del sangue di entrambi gli schieramenti, e alla fine le truppe alleate hanno la meglio. Così, nel novembre 1941 il sole tramonta definitivamente sui possedimenti coloniali italiani in Africa Orientale e numerosi militari e diversi funzionari dell’ormai ex amministrazione coloniale sono fatti prigionieri e smistati nei campi di prigionia britannici. Fra questi vi è Felice Benuzzi. Il suo nuovo status, come quello di altre migliaia di connazionali, è racchiuso in tre lettere: POW, Prisoner of War, ossia prigioniero di guerra. Benuzzi è destinato al campo presso la città di Nanyuki, sita nella parte nordoccidentale del Kenya e attraversata dall’Equatore, dove arriva dopo «36 ore di viaggio a bordo di un lungo treno su carri bestiame», come lui stesso ricorderà anni dopo. Il campo sorge quasi ai piedi del Monte Kenya e Nanyuki è costruita proprio nei pressi di due importanti itinerari verso il rilievo: Sirimon e Burguret. Benuzzi ancora non può immaginarlo ma la localizzanione del campo imprimerà una svolta alla sua prigionia in Kenya e segnerà per sempre la sua vita.

Prigionieri di guerra italiani marciano attraverso Tobruk, in Libia, nel 1941. Si dirigono verso un campo di prigionia in Africa

Prigionieri di guerra italiani marciano attraverso Tobruk, in Libia, nel 1941. Si dirigono verso un campo di prigionia in Africa

Foto: Courtesy Everett Collection / Cordon Press

   

Una visione folgorante

Prigioniero da circa un anno e mezzo e afflitto dalla noia di una vita monotona dietro i reticolati, Benuzzi cerca espedienti per non rassegnarsi a questa condizione. Una sera il cielo nuvoloso si apre e gli lascia intravedere il monte Kenya. È un attimo, ma la visione è folgorante. Di colpo Benuzzi è come rapito dalla maestosità della scena e pensa subito a un’impresa folle: fuggire dal campo, scalare la vetta, piantare la bandiera italiana in cima e ritornare al campo. Più facile a dirsi che a farsi. Dal punto di vista alpinistico, infatti, scalare il rilievo non è una passeggiata: coi suoi 5.199 metri è la seconda vetta più alta del continente africano, battuta solo dal Kilimangiaro (5.895 metri). In secondo luogo, Benuzzi non è un uomo libero. Come evadere? Come procurarsi la necessaria attrezzatura alpinistica dentro un campo di prigionia, o almeno qualcosa che ne abbia la parvenza?

Benuzzi non si scoraggia, anzi comincia subito a pensare come poter concretizzare il suo piano. Questa idea lo ha rivitalizzato e nei mesi successivi dedica ogni energia e ogni pensiero alla sua realizzazione. Racconta la sua ‘folgorazione’ a due compagni che accettano immediatamente di far parte del progetto: sono il medico genovese e abile alpinista Giovanni Balletto e Marco, un tenente di polizia, che poco dopo però viene trasferito in un altro campo di concentramento e così l’impresa rischia di naufragare ancor prima di partire. Benuzzi e Balletto non si perdono d’animo e fra gli altri prigionieri individuano Vincenzo Barsotti, originario di Camaiore. A parte le tre ‘B’ dei loro cognomi e le qualità alpinistiche di Benuzzi e Balletto, i tre hanno poco in comune. Anzi, Barsotti non è neppure un alpinista, ma la loro insopprimibile voglia di libertà e di spezzare la monotonia della prigionia si rivelerà fondamentale per la realizzazione dell’impresa.

Due martelli per piccozze

Nei mesi che seguono i tre iniziano in gran segreto a mettere a punto il loro piano. Bisogna recuperare tutte le informazioni possibili sul monte Kenya, studiarne i versanti, capire come raggiungere le sue pendici e quale via seguire per tentare la vetta. Questa è un’impresa nell’impresa perché non hanno ovviamente a disposizione né carte topografiche né mappe della montagna. Felice allora raccatta pezzi di articoli di giornale che parlano del monte Kenya, recupera disegni da un vecchio libro su una tribù locale e trascorrere ore osservando la montagna con un binocolo per disegnarne poi alcuni schizzi. Addirittura mette da parte l’etichetta di una lattina di carne in scatola che ritrae il versante est del monte. È tutta qui la geografia di cui dispongono.

Questa immagine del monte Kenya trovata su una latta ha fornito ai tre fuggitivi informazioni sulla parete sud del rilievo, invisibile dal campo inglese

Questa immagine del monte Kenya trovata su una latta ha fornito ai tre fuggitivi informazioni sulla parete sud del rilievo, invisibile dal campo inglese

Foto: shorturl.at/etz19

 

Anche per l’attrezzatura ci si deve ingegnare. La fortuna però ci mette del suo e quando due operai del posto lasciano incustoditi due martelli, la mano lunga di Benuzzi non perdona e in un attimo scompaiono. Tra i prigionieri del campo ci sono fabbri, meccanici, sarti, così i due martelli finiscono nelle mani di un compagno di prigionia che li trasforma in picozze, mentre Benuzzi e Balletto si costruiscono dei ramponi da ghiaccio utilizzando pezzi di lamiera di una vecchia automobile e un tondino di ferro per cemento armato. Ai lavori di sartoria ci pensa un altro prigioniero che cuce alcune coperte da cui ci ricava pantaloni, giacca e cuffie. Le corde sono invece ricavate dalle reti dei letti. Come se non bastasse, per mesi i tre italiani lavorano all’aspetto dei viveri mettendo da parte tutto ciò che potevano per la spedizione: una parte arriva tramite i pacchi spediti dai familiari, qualche altra è frutto d'incursioni nei magazzini del campo, mentre la maggior parte è acquistata dagli altri prigionieri pagandola in sigarette. Benuzzi ha addirittura smesso di fumare per aumentare il suo ‘potere d’acquisto’. Benuzzi costruisce anche delle frecce indicatrici di carta per segnare il percorso che dipinge poi con dello smalto. Questo accorgimento si rivelerà essenziale.

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La fuga sul Kenya

È il 24 gennaio 1943. Tutto è pronto, i tre hanno pianificato la fuga da settimane: per prima cosa il giorno prescelto è una domenica in quanto le autorità del campo non fanno l’appello le domeniche pomeriggio. Benuzzi, Balletto e Barsotti rientrano poi tra quei prigionieri a cui è data la possibilità di coltivare alcuni ortaggi in un piccolissimo terreno appena fuori la recinzione. Quello di cui invece non dispongono è la chiave per aprire il cancello e recarsi liberamente nel ‘loro orto’. Ma Benuzzi ha pensato anche a questo: nelle settimane precedenti, all’interno dell’ufficio dell’ufficiale di guardia è riuscito a fare dei calchi della chiave su un foglio catramato, approfittando di un attimo di distrazione del sorvegliante. Riesce così a creare una copia della chiave. A mezzogiorno del 24 gennaio, quando le sentinelle inglesi sono nella loro pausa pranzo e la sorveglianza è affidata a truppe locali che prestano meno attenzione, i tre aprono il cancello e fuggono dal campo. La spedizione verso il Monte Kenya è cominciata. Saranno 17 giorni di libertà. Prima di andare, però, hanno l’accortezza di lasciare un biglietto agli inglesi. Nel testo li informano delle loro intenzioni e promettono di rientrare al campo entro due settimane. Non pensano a una fuga anche perché, pur volendo, sarebbe impossibile dato che il Paese neutrale più vicino è il Mozambico, distante ben 1.000 chilometri.

Il monte Kenya in una fotografia scattata nel 1936

Il monte Kenya in una fotografia scattata nel 1936

Foto: The Granger Collection, New York / Cordon Press

Barsotti non sta bene ma insiste per partire, come scriverà poi Benuzzi: «Povero Enzo! Aveva insistito a venire con noi nonostante la sua malattia, gli avevamo ordinato di non tossire!». I tre si muovono di notte e per poco non vengono scoperti da una jeep in ricognizione che punta i fari nella boscaglia attigua alla strada. Alla fine superano la zona abitata alle pendici del monte e si addentrano nella foresta equatoriale. L’incontro con un leopardo, poi un rinoceronte e infine un elefante rendono l'ambiente tutt'altro che sicuro, ma la loro scalata prosegue riuscendo a giungere a 4.200 metri di quota. Qui Barsotti peggiora e Balletto, da buon medico, gli ordina di non procedere più. Si appronta pertanto il campo base dove Vincenzo rimarrà ad aspettarli. Il 4 febbraio Benuzzi e Balletto partono per un primo assalto al Picco Batian, la punta più alta del monte Kenya. È in questa occasione che Benuzzi colloca le frecce di carta smaltate per riconoscere la via del ritorno. La nebbia infatti è in agguato: improvvisamente i due si ritrovano avvolti da un fitto banco, la temperatura cala bruscamente e sopraggiunge una tempesta di neve che li costringe a ripiegare verso il campo base, ritrovato grazie alle prodigiose frecce rosse. Durante la discesa si fermano esausti per riposare e mangiare. Il pasto è ridicolo: un pezzo di toffee – una sorta di caramella morbida impastata con pezzi di mandorle – e una manciata di uva sultanina che, ricorderà Benuzzi, «mi aveva mandato mia madre dall’Italia nel pacchetto di Natale e che avevo gelosamente custodito proprio pensando al giorno della scalata al Batian».

Giunti al campo base da Barsotti, Benuzzi si chiede se avranno le forze necessarie per tentare l’indomani la scalata alla seconda cima del monte: il picco Lenana (4.985 metri) «al fine di piantare li la nostra bandiera». Sfiancati dal tentativo sul Batian, i due si riposano tutto il giorno seguente ma la loro volontà è incrollabile: partiranno l’indomani alla conquista del picco Lenana. Nel mentre si riordinano le scorte di cibo per preparare una sorta di ‘razione da scalata’, ovvero qualche pezzetto di cioccolato, toffee, un pugno di uva sultanina, quattro cucchiani di zucchero, mezza libbra di riso, sei once di burro, dieci biscotti, una manciata di estratto di carne. «Sulla carta – ricorderà Benuzzi – sembrava una marea di roba, ma in realtà l’avremo divorata in un solo pasto e invece doveva durarci per almeno quattro giorni».

La copertina del libro di Benuzzi 'No Picnic on Mount Kenya'

La copertina del libro di Benuzzi 'No Picnic on Mount Kenya'

Foto: shorturl.at/dHQW5

«Ne valeva la pena!»

Alle 1.50 del 6 febbraio 1943, avvolti nel buio, Benuzzi e Balletto lasciano il campo base alla volta del picco Lenana. In testa un solo pensiero: raggiungere la vetta per le dieci del mattino. L’orario deve essere categorico, infatti, la loro preoccupazione è legata al fatto che sul Batian la tempesta li ha colti proprio intorno a quell’ora. Per evitare ancora soprese procedono a marce forzate, ma il cammino è arduo: «Ogni passo che facciamo è un’impresa, ci sentiamo deboli, ma l’unico pensiero che ci fa progredire e accelerare quando sembra ci stiamo per fermare è il desiderio di raggiungere la vetta». Alle 8 si fermano per consumare la consueta manciata di sultanina e briciole di cioccolato raschiate dal fondo della sacca e poi ripartono. Più avanzano e più l’adrenalina di essere vicini alla meta li pervade. Così, alle 10.05 sono finalmente in vetta al Picco Lenana. Missione compiuta. Dinanzi a loro lo spettacolo di «un’infinita pace sotto un cielo che pareva di velluto scuro. Ai nostri piedi, molto più a valle – annoterà Benuzzi – l’intero Paese che sembrava emanare uno strano bagliore. Questo era lo spettacolo che ci aveva richiesto 8 mesi di preparazione e due settimane di duro lavoro. Ne valeva la pena!». È ora di issare la bandiera italiana, un gesto immaginato per mesi che finalmente diventa realtà. Ma il tempo stringe e bisogna cominciare la discesa verso il campo base, dove li attende Barsotti. Lasciano quindi una bottiglia con un messaggio che testimonia la loro audace impresa e riprendono la via verso Nanyuki, dove giungono al campo di prigionia nella notte fra il 9 e 10 febbraio.

Stremati e senza più viveri riescono ad entrare al campo senza essere scoperti. Solo l’indomani mattina si consegnano all’ufficiale di guardia. Gli inglesi beffati sono furenti. I tre vengono condannati a 28 giorni di cella di rigore, ma il loro coraggio ha impressionato il comandante del campo, che apprezza la loro ‘impresa sportiva’ e decide di liberarli anzitempo dal rigore. Mentre i compagni di prigionia li acclamano, agli inglesi non resta che organizzare una vera e propria spedizione alpinistica che si rechi sul picco Lenana per verificare la veridicità di quanto raccontato dai tre. Così, una settimana dopo il messaggio in bottiglia viene recuperato e il tricolore italiano sostituito con la Union Jack inglese. Quello che non possono rimpiazzare è il valore e il genio di Benuzzi, Balletto e Barsotti, ormai consegnati alla storia. Benuzzi sarà rimpatriato nel 1946 e subito scriverà, in inglese, la storia di questa incredibile avventura che uscirà nel 1947 col titolo: No Picnic on Mount Kenya, tradotto poi nella versione italiana con Fuga sul Kenya, 17 giorni di libertà. Negli anni il suo racconto diverrà un successo e sarà pubblicato anche in tedesco, svedese, finlandese e coreano. Nel 1948 Benuzzi intraprenderà la carriera diplomatica girando il mondo e tornando anche nei luoghi della sua prigionia per rivedere quel monte Kenya che era diventato parte di sé, come confermerà la moglie tempo dopo: «La guerra, il campo di prigionia, il monte furono tre elementi decisivi nella sua vita. Il desiderio di essere un individuo indipendente e l’amore per la libertà, lo spinsero a intraprendere questa rischiosa avventura. Da allora, ovunque noi eravamo, anche il monte Kenya era li con noi».

15 ottobre 1958, Canberra. Il Primo Segretario dell'Ambasciata Felice Benuzzi e sua moglie Stefania partecipano alla messa funebre in occasione della scomparsa del Papa Pio XII

15 ottobre 1958, Canberra. Il Primo Segretario dell'Ambasciata Felice Benuzzi e sua moglie Stefania partecipano alla messa funebre in occasione della scomparsa del Papa Pio XII

Foto: shorturl.at/dgHRZ CC BY-SA 4.0, shorturl.at/apwxO

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