1920 - Il raid aereo Roma-Tokyo

Il 14 febbraio 1920, alle 11, da Centocelle decollavano undici velivoli che si proponevano di percorrere in volo 18mila chilometri, fino a raggiungere la capitale del Giappone. Un'impresa senza precedenti che avrebbe fatto la storia dell'aeronautica mondiale

1917. Nelle trincee italiane della Prima guerra mondiale un piccolo giapponese veste la divisa degli arditi – i reparti d’assalto del regio esercito. Si chiama Harukichi Shimoi. È poeta, letterato, studioso di Dante, professore di giapponese all’Università Orientale di Napoli e ha fatto dell’Italia la sua patria adottiva. Per questo si è arruolato volontario nel regio esercito. Grazie alla sua rete di contatti, fra cui spicca il generale Enrico Caviglia del comando supremo, Shimoi è assegnato allo stato maggiore, ma lui vuole essere in prima linea. Caviglia allora gli conferisce ad honorem la divisa e la qualifica di ardito. A Shimoi piace il coraggio e lo sprezzo del pericolo degli arditi, ne esalta gli eroismi, più con la penna che col pugnale d’ordinanza, come fossero quegli antichi samurai da cui discende. Sul finire della guerra Shimoi conosce il poeta Gabriele D’Annunzio, con cui instaura una profonda amicizia. D’Annunzio lo chiama il «Camerata Samurai». I due sono attratti dalle culture dei rispettivi Paesi e hanno molto in comune: la poesia, la figura del poeta guerriero, gli ideali del nazionalismo. Per loro il popolo italiano e quello giapponese sono legati fraternamente. È così che nel marzo del 1919 Shimoi ha un’incredibile idea: organizzare un volo da Roma a Tokyo che unisca idealmente i due Paesi attraverso cui il popolo italiano possa portare un saluto caloroso al popolo del Sol Levante. La proposta di Shimoi ammalia D’Annunzio che, sensibilissimo alla tematica aeronutica, ne rimane entusiasta. E il governo lo è altrettanto, perché intravede un’ottima opportunità per "distrarre" D’Annunzio dal suo intento di occupare la città di Fiume in seguito alle tensioni politiche del dopoguerra. Nell’idea di D’Annunzio il volo deve essere un’impresa collettiva leggendaria che stupisca il mondo. Ecco perchè sceglie undici velivoli, quattro bombardieri Caproni e sette biplani SVA 9 (acronimo di Savoja-Verduzio-Ansaldo, rispettivamente progettisti e costruttore). Quando però D’Annunzio rinuncia al volo e marcia su Fiume, occupandola (1919), il governo, che ha già speso cifre imponenti per l’organizzazione della missione, non può far altro che proseguire col progetto a cui aderiscono, fra gli altri, due aviatori pluridecorati della Prima guerra mondiale: Arturo Ferrarin e Guido Masiero.

Motori ‘ubriachi’ di benzina

Centocelle, Roma. Alle ore 11 del 14 febbraio 1920 gli ultimi due SVA dello squadrone degli undici velivoli prescelti sono pronti al decollo. Sono quelli di Ferrarin col motorista Gino Capannini e di Masiero col motorista Roberto Maretto. Dinanzi a loro vi sono 18mila chilometri da coprire in almeno trenta tappe tra rifornimenti e revisioni ai motori. Masiero rompe sul radiatore del suo SVA una bottiglia di champagne in segno di buon auspicio. Ferrarin, invece, ha le ali ancora «fresche di vernice» come confida nel suo diario, poiché ha dovuto sostituire il suo aereo una settimana prima della partenza con un vecchio SVA di riserva a cui ha ritinteggiato la tela delle ali per rafforzarle contro le intemperie. «È la macchina più potente che ci sia – scrive – eppure è fine e delicata come una creazione della natura. Sembra un levriero pronto allo slancio». Il volo prevede tappe in Grecia, Turchia, poi Siria, Iraq, Pakistan, India e ancora l’immensa Cina, la Corea e finalmente il Giappone. Sembra di sfogliare un atlante geografico, ma nella realtà è un volo periglioso da affrontare con un biplano di legno e tela, la cui velocità massima sono 215 chilometri orari. Lungo otto metri, con un’apertura alare di nove, l’aereo è dotato di una bussola, un altimetro e un leva di guida.

Ma Ferrarin confida sul motore «sempre ubriaco di benzina e di spazio, che ha squarciati i silenzi dell’infinito coll’urlo rauco dei suoi 250 hp». Ed ecco che il volo entra nel vivo. La fortuna non arride ad alcuni velivoli devono arrendersi a causa di gusti e non superano la Turchia, altri si bloccheranno poco dopo, mentre gli SVA di Ferrarin e Masiero avanzano inarrestabili. Ad Aleppo, in procinto di decollare per Bagdad, Ferrarin accetta di trasportare anche un sacco postale nonostante l’apparecchio sia carico di benzina e bagagli. L’occasione però è troppo importante: significa far arrivare la posta a Bagdad in poche ore invece che in un mese. Quando finalmente sono su Bagdad, i due atterrano in mezzo a una partita di calcio fra soldati inglesi. È un attimo e una folla enorme circonda l’aereo. Scendere è impossibile. Un uomo alto due metri prende la mano destra di Ferrarin e se la pone sulla testa ringraziando ripetutamente Allah per alcuni minuti. «Riesco a liberarmi – scrive il pilota – e agito di fronte alla folla il sacco di posta che ho portato. E’ un delirio, per poco non ci lascio la pelle».

L'aereo usato da Ferrarin per il raid, esposto nel museo imperiale giapponese

L'aereo usato da Ferrarin per il raid, esposto nel museo imperiale giapponese

Foto: Pubblico dominio

«Bulgar? Bulgar?»

Il volo prosegue verso Bandar Abbas (Iran), poi Karachi (Pakistan), ma lo SVA di Masiero e Maretto rimane indietro, mentre una tempesta di sabbia costringe Ferrarin e Capannini ad un atterraggio di emergenza in un territorio desertico abitato solo da una tribù indigena. Incuriositi dal velivolo, i locali circondano i due aviatori e li conducono al loro villaggio rinchiudendoli in una capanna. La situazione è critica, sono "interrogati" al cospetto della regina della tribù. Ovviamente nessuno capisce una parola, ma Ferrarin coglie l’esclamazione «Bulgar? Bulgar?» ripetuta diverse volte. Intuisce allora che gli indigeni li hanno scambiati per bulgari, confondendo evidentemente il tricolore dipinto sulla coda dell’aereo con la bandiera bulgara. Per i locali significherebbe che sono amici, alleati dei tedeschi durante la Prima guerra mondiale e nella lotta d’insurrezione contro il comune nemico inglese. In un attimo Ferrarin urla: «Bulgar! Sono bulgaro nemico accerrimo degli inglesi», mentre incita Capannini a gridare lo stesso e continua: «Raggiungo il massimo del successo quando urlo qualche parola di tedesco». Il trucco funziona e i due sono rilasciati, così riescono a riparare l’aereo e ripartire. Dal Pakistan comincia il volo sull’India e con esso le tormente dei Monsoni. Quindi Delhi, il Gange e poi verso Benares (oggi Varanasi) e finalmente Calcutta, dove atterrano in un ippodromo occupato da vacche al pascolo. A nulla servono i ripetuti voli radenti per farle scansare, ci vuole un pò prima d'individuare una porzione libera all’atterraggio. Qualche giorno di permanenza a Calcutta, dove giungono anche Masiero e Maretto, e poi il 31 marzo gli SVA ripartono. La sfortuna però colpisce ancora Masiero e Maretto, che devono fermarsi per un guasto. Da qui in poi le strade fra loro e Ferrarin e Capannini si dividono. Si ricongiungeranno a Pechino.

Aviatori giapponesi danno il benvenuto agli italiani

Aviatori giapponesi danno il benvenuto agli italiani

Foto: Pubblico dominio

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Paludi e attese

Nei cieli della Cina la pioggia non da tregua, è incessante e allaga il terreno al di sotto dello SVA, che seppur con difficoltà continua la sua avanzata. Così, nei pressi di Canton, Ferrarin è costretto ad atterrare nel mezzo di una palude. Il luogo non è segnato sulla rotta e ci vuole tutta la sua improvvisazione accompagnata da gesti per farsi comprendere da alcuni contadini locali e capire che sono atterrati su di una piccola isola a mezz’ora di volo da Canton. In tutta fretta allora riavviano il motore e ripartono, mentre i presenti, impauriti, si gettano a terra. Ma di Canton neppure traccia, mentre l’oscurità scende inesorabile come la lancetta della benzina, che segna meno di un’ora di autonomia. Quindi nuovo atterraggio su un’altra palude per passare la notte. L’indomani si deve necessariamente giungere a Canton o è la fine. Al mattino i due sono di nuovo in volo, all’orizzonte solo nebbia, ma ecco che improvvisamente intravedono dinanzi a loro le ciminiere delle fabbriche di una grossa città. È Canton!

Le istruzioni dicono che il campo d’atterraggio è nei pressi del Grand Hotel, ma le abbondanti piogge lo hanno allagato rendendolo indecifrabile. La situazione appare disperata, Ferrarin gira due volte sopra la città cercando di scorgere il campo, mentre la benzina segna ormai un’autonomia di dieci minuti. La gente, udito il rombo del motore, si riversa nelle strade, mentre i curiosi assiepati sulle terrazze del Grand Hotel si sbracciano salutando calorosamente il piccolo velivolo italiano che aspettano da ventiquattrore. Ferrarin riconosce l’hotel e ci vola talmente rasente che urla alla gente sui balconi: «Il campo! Il campo!» ma non ottiene che esclamazioni festose da parte degli spettatori. Riesce però ad adocchiare appena in tempo uno spiazzo circondato da tetti e alberi, la benzina è finita e il motore si pianta. Tenta quindi un’impossibile manovra fra due case per atterrare su quel giradino: è un attimo, lo SVA s’abbassa e s’inclina di lato fra le abitazioni ma passa. Le ruote toccano terra e si fermano a due metri da un grosso tronco. La folla si riversa attorno ai due italiani acclamandoli. In appena quattro ore i cinesi riescono a costruire un hangar in bambù per ricoverare il prodigioso biplano, e dopo sette giorni gli aviatori ripartono alla volta di Fuzhou. Ormai il raid sta entrando nella storia. L’attesa per il suo passaggio nelle tappe stabilite in Cina, Corea e Giappone diventa febbrile. Ferrarin riceve diversi telegrammi che testimoniano l’entusiasmo creato dal suo volo. Alcune città hanno addirittura organizzato per lui diversi giorni di festeggiamenti.

La rotta di Arturo Ferrarin nel raid Roma-Tokyo del 1920

La rotta di Arturo Ferrarin nel raid Roma-Tokyo del 1920

Foto: Eurasian_mass.jpg: User:Koba-chan, compiled by PHGCOMderivative work: Fulvio314 - [1]Background from, CC BY-SA 3.0, https://rb.gy/fs4omv

‘Banzai! Italia’: L’ultimo balzo verso il Sol Levante

Accanto a questo volo straordinario scorre la vita quotidiana di quelle terre lontane, i contadini che lavorano chini sulle risaie sorvolate dal piccolo SVA e le ‘abitudini’ locali come le corse dei cavalli all’ippodromo di Shanghai. Ma prima di ripartire da Fuzhou giunge appunto un telegramma da Shangai: non si parte. Infatti l’ippodromo, il luogo prescelto per l’atterraggio, è occupato dalle corse ippiche che si stanno svolgendo in quei giorni e Ferrarin e Capannini sono costretti ad attenderne la fine a Fuzhou. Quando finalmente riprendono il volo per Shanghai, la città decreta sette giorni di festa per onorarli. Da lì gli aviatori ripartono per Qingdao, sosta una settimana e poi verso Pechino, dove devono arrivare il 17 maggio. Non si tratta di una data casuale: la burocrazia cinese ha decretato che non possano arrivare prima di quel giorno in quanto sono oggetto di un rigido programma di festeggiamenti. Nella tappa fra Qingdao e Pechino c’è anche il tempo per salutare un lembo d’Italia che sta in Oriente dal 1901: Ferrarin, infatti, sorvola la piccola concessione italiana di Tientsin gettando dei manifestini di saluto che gli hanno consegnato a Qingdao, poi vola radente sulla regia nave Caboto, laggiù dislocata, e riceve il saluto entusiasta dell’equipaggio schierato per l’occasione sul ponte. Quando arriva a Pechino atterra dinanzi alle autorità e ad una folla enorme. Il giorno dopo giunge anche Masiero, cosicché i piloti sono presentati al Presidente della Repubblica. Poi Seul e ancora un nuovo balzo verso Osaka, dove atterrano il 30 maggio, la meta è ormai vicina. Sono passati tre mesi da quella mattina a Centocelle quando tutto è cominciato.

Alle ore 10 del 31 maggio i due biplani decollano per l’ultima tappa di questo volo straordinario. Tokyo li attende. I due piccoli SVA avanzano inarrestabili uno dietro l’altro, sin quando una fitta nebbia fa perdere a Ferrarin il contatto visivo con Masiero. Quando atterrano a distanza di un’ora l’uno dall’altro nel parco dello Yoyogi Kōen a Tokyo, la folla è incontenibile. Ci sono ben 200mila persone in festa che urlando «Banzai! Italia» accolgono questi pionieri del volo giunti dalla lontanissima Europa. L’imperatore Taishō decreta 42 giorni di festa in loro onore. Ferrarin riceve dal principe imperiale Hiroito un kimono e una katana, mentre il suo prodigioso SVA9, che ha effettuato 112 ore di volo, è donato al Giappone che lo espone al museo imperiale di guerra. L’idea, forse ritenuta folle, dei poeti Shimoi e D’Annunzio si è avverata.

Arturo Ferrarin in Giappone. 1920

Arturo Ferrarin in Giappone. 1920

Foto: Pubblico dominio

Per saperne di più:

  • Arturo Ferrarin, Il mio volo Roma-Tokyo, Idrovolante Edizioni, 2019.
  • Umberto Francione, Il raid Roma-Tokyo, Progedit, 2020.

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