Arte

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Jeanne Samary in abito scollato, 1877, Mosca, Museo Puskin

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Jeanne Samary in abito scollato, 1877, Mosca, Museo Puskin

Questo dipinto, conosciuto anche come La Rêverie per l’atteggiamento sognante del soggetto, rappresenta Jeanne Samary, una delle più famose attrici del tempo. La donna, molto amica di Renoir, si fece ritrarre da lui almeno dodici volte, finché nel 1880 preferirà a Renoir altri artisti dallo stile più accademico. L’opera, esposta durante la terza mostra impressionista del 1877, fu molto apprezzata da Émile Zola, mentre pare non soddisfò completamente la stessa Samary, che riteneva che il dipinto non esaltasse appieno il suo status sociale. Per accontentare l’attrice, l’anno successivo Renoir la ritrasse in piedi con un elegante abito da ballo.

 

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L’altalena, 1876,  Parigi, Museo d’Orsay

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L’altalena, 1876, Parigi, Museo d’Orsay

La tela rappresenta un uomo di spalle rivolto verso una donna in piedi sull’altalena che dirige lo sguardo, un po’ imbarazzato, altrove. La donna indossa un abito bianco che consente a Renoir di rappresentare le vibrazioni cangianti dei riflessi della luce sul tessuto. Vicino ai due, un terzo uomo e una bambina assistono alla scena. Sullo sfondo, appena accennati con poche pennellate, altri cinque personaggi dialogano immersi nella natura.  I modelli che hanno posato per L'Altalena sono Edmond, il fratello Renoir, il pittore Norbert Gœneutte e l’attrice Jeanne Samary. 

 

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Bal au Moulin de la Galette, 1876, Parigi, Museo d'Orsay

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Bal au Moulin de la Galette, 1876, Parigi, Museo d'Orsay

Questo dipinto fu abbozzato da Renoir all'aria aperta e successivamente completato in atelier. L’artista lo presentò in occasione della sua terza e ultima esposizione impressionista. La scena è ambientata al Moulin de la Galette, un vecchio mulino abbandonato non lontano da Montmartre e trasformato in locale da ballo. Il nome fa riferimento a un dolcetto che veniva offerto insieme all’acquisto del biglietto di ingresso. Alcune coppie ballano in pista, al suono dell’orchestra, mentre altre persone sono sedute su sedie e panchine a chiacchierare. L’opera viene comunemente considerata una delle più esemplificative della maturità artistica di Renoir: attraverso il colore, l’artista non solo cerca di cogliere i movimenti delle figure, ma anche di catturarne lo stato d’animo e di trasmettere la serenità di un pomeriggio di svago.

 

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Nudo al sole, 1876, Parigi, Museo d'Orsay

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Nudo al sole, 1876, Parigi, Museo d'Orsay

L’opera fu esposta durante una mostra impressionista suscitando pareri contrastanti. Il critico Albert Wolff su Le Figaro si espresse in termini molto negativi, definendola «un ammasso di carne in stato di decomposizione, con quelle macchie verdi, violacee, che denotano lo stato di completa putrefazione di un cadavere». In realtà, Renoir tentò di rappresentare gli effetti della luminosità su un corpo a riparo dal sole tra le fronde, definendo i colori che l’incarnato assume a contatto con la luce filtrata dalle foglie. 

 

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Il sentiero nell'erba alta, 1874 circa, Parigi Museo d'Orsay

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Il sentiero nell'erba alta, 1874 circa, Parigi Museo d'Orsay

Il dipinto rappresenta il tentativo di rendere gli effetti cromatici della luce di un assolato pomeriggio estivo. Lungo il sentiero, tra l’erba alta, stanno camminando quattro personaggi, due più in fondo e due più vicini allo spettatore. L’opera ricorda i famosi Papaveri che Monet aveva eseguito nel 1783, ulteriore prova della vicinanza di intenti tra i due artisti. Anche se la datazione è incerta, è probabile che si tratti del paesaggio estivo venduto nel 1875 all’asta per l’irrisoria somma di 105 franchi. 

 

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Monet che legge, 1872, Parigi, Museo Marmottan Monet

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Monet che legge, 1872, Parigi, Museo Marmottan Monet

Renoir e Monet si erano conosciuti a lezione dal maestro Gleyre ed era nata tra i due una solida amicizia. Capitava spesso che i due dipingessero insieme all’aria aperta, ognuno dietro il proprio cavalletto. Per esempio, entrambi realizzarono la propria versione dello stabilimento balneare di Grenouillère. In questo dipinto, Renoir ritrasse l’amico mentre era intento a leggere il giornale e fumare la pipa. Non si tratta dell’unico ritratto che Renoir dipinse per Monet. In un’altra occasione, per esempio, lo immortalò con la tavolozza in mano. Renoir era legato a tutta la famiglia dell’amico e fece un ritratto anche di Camille, la moglie di Monet.

 

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La Grenouillère, 1869, Stoccolma, Nationalmuseum

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La Grenouillère, 1869, Stoccolma, Nationalmuseum

A Bougival, una località in riva alla Senna, c’era uno stabilimento balneare attorno all’isolotto di Croissy, chiamato scherzosamente Grenouillère (stagno delle rane) e frequentato dalla borghesia francese. Renoir vi si recava per ritrarre il paesaggio e gli avventori. In quest’opera descrive uno spensierato pomeriggio dove le persone sono intente a chiacchierare, nuotare e prendere il sole. Particolarmente interessante è la rappresentazione della superficie dell’acqua in primo piano che riflette le figure e la natura circostante contribuendo così a dare all’insieme un senso di vivacità. 

 

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Lisa con ombrello, 1867, Essen, Folkwang Museum

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Lisa con ombrello, 1867, Essen, Folkwang Museum

In questo dipinto Renoir ritrae Lise Tréhot, la sua modella preferita di quel periodo, che poserà per lui in altri quadri, come, per esempio, nella Donna di Algeri (1870). L’opera fu realizzata durante un soggiorno nella località di Chailly, uno dei posti in cui il pittore si recava per le sue opere en plein air. L’opera ricevette buoni apprezzamenti, soprattutto per la ricerca luministica con i contrasti di luce e ombra sull’abito candido della donna. 

 

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San Giovanni Battista. 1604 circa. Galleria di Palazzo Corsini, Roma

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San Giovanni Battista. 1604 circa. Galleria di Palazzo Corsini, Roma

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Ragazzo che monda un frutto (copia; l'originale è andato perduto). 1592 circa. Fondazione Roberto Longhi, Firenze

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Ragazzo che monda un frutto (copia; l'originale è andato perduto). 1592 circa. Fondazione Roberto Longhi, Firenze

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Natività con i Santi Lorenzo e Francesco d'Assisi. 1600-1609 (date orientative). Oratorio di San Lorenzo, Palermo

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Natività con i Santi Lorenzo e Francesco d'Assisi. 1600-1609 (date orientative). Oratorio di San Lorenzo, Palermo

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Sette opere di Misericordia. 1606-1607. Pio Monte della Misericordia, Napoli

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Sette opere di Misericordia. 1606-1607. Pio Monte della Misericordia, Napoli

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Vocazione di San Matteo. 1599-1600. Chiesa di San Luigi dei francesi

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Vocazione di San Matteo. 1599-1600. Chiesa di San Luigi dei francesi

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I Bari. 1594. Kimbell Art Museum, Fort Worth, USA

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I Bari. 1594. Kimbell Art Museum, Fort Worth, USA

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Amor vincit omnia. 1602-1603

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Amor vincit omnia. 1602-1603. Gemäldegalerie, Berlino

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Ragazzo morso da un ramarro. 1595-1596

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Ragazzo morso da un ramarro. 1595-1596. Fondazione Longhi, Firenze

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Il segreto della Cupola

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Il segreto della Cupola

Filippo Brunelleschi era noto per mantenere la massima segretezza sui suoi progetti. Non sono molti i bozzetti della sua opera arrivati fino ai giorni nostri. I pochi disegni conservati furono realizzati da collaboratori come Taccola o Bonaccorso Ghiberti, che videro in azione i paranchi e i montacarichi utilizzati durante la costruzione della cattedrale e ne descrissero il funzionamento, ma nulla si sa dell’origine di queste macchine. La riservatezza di Brunelleschi era tale che non volle rivelare all’Opera del duomo alcun dettaglio su come intendeva realizzare la cupola. Narra un aneddoto che durante il concorso del 1418 l’istituzione pretese che i partecipanti esponessero pubblicamente le proprie soluzioni, ma Brunelleschi si rifiutò e propose in alternativa una prova di abilità: si sarebbe aggiudicato la vittoria chi fosse riuscito a far stare in piedi un uovo su un tavolo di marmo. Dopo aver contemplato il fallimento dei suoi avversari, Brunelleschi si limitò a schiacciare la parte inferiore del guscio picchiettandola contro il tavolo: l’uovo restò dritto. Quando gli fecero notare che così erano capaci tutti, Filippo rispose che era lo stesso per quanto riguardava la cupola: se avesse rivelato i suoi segreti tutti avrebbero potuto costruirla.
Alcuni attribuiscono invece l’aneddotto ad altri personaggi, ad esempio a Cristoforo Colombo.

Il dipinto dell'immagine, L'uovo di Brunelleschi, ritrae l'architetto nell'atto di dimostrare ai membri dell’Opera del duomo la fattibilità del suo progetto. Olio di Giuseppe Fattori. XIX secolo. Palazzo Pitti, Firenze.

Foto: Akg / Album

Il progetto di Filippo Brunelleschi

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Il progetto di Filippo Brunelleschi

Il 7 agosto 1420 i muratori, gli scalpellini e gli altri lavoratori salirono sul tamburo della cattedrale di Santa Maria del Fiore. Ammirando Firenze stendersi davanti a loro, consumarono una colazione a base di pane, melone e vino Trebbiano. Questo particolare rituale segnò l’inizio dei lavori di costruzione della cupola.

Nell'immagine possiamo ammirare alcune particolarità del progetto di Brunelleschi. La cupola di Santa Maria del Fiore si erge su un tamburo ottagonale in pietra [1], dotato di grandi finestre circolari su ogni lato. Tra la base e la cuspide ci sono quattro catene di pietra arenaria rinforzate con ferro [2], che insieme a una serie di anelli di legno ingabbiano la struttura impedendo che si apra verso l’esterno. La cupola è sormontata da un oculo [3] e da una lanterna [4], completata nel 1461. La sfera dorata (realizzata da Andrea del Verrocchio) fu collocata sopra la lanterna il 27 maggio del 1471.

La proposta del Brunelleschi rispetta il progetto originale di Neri di Fioravanti, che prevedeva una cupola a sezione ogivale. Gli archi seguono la regola del quinto acuto, cioè il raggio della loro curvatura è quattro quinti del diametro di base, e i rispettivi centri sono posti a un quinto di diametro dagli angoli dell’ottagono interno. Il tamburo, separato ai vertici da elementi di pietra, è privo di un centro esatto, un’irregolarità probabilmente dovuta ad alcune imprecisioni in fase
di costruzione.

Illustrazione: Fernando Baptista / NGS

La costruzione della cupola

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La costruzione della cupola

La proposta di costruire la cupola senza l’ausilio di centine di legno rappresentava una sfida inedita per la Firenze del XV secolo. Brunelleschi confidava che utilizzando le tecniche corrette la struttura si sarebbe sostenuta da sé. A questo scopo ricorse a quattro strategie principali. In primo luogo, sia la calotta interna sia quella esterna furono suddivise in due sezioni. Quella inferiore è in pietra e va dal tamburo fino a circa 14,5 metri di altezza [1]. Quella superiore è in mattoni e il suo spessore diminuisce mano a mano che procede verso l’alto per ridurre il carico sugli anelli inferiori. La seconda strategia fu il ricorso alla disposizione dei mattoni a spina di pesce, [2] che permetteva di connettere ogni nuovo anello di laterizi al precedente, prevenendo il rischio di distacco durante la fase di presa della malta. In terzo luogo il piano di posa dei mattoni non era orizzontale ma si inclinava progressivamente verso l’interno della cupola. Questa tecnica in apparenza rischiosa permise di massimizzare la superficie di frizione tra i diversi strati della costruzione, evitando che gli elementi interni si staccassero per mancanza di un punto di appoggio. Infine Brunelleschi utilizzò dei costoloni interni per collegare i due strati della cupola e degli archi verticali di pietra e mattoni per contenere la struttura dall’esterno.

La spina di pesce (in latino, opus spicatum) è una tecnica utilizzata fin dall’antichità a scopo decorativo. Brunelleschi la applicò alla cattedrale con un obiettivo strutturale. Gli archi obliqui a spina di pesce dividono gli anelli orizzontali di mattoni in segmenti separati l’uno dall’altro e allo stesso tempo li collegano alle sezioni inferiori della cupola. Ciò rende possibile costruire ogni segmento in modo indipendente, limitando i rischi di crolli. Una volta terminato un anello orizzontale, prima di procedere con lo strato successivo si collocano altri mattoni a spina di pesce.

Illustrazione: Fernando Baptista / NGS

La lanterna

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La lanterna

Santa Maria del Fiore fu consacrata nel 1436. Nello stesso anno venne bandito un concorso per il progetto della lanterna, l’elemento terminale della cupola destinato a filtrare la luce che entra attraverso l’oculo. Vinse Brunelleschi seguito da Ciaccheri, un suo ex collaboratore che avrebbe proseguito i lavori dopo la morte del maestro. La lanterna, anch’essa a pianta ottagonale, presenta dei contrafforti a sostegno degli otto pilastri in corrispondenza dei costoloni della cupola ed è dotata di otto finestre.

 

Foto: Scala, Firenze

I paranchi

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I paranchi

Brunelleschi è particolarmente noto per le sue macchine, cui ricorse sia per la cupola del duomo sia in altri contesti civili e militari. I paranchi e i montacarichi utilizzati a Santa Maria del Fiore avevano complessi ingranaggi a trazione animale e sistemi di arresto che impedivano la caduta dei blocchi di arenaria. Per la costruzione della lanterna furono usati esemplari di dimensioni ridotte pensati per essere azionati dalla forza umana, con meccanismi di precisione che consentivano di collocare i conci con grande accuratezza.

 

Illustrazione: Fernando Baptista / NGS

Le cupole più grandi del mondo

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Le cupole più grandi del mondo

La storia delle grandi cupole è un costante susseguirsi di influenze incrociate. Il Pantheon di Roma, la cui struttura superiore è alleggerita mediante il ricorso ad anfore vuote, o la cupola sorretta da pennacchi di Santa Sofia a Istanbul hanno influenzato architetture di luoghi e stili molto diversi. La cupola del duomo di Firenze riprende elementi di entrambi i monumenti, ma ricorre anche a soluzioni innovative, come la doppia calotta e i costoloni intermedi, che le permettono di raggiungere dimensioni mai viste prima. Nemmeno la cupola di San Pietro, opera di Michelangelo e discendente diretta del capolavoro di Brunelleschi, riesce a eguagliarla.

 

Illustrazione: Fernando Baptista / NGS

Giuditta con la sua ancella. 1625 - 1627.

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Giuditta con la sua ancella. 1625 - 1627.

Anche quest'olio su tela conservato al Detroit Institute of Arts è opera di Artemisia Gentileschi ed è considerato uno dei più grandi dipinti della pittrice romana. 

Le due donne ritratte si muovono all'unisono: Giuditta, bellissima nel suo abito di seta, nasconde la spada e protegge il suo volto dalla luce della candela mentre l'ancella avvolge rapidamente in un telo la testa di Oloferne. 

Foto: Dominio pubblico

Giuditta che decapita Oloferne. 1620 circa

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Giuditta che decapita Oloferne. 1620 circa

Si tratta di un olio su tela realizzato da Artemisia Gentileschi e conservato nella Galleria degli Uffizi di Firenze. Una versione precedente di quest'opera, dipinta nel 1612 circa, è invece al museo nazionale di Capodimonte a Napoli.

Questa seconda versione fu realizzata per Cosimo II de' Medici ma venne giudicata troppo realistica. Alcuni critici hanno visto in quest'opera una rivalsa dell'autrice rispetto alla violenza sessuale subita per mano dell'amico di famiglia Agostino Tassi. Questo dettaglio sarebbe ben rappresentato dalla forza fisica che le due donne – Giuditta e la sua ancella – esercitano su un sottomesso Oloferne, il cui sangue sprizza vivido in tutte le direzioni. 

Foto: Pubblico dominio

Giuditta e Oloferne. 1597 circa

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Giuditta e Oloferne. 1597 circa

Olio su tela dipinto intorno al 1597 da Caravaggio e attualmente conservato nella Galleria nazionale di arte antica di Roma. Giuditta, impegnata a decapitare Oloferne, è accompagnata da un'anziana ancella che sorregge il cesto in cui verrà posta la testa dell'assiro.

Si è ipotizzato che la Giuditta di Caravaggio fosse Fillide Melandroni, amica dell'autore, e il suo abbigliamento è tipico delle donne del suo tempo. Alla sua bellezza fa da contraltare la serva, anziana e poco aggraziata. Quest'opera è stata sottoposta ad analisi radiografica ed è emersa una prima raffigurazione dell'eroina con il seno scoperto, che nell'opera definitiva viene celato con una tela sottile. 

Sembra che Caravaggio abbia dipinto una seconda versione di Giuditta e Oloferne, ma l'opera andò perduta nel corso del XVII secolo. 

 

Foto: Pubblico dominio

Giuditta e la sua ancella con la testa di Oloferne. 1510 circa.

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Giuditta e la sua ancella con la testa di Oloferne. 1510 circa.

 

Opera di Antonio Allegri, più conosciuto come Correggio, quest'olio su tavola è conservato al Musée des Beaux-Arts di Strasburgo. Sembra che sia un'esercizio privato di un giovane Correggio, che sceglie di rappresentare Giuditta in primo piano mentre nasconde senza troppe remore la testa del tiranno assiro mentre l'ancella lo mantiene aperto e allo stesso tempo regge la fiaccola che illumina la scena notturna. 

 

Quest'ambientazione oscura è forse il tratto più particolare dell'opera, forse ispirata alle opere di Leonardo da Vinci e al suo sfumato. Giuditta è rappresentata come una dama bella ed elegante, tutto l'opposto della sua ancella, il cui volto espressivo è ritratto ai limiti della caricatura. 

Foto: pubblico dominio

Giuditta e Oloferne. 1508 circa. Dettaglio.

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Giuditta e Oloferne. 1508 circa. Dettaglio.

L'affresco Giuditta e Oloferne, di Michelangelo Buonarroti, fa parte della decorazione della volta della Cappella Sistina. Si tratta del pennacchio immediatamente a sinistra della porta d'ingresso, uno dei primi ad essere realizzati. 

Nel dettaglio che esaminiamo si vedono Giuditta e l'ancella: quest'ultima porta sul capo un vassoio di metallo che contiene la testa di Oloferne mentre Giuditta si muove per coprirla con un panno. L'eroina biblica sembra rivolgere lo sguardo sulla destra, dove giace il corpo di Oloferne (non visibile nell'immagine). 

Foto: Pubblico dominio

Giuditta con la testa di Oloferne. 1504 circa.

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Giuditta con la testa di Oloferne. 1504 circa.

Giorgione firma quest'olio su tavola trasportata su tela conservato nell'Ermitage a San Pietroburgo. La critica si divide sull'attribuzione, ma tutto sembra indicare che appartenga alla fase giovanile di Giorgione. Il volto perfetto di Giuditta contrasta con quello tumefatto di Oloferne, la cui testa giace sotto i piedi della donna. 

La composizione verticale, i colori e le vesti, rimandano a una bellezza nordica, ma la sua posizione richiama piuttosto una statua classica, l'Afrodite Urania di Fidia.

 

 

Foto: Pubblico dominio

Giuditta con la testa di Oloferne. 1495 circa.

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Giuditta con la testa di Oloferne. 1495 circa.

Andrea Mantegna firma anche questa tempera a colla su tela di lino conservata nella National Gallery of Ireland di Dublino. L'opera si colloca negli ultimi anni di vita del maestro mantovano, che in quel periodo produsse diverse grisailles – pitture monocrome con vari toni di grigio. 

 

Le analogie tecniche con la tela di Sansone e Dalila, firmata dallo stesso autore, hanno portato alcuni studiosi a credere che entrambe le opere decorassero gli appartamenti privati di Isabella d'Este nel Palazzo Ducale di Mantova. Anche in questo caso vediamo Giuditta e l'ancella sotto la tenda di Oloferne, intente a nascondere la testa del defunto in un sacco. 

Foto: Pubblico dominio

Giuditta e l'ancella con la testa di Oloferne. 1495 circa.

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Giuditta e l'ancella con la testa di Oloferne. 1495 circa.

Questa tempera su tavola è attribuita a Andrea Mantegna e conservata nella National Gallery of Art di Washington. L'attribuzione è controversa, ma non toglie valore all'opera dai colori brillanti e variegati. 

Giuditta, in piedi con l'arma ancora in mano, si trova in compagnia della sua ancella sotto la tenda di Oloferne, la cui testa sta per essere celata in un sacco. 

Foto: Pubblico dominio

Ritorno di Giuditta a Betulia. 1492 circa.

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Ritorno di Giuditta a Betulia. 1492 circa.

Questa tempera su tavola di Sandro Botticelli, datata intorno al 1492, è lo scomparto destro di un dittico intitolato Scoperta del cadavere di Oloferne. È attualmente conservato presso la Galleria degli Uffizi, a Firenze. 

Le due donne di questa composizione procedono con passo leggero, soprattutto l'ancella che porta la testa del defunto Oloferne. Giuditta sembra rivolgere lo sguardo alle sue spalle come per assicurarsi di non essere seguita dal nemico. Tiene in mano la sciabola, con cui ha appena decapitato Oloferne, e un rametto d'ulivo, simbolo della pace guadagnata con la sua impresa. 

Foto: Pubblico dominio

La Resurrezione

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La Resurrezione

Non potevamo chiudere questo piccolo viaggio nella storia dell'arte senza citare Raffaello, di cui la settimana scorsa si è celebrato il cinquecentenario della morte

La Resurrezione di Cristo è un dipinto a olio su tavola risalente al 1501-1502 circa. Si trova attualmente nel Museo d'Arte di San Paolo, in Brasile.

Foto: Wikimedia Foundation

La Deposizione

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La Deposizione

La Deposizione è un dipinto a olio su tela realizzato, tra il 1602 ed il 1604, da Caravaggio. È conservato nella Pinacoteca vaticana. 

Commissionato da Girolamo Vittrice per la cappella dedicata alla Pietà della chiesa di Santa Maria in Vallicella a Roma, il dipinto rimase nella sua sede originale fino al 1797 quando fu trasferito a Parigi assieme a molte altre opere ed infine esposto al Musée Napoleon. Venne restituita solo nel 1816. 

Foto: Wikimedia Foundation

Il Cristo morto

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Il Cristo morto

Nota anche come Lamento sul Cristo morto, quest'opera fu dipinta da Andrea Mantegna tra il 1475-1478 circa. È attualmente conservata nella Pinacoteca di Brera a Milano.

La luce e lo scorcio prospettico conferiscono all'opera una straordinaria potenza espressiva che la rende uno dei simboli del Rinascimento italiano. 

Foto: Wikimedia Foundation

La flagellazione di Cristo

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La flagellazione di Cristo

Olio su tela opera di Caravaggio, realizzato tra il 1607 ed il 1608. Attualmente è conservato nel Museo nazionale di Capodimonte di Napoli.

 

L'intensità di questo Cristo è diversa da quella di Bramante: nell'opera di Caravaggio Gesù è accompagnato da tre torturatori, messi in risalto dal gioco di luci e ombre.

Foto: Wikimedia Foundation

La Trinità

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La Trinità

La Trinità è un affresco dipinto da Masaccio tra il 1426 e il 1427. Si trova nella basilica di Santa Maria Novella, a Firenze, ed è considerato uno dei pilastri fondamentali del Rinascimento nella storia dell'arte. 

Le particolarità di quest'opera sono due: la prospettiva della volta a botte cassettona dietro il Cristo in croce, e la presenza di Dio padre raffigurato alle spalle del figlio. 

Foto: Wikimedia Foundation

L'ultima cena

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L'ultima cena

Il Cenacolo è un dipinto parietale di Leonardo da Vinci: è databile intorno al 1494-1498 e conservato nell'ex-refettorio rinascimentale del convento adiacente al santuario di Santa Maria delle Grazie a Milano.

 

Foto: Wikimedia Foundation

Cristo alla colonna

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Cristo alla colonna

Quest'olio su tavola è considerato la più bella opera di Donato Bramante. Si trova alla Pinacoteca di Brera, a Milano. 

 

Dipinto tra il 1490 e il 1499 l'olio mostra il Cristo legato alla colonna, attimi prima della flagellazione. La vicinanza del soggetto ritratto e l'assenza dei flagellanti donano a questa tavola un'intensità unica. 

Foto: Wikimedia Foundation

L'ingresso a Gerusalemme

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L'ingresso a Gerusalemme

L'Ingresso a Gerusalemme è un affresco di Giotto che si trova nella Cappella degli Scrovegni, a Padova. Fu dipinto tra il 1303 e il 1305.

Raffigura Gesù seguito dagli apostoli che avanza verso le porte della città di Gerusalemme cavalcando un asino. 

Foto: Wikimedia Foundation

Cacciatori nella neve

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Cacciatori nella neve

Questa quadro ritrae una scena invernale, ambientata tra dicembre e gennaio. Due uomini a capo chino rientrano al villaggio, attraversando il paesaggio innevato dopo una battuta di caccia infruttuosa. Una piccola volpe rappresenta l’unica preda della giornata. Persino i cani hanno un’aria dimessa e camminano con la coda tra le gambe. I fuochi sembrano indicare che i paesani si apprestano ad affumicare carni e pesci. Sullo sfondo uomini e donne trasportano la legna in spalla o sui carri. Il freddo ha interrotto i normali passatempi del mondo campestre, ma adulti e bambini si dedicano ad altre attività ricreative, come pattinare sui due laghetti ghiacciati.

Ogni elemento di questo quadro trasmette la sensazione di un inverno gelido. Il terreno ricoperto di neve è privo di ombre e gli alberi sono completamente spogli. I pochi falò visibili non sono sufficienti a proiettare calore nel vento ghiacciato.

 

Foto: Akg / Album

Danza dei contadini

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Danza dei contadini

Bruegel aveva un grande interesse per questi momenti tradizionali. Nel Libro della pittura, pubblicato nel 1604, Karel van Mander racconta che il pittore fiammingo si recava spesso nei villaggi in compagnia di un suo amico, il mercante tedesco Hans Franckert, per partecipare a nozze e feste. Scrive van Mander che i due uomini «si vestivano con abiti popolari e distribuivano doni e regali come tutti gli altri invitati, fingendosi parenti dello sposo o della sposa. Al pittore piaceva molto osservare le usanze dei contadini, studiarne le maniere a tavola, le danze, i giochi, i corteggiamenti e gli scherzi, che poi riproduceva con grande sensibilità e umorismo».

In Danza dei contadini (1568) Bruegel immortalò una festività religiosa, anche se i protagonisti del quadro non sembrano preoccuparsi troppo della chiesa locale, cui voltano le spalle, né della stampa della Madonna appesa a un albero. In primo piano una coppia si affretta con passo goffo verso il centro della strada per unirsi agli altri danzatori. Al tavolo sulla sinistra sono seduti non solo il suonatore di zampogna e il suo amico rubicondo con una caraffa di birra in mano, ma anche il sordo, il cieco e lo scemo del villaggio, che hanno anch’essi diritto di godersi la baldoria. Dietro di loro due giovani si baciano amorevolmente, un evento che forse prelude a un futuro matrimonio.

 Nei villaggi dei Paesi Bassi si svolgono delle feste annuali per commemorare la dedicazione della chiesa locale, dette kermesse (dal neerlandese kerkmisse, “messa di chiesa”). Bruegel rappresentò queste celebrazioni in vari quadri; su uno di essi aggiunse un commento in fiammingo: «Durante le feste i contadini si divertono a ballare, saltare e bere fino a ubriacarsi come bestie. Non perderebbero l’opportunità di partecipare a queste kermesse per nulla al mondo, anche se durante il resto dell’anno dovessero morire di fame». 

Foto: Erich Lessing / Album

Banchetto nunziale

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Banchetto nunziale

Nel Banchetto nuziale (1568) l’artista si concentra su un’altra festività rurale fiamminga. Il pranzo di nozze si celebra nel granaio del villaggio, con le balle di fieno accatastate a mo’ di parete su cui sono fissati due covoni con un rastrello. La sposa, con i capelli sciolti e un vestito verde, ha alle sue spalle un telo scuro a cui è appesa una corona di carta capovolta. Forse lo sposo è l’uomo seduto all’estremità del tavolo più prossima allo spettatore: con una casacca marrone e un berretto rosso in testa è intento a servire i convitati. Sulla destra, in elegante abito nero, il signore feudale che ha autorizzato il matrimonio parlotta con un frate. In mancanza di un vero e proprio vassoio per le scodelle, i due contadini in primo piano portano il cibo in tavola su un uscio di legno. Due suonatori di zampogna si occupano della musica. Sulla sinistra, uno dei commensali versa la birra (probabilmente prodotta dai contadini stessi) in una brocca; accanto a lui, una bambina lecca il suo piatto. Si può quasi sentire il trambusto dei festeggiamenti che, se la famiglia degli sposi ha soldi a sufficienza, continueranno per vari giorni.

 

 

Foto: Oronoz / Album

La strage degli innocenti

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La strage degli innocenti

Attraverso le sue opere l’artista stava ricordando ai suoi contemporanei che i veri sconfitti di ogni evento bellico erano sempre i contadini: non solo dovevano finanziare il conflitto pagando tributi maggiori del solito, ma erano anche le vittime preferenziali degli attacchi nemici, che miravano a tagliare i rifornimenti agli eserciti locali.

Nella Strage degli innocenti (tra il 1564 e il 1567) l’artista trasfigurò l’episodio biblico del massacro dei bambini di Betlemme, ordinato da re Erode, in una vicenda della sua epoca: il saccheggio di un villaggio fiammingo da parte di soldati spagnoli e mercenari tedeschi. Nell’opera Bruegel mostra con sguardo critico il comportamento delle truppe di occupazione nel preludio della rivolta olandese contro la dominazione spagnola. Ogni scena all’interno del quadro rappresenta una piccola tragedia, dove il dolore dei contadini nasce dall’impossibilità di difendere i propri figli dal brutale attacco (va comunque notato che i dettagli più cruenti furono aggiunti dopo la morte dell’artista). Il futuro che attende questa gente è cupo e desolante come il paesaggio innevato in cui si svolge la scena.

Si ritiene che quando l’imperatore Rodolfo II vide il quadro originale di Bruegel, fu talmente disgustato dalla verosimiglianza della scena che fece sostituire le figure dei bambini. Al centro dell’opera si vede per esempio una madre seduta a piangere con un fagotto in braccio, che in origine era il figlio morto. Nell’edificio sulla sinistra si possono scorgere due soldati intenti a portar via due fanciulli, che non sono stati ridipinti. Il personaggio vestito di nero davanti al plotone di cavalieri è probabilmente il duca d’Alba. 

Foto: © Her Majesty Queen Elizabeth II, 2018 / Bridgeman / Aci

La mietitura

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La mietitura

Realizzata da Bruegel nel 1565 per il banchiere di Anversa Niclaes Jonghelinck, la serie Mesi illustra la vita ciclica, difficile e monotona della campagna. L’opera era composta da sei quadri dedicati ai lavori campestri secondo i periodi dell’anno (due mesi per quadro), anche se solo cinque di essi sono giunti fino a noi. In Mietitura Bruegel ritrae l’attività agricola ad agosto e settembre. In questa vista panoramica del paesaggio si possono osservare alcuni contadini che falciano il grano e legano i covoni da terra mentre altri, seduti all’ombra di un albero, riposano, bevono da una brocca e mangiano avena, pere, formaggio e pane. Alcune figure visibili in lontananza raccolgono mele, si bagnano in un lago e si dedicano ad attività ricreative. Il calore soffocante emerge dal modo in cui Bruegel tratta il paesaggio e gli effetti del clima – due delle sue grandi innovazioni.

In un cielo senza nuvole il sole di mezzogiorno offusca i colori brillanti e bagna la terra di tonalità dorate. Dall’altopiano dove si trovano i contadini il pittore invita a guardare verso il basso, attraverso una distesa verde segnata da filari di alberi e sentieri, fino a raggiungere il porto e il mare che si perde in lontananza.

È considerato uno dei primi paesaggi moderni dell’arte occidentale. Bruegel cerca di dare al panorama una realistica profondità di campo grazie all’uso della prospettiva aerea: le figure più lontane non sono solo più piccole, ma anche più sfumate e azzurrine per la densità dell’aria.

 

Foto: Fine Art / Album

Ritorno della madria

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Ritorno della madria

 

In un altro quadro della stessa serie dedicato ai mesi di ottobre e novembre, i contadini conducono gli animali giù dai pascoli di montagna, quando il calore estivo ha ormai ceduto il passo al freddo e al maltempo. Gli alberi hanno perso le foglie e il sentiero è fangoso. I mandriani risalgono lentamente una collina in direzione del villaggio pungolando il bestiame. In lontananza un fiume scorre all’ombra delle vette montane minacciate dalla tormenta.

Non è facile la vita di questi uomini infreddoliti, immersi in un ambiente imponente e desolato. Una volta in paese, gli animali verranno rinchiusi nei fienili o nelle piccole abitazioni dove le famiglie vivono ammassate in un’unica stanza, con i pagliericci ricoperti di pulci e pidocchi.

Nei suoi paesaggi Bruegel ritrae i contadini integrati nell’ambiente. Il clima è visto come la manifestazione esterna di una natura che governa la vita di donne e uomini. Come le stagioni si susseguono periodicamente, così anche l’essere umano ha il suo ciclo, che va dalla nascita fino alla morte. Rose-Marie e Rainer Hagen hanno fatto notare che in questa scena i mandriani sono dipinti con gli stessi colori del bestiame, per mostrare che gli uomini non sono i signori della natura, ma semplicemente una parte di essa. 

Foto: Akg / Album

Lady Madonna

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Lady Madonna

Durante la sua carriera, Botticelli rappresentò spesso il soggetto della Madonna conferendole sempre eleganza e spiritualità. Questo è evidente per esempio nel tondo della Madonna del Magnificat, datato tra il 1481 e il 1485. Realizzato probabilmente per la famiglia di Piero de’ Medici, si tratta di un vero e proprio esperimento ottico poiché le figure appaiono come riflesse in uno specchio convesso. Il titolo dell’opera rimanda a un passo del vangelo di Luca, che la Madonna sta scrivendo aiutata dagli angeli: Magnificat anima mea Dominum, l’espressione con cui Maria si rivolse a Dio durante l’incontro con Elisabetta. 

Foto: Scala, Firenze

Musa e modella

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Musa e modella

Considerata una delle donne più belle della Firenze rinascimentale, Simonetta Cattaneo nacque a Genova (o a Portovenere) nel 1453 per poi andare in sposa, a quindici anni, a Marco Vespucci. Si trasferì quindi a Firenze, dove morì giovanissima, tra il 1475 e il 1476. Alla sua morte divenne una vera e propria musa per artisti e letterati, che vedevano in lei la personificazione della bellezza. Lorenzo il Magnifico, che si era occupato delle cure di Simonetta durante la malattia che l’aveva portata alla morte (probabilmente la tisi) inviandole i migliori medici della sua corte, le dedicò ben quattro sonetti. Agnolo Poliziano, invece, la cantò nelle Stanze per la giostra del magnifico Giuliano di Pietro de’ Medici, nelle quali si alludeva a un amore platonico tra Simonetta e lo stesso Giuliano. Sandro Botticelli realizzò alcuni ritratti di dame in cui i critici hanno riconosciuto la fisionomia di Simonetta, che ravvisano anche in La Primavera come Flora, nonché nella Nascita di Venere e nella dea dell’amore in Venere e Marte.  

Foto: Akg / Album

Ritratti del suo tempo

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Ritratti del suo tempo

Nel corso della sua carriera, Sandro Botticelli eseguì numerosi ritratti per i membri di ricche famiglie fiorentine, primi tra tutti i Medici. Nel dipinto raffigurante L’adorazione dei Magi rappresentò anche sé stesso, riccamente abbigliato, insieme a una rassegna di ritratti medicei, che probabilmente richiamarono l’attenzione dei mecenati sull’artista. Nel suo autoritratto, Botticelli volge lo sguardo verso lo spettatore: si tratta di una tecnica, diffusa tra gli artisti, per coinvolgerlo maggiormente nella scena. I ritratti di Botticelli sono basati sul giusto equilibrio tra la correttezza fisiognomica e una certa tendenza all’idealizzazione, come nel caso del ritratto del fratello di Lorenzo il Magnifico, Giuliano de’ Medici. Quest’ultimo fu rappresentato più volte dall’artista, così come lo fu Simonetta Vespucci, la donna amata da Giuliano.  

Primo a sinistra, Giuliano de’ Medici nel gennaio del 1475 Giuliano partecipò alla giostra in piazza Santa Croce. In quell’occasione Botticelli realizzò per lui uno stendardo con l’immagine della dea Pallade con le fattezze di Simonetta. Morì pugnalato durante la congiura antimedicea dei Pazzi nel 1478. In mezzo, Cosimo il Vecchio. L’uomo, identificato probabilmente con Antonio, fratello del pittore, veste secondo la moda borghese del tempo: una lunga veste di colore nero e un berretto rosso. Tra le mani regge una medaglia raffigurante Cosimo il Vecchio. Antonio si era infatti occupato della doratura di alcune medaglie per i Medici. L'ultimo ritratto, di un uomo rappresentato frontalmente, contro uno sfondo scuro che esalta la luce proveniente da sinistra. Indossa una tunica marrone bordata da una pelliccetta e un berretto rosso. Gli occhi sono grandi e sembrano fissare lo spettatore con intensità.

 

 

Foto: Scala, Firenze

Rivisitazione di Boccaccio

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Rivisitazione di Boccaccio

Nel 1483, poco dopo il ritorno da Roma, Botticelli illustrò l’ottava novella della quinta giornata del Decameron, Nastagio degli Onesti, per le nozze di Giannozzo Pucci con Lucrezia Bini. Ne ignoriamo il committente, ma la presenza dello stemma mediceo in una delle quattro tavole potrebbe far pensare a Lorenzo il Magnifico, parente della sposa. Nastagio è un giovane ravennate innamorato, ma non ricambiato, della figlia di Paolo Traversari. Vagando in una pineta si imbatte in una fanciulla inseguita da mastini e in un cavaliere. Si tratta di Guido, che si era ucciso perché rifiutato dalla donna. Ora i due sono costretti a riapparire nello stesso luogo dove ella lo rifiutò e a ripetere la stessa scena: lui deve catturarla e dare il suo cuore in pasto ai cani per tanti anni quanti furono i mesi in cui fu respinto. 

 

Foto: Akg / Album

Le chiavi di un capolavoro

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Le chiavi di un capolavoro

Su La primavera, realizzata per Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici (detto “il Popolano”), esistono molte interpretazioni in chiave mitologica, allegorica, simbolica e storico-celebrativa della famiglia. Secondo l’interpretazione in chiave neoplatonica dello storico dell’arte Ernst Gombrich, per esempio, il tema centrale dell’opera è l’amore che, sotto l’influsso di Venere, da sensuale diventa intellettuale. La scena è ambientata in un prato primaverile, circondato da alberi d’arancio e pieno di piante di ogni genere.  

A sinistra Mercurio agita un caduceo per scacciare le nubi, che non devono rovinare l’eterna primavera del giardino. Al suo fianco, le Grazie, chiamate da Esiodo Aglaia, Eufrosine e Talia, danzano coperte da vesti trasparenti che sembrano mosse dalla brezza. Venere, vestita di bianco e con un mantello vermiglio, sembra seguire con il gesto della mano la danza delle Grazie. Vicino a lei il mirto, il suo simbolo. Cupido, con gli occhi bendati, sta scagliando una freccia verso la più esterna delle tre Grazie, che intreccia le mani con le altre due. Flora, dea della giovinezza, avanza verso il centro con la tunica decorata da fiori di vario genere. Regge un lembo della veste ricolmo di boccioli di rosa, che sparge nel cammino. Clori cerca di fuggire terrorizzata. Come risultato dell’incontro fecondante con Zefiro vengono generati i germogli che le escono dalla bocca. Zefiro, il vento di ponente che annuncia la primavera, è raffigurato come un essere alato bluastro che tenta di  ghermire la ninfa Clori.

 

 

 

 

Foto: Akg / Album

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