In piazza per Gigliola Pierobon

Foto: Sandra Busatta / Fondo Sorelle Busatta

Nel 1967, all'età di diciassette anni, Gigliola Pierobon rimase incinta di un uomo più vecchio di lei, che l'abbandonò subito dopo. Un vecchio amico, Roberto Cogo, le procurò i soldi e i contatti necessari per interrompere la gravidanza: all'epoca infatti l'aborto era una pratica illegale in quanto reato «contro l’integrità e la sanità della stirpe» (sulla base del codice Rocco, redatto sotto il fascismo). L'anno seguente la giovane, che nel frattempo aveva sposato Cogo e aveva avuto una figlia, fu chiamata a testimoniare su un'altra vicenda e finì per confessare di avere abortito lei stessa. Pierobon finì così a sua volta sotto processo, ma, incoraggiata dalle compagne di lotta femminista conosciute nella fabbrica in cui lavorava, decise di rendere il processo una mobilitazione collettiva per la legalizzazione dell'aborto. Nei giorni delle udienze, ai primi di giugno del 1973, il movimento femminista scese in piazza a manifestare e diverse di donne si autodenunciarono davanti ai tribunali per aver abortito: fu una delle prime grandi mobilitazioni femministe di massa della storia italiana. La sentenza del 7 giugno fu una delusione: Pierobon fu dichiarata colpevole, ma ottenne il perdono giudiziale per la "buona condotta" dimostrata con l'essersi sposata e l'aver avuto una figlia. Il paternalismo dei giudici non scoraggiò il movimento, anzi, il processo Pietrobon costituì una pietra miliare della lotta che nel 1978 avrebbe ottenuto la legalizzazione del diritto all'aborto.

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