Criticare la cucina britannica è sempre stato un luogo comune, ma a nessuno è mai venuto in mente di mettere in discussione il buon gusto dei britannici per le bevande alcoliche. Già nell’VIII secolo l’inglese san Bonifacio biasimava l’interesse di tanti abitanti dell’isola per i liquori. Un piacere, o vizio, questo, nel quale non cadevano «né franchi né lombardi, né romani, né greci». Con il tempo, tuttavia, i gourmet di tutte le latitudini avrebbero tratto vantaggio da questa tendenza britannica. Senza la mediazione dell’impero, in effetti, il bordeaux, il porto, il madeira e lo sherry non sarebbero oggi quello che sono. E sicuramente neanche le due bevande nazionali, il gin inglese e il whisky scozzese, avrebbero mai avuto risonanza mondiale.
Con centinaia di milioni di casse vendute annualmente si può ben pensare che quella del whisky sia stata una “storia felice”. La versatilità di questo distillato sembra essere la garanzia della continuità del suo successo: se esistono i fanatici irriducibili del whisky, esistono anche così tanti tipi di miscele da scandalizzare i puristi. Non c’è male per una bevanda di per sé molto semplice, o almeno in teoria: alcol distillato da cereali in grani fermentati, che poi viene lasciato invecchiare in botti di legno. In altre parole, birra distillata.
Il whisky faceva parte della vita degli scozzesi del XIX secolo, come si vede in questo dipinto di John Frederick Lewis
Foto: Bridgeman / Aci
Origine egizia o gaelica?
Se la parola “whisky” ci porta immediatamente in Scozia, non è solo per il fatto che, come dice lo scrittore Kevin R. Kosar, «sembra che gli scozzesi l’abbiano inventato per primi». Ma è perché quella semplice birra distillata si è arricchita proprio in Scozia di tutti gli elementi – terra, acqua, fuoco e aria – fino a ottenere una bevanda che, in termini di eccellenza, può raggiungere la più raffinata complessità. Esistono infinite teorie sulle origini del whisky. C’è chi le attribuisce agli egizi, veri conoscitori dell’arte della birra. Altri, invece, agli alambicchi greci: sembra che si producesse l’acquavite già ai tempi di Aristotele. E può anche darsi che saggi e alchimisti medievali, da Raimondo Lullo fino ad Arnaldo da Villanova, l’avessero importato dal mondo arabo.
A ogni modo, qualsiasi prova storica prima del 1500 è scarsa ed estremamente confusa. Inoltre, sembra piuttosto improbabile che il whisky primitivo assomigliasse all’attuale. Nel XV secolo viene documentata per la prima volta un’espressione gaelica , uisce beatha, che significa “acqua della vita”. Tuttavia ignoriamo se il termine si riferisse al brandy o genericamente al liquore. Il primo accenno al whiskey (sic) come lo conosciamo ai giorni nostri proviene da una rivista irlandese della metà del XVIII secolo. Fino ad allora era stata una bevanda riservata ai monaci, ai bottegai e alla gente di campagna. Questo non esclude che venisse distillata in terre scozzesi già da molto tempo, almeno dal 1400 circa. E anche se quello fosse un lontano parente del whisky che conosciamo, la sua importanza economica fu sempre grande: lo dimostra il fatto che nel 1506 il re avesse concesso il monopolio della sua preparazione alla corporazione dei barbieri-chirurghi di Edimburgo. S’inaugurava così la tradizione, destinata a durare nel tempo, di attribuire a questo distillato poteri curativi.
Tempi difficili
Ciononostante, con il passare degli anni la produzione venne sottoposta a severi controlli: in tempi di carestia il fatto di destinare il grano alla distillazione, piuttosto che all’alimentazione, divenne un lusso e la produzione del whisky diventò appannaggio della nobiltà. Tutto questo non riuscì comunque a incrinare l’attaccamento degli scozzesi alla loro bevanda nazionale.
In ogni caso, il maggior interesse per il whisky fu quello manifestato dal fisco: nel 1644 la produzione e l’affinamento della cosiddetta “acqua della vita” cominciarono a essere gravati da imposte. L’unione politica tra Scozia e Inghilterra nel Regno Unito portò l’Inghilterra a finanziare ogni guerra intrapresa attraverso le imposte sulla bevanda. E non unicamente per mezzo del whisky: erano ugualmente soggetti a imposizione i cereali oppure gli alambicchi.
Nel 1781, infine, la distillazione privata venne proibita. E anche se nel 1816 ci fu una rettifica e si sospesero le imposizioni fiscali, il consumo e la produzione illegale furono fortemente penalizzati. Basti pensare che il controllo della produzione nelle distillerie da parte di funzionari dello stato britannico cessò solo nel 1983.
Tutti questi ostacoli ebbero anche un effetto ambivalente: gli scozzesi s’ingegnarono a escogitare nascondigli per alambicchi e barili. Nemmeno il più perspicace fra gli emissari dello stato avrebbe immaginato che le botti con la dicitura “disinfettante per pecore” contenessero proprio del whisky. Il divieto, inoltre, non fece che accrescere il contrabbando: nel 1822, quando Giorgio IV arrivò in Scozia – che da secoli non riceveva una visita reale – il whisky con cui brindò era, per ironia della sorte, illegale.
Un alambicco rudimentale per distillare aqua vitae in una fattoria. Incisione su legno del 1616
Foto: Granger / Aurimages
Fu a partire da quel momento che la storia del whisky cominciò a essere veramente “felice”. La bevanda acquisì una considerazione ben diversa dalla cattiva reputazione del gin, considerato responsabile di ogni genere di tumulti e disordini a opera delle classi popolari nell’Inghilterra del XVIII secolo. Il whisky, al contrario, godeva dell’appoggio della Corona. La regina Vittoria creò la moda della villeggiatura in Scozia e nei suoi spostamenti non trascurava mai di portare con sé una bottiglia di whisky. Curiosamente, fu proprio la stessa regina che tanto appoggiava le “leghe della temperanza” per la prevenzione dell’alcolismo a concedere la distinzione di “fornitore reale” alla distilleria di Lochnagar. A partire da quel momento l’impero britannico avrebbe portato il whisky nei cinque continenti sulle navi dell’Armata.
La pubblicità d’inizio XX secolo sosteneva che il whisky non nuoce né alla testa né al fegato
Verso la fine dell’ottocento la piaga della fillossera, che provocò il crollo del mercato del brandy, offrì un’ulteriore magnifica opportunità di crescita al suo rivale. Agli albori del XX secolo il whisky era diventato una bevanda elegante e, secondo quanto recitava una pubblicità dell’epoca, salutare, dato che «non nuoce alla testa e neppure al fegato». La passione del re (e dandy) Edoardo VII per questa bevanda avrebbe contribuito ad aumentare il prestigio del distillato: quando il sovrano cominciò a berlo con l’acqua, molti dei suoi sudditi imitarono quest’abitudine chic.
Sempre capace di reinventarsi, il whisky sopravvisse alle due guerre mondiali – nel 1943 non se ne distillò neanche una goccia – e seppe guadagnarsi un po’ alla volta nuovi spazi grazie, tra le altre cose, alle creme di whisky e all’introduzione del malto, destinato a contrastare il dominio del blended a partire dagli anni ’70 e ’80 del XX secolo.
Manifesto con una bottiglia di Whisky Scozzese
Foto: Getty Images
Questa bevanda che, secondo l’esperto James Boswell, «rende felici gli scozzesi», oggi può arrivare a costare, all’asta, fino a centinaia di migliaia di euro a bottiglia. Highland o Lowland, Speyside, Islay o Campbeltown, whisky più salati o più minerali, con toni dorati, oppure con riflessi di mogano: gli appassionati possono scegliere il distillato in mille versioni. Tutte condividono però la caratteristica di rappresentare, come afferma lo storico scozzese David Daiches, un brindisi alla civiltà, un tributo alla continuità della cultura e un manifesto della determinazione umana a godere pienamente dei propri sensi.