Quando compì 60 anni, un’età che i romani consideravano già molto avanzata, Marco Tullio Cicerone era convinto che la sua carriera politica era giunta al termine. Erano lontani i giorni gloriosi in cui quest’avvocato di Arpino si era scagliato dai banchi del senato contro i politici corrotti e i nemici dello stato come Catilina, il patrizio di cui aveva sventato la congiura oltre 15 anni prima. In seguito aveva assistito impotente all’ascesa di Pompeo e di Giulio Cesare, i generali e capi fazione che avrebbero scatenato una guerra civile per il controllo del potere. Cicerone fu critico verso entrambi, ma era soprattutto Cesare a preoccuparlo, per le sue ambizioni quasi monarchiche e contrarie al vecchio ideale repubblicano, del quale l’arpinate si era eretto a difensore. Nel 48 a.C., dopo la vittoria del futuro dittatore sul suo rivale, l’oratore fece ritorno a Roma, ma non riprese a partecipare pienamente alla vita politica. Se in qualche momento si era illuso che Cesare potesse restaurare la repubblica, ogni speranza si era dissolta di fronte alla realtà dei fatti: in poco tempo il generale aveva concentrato su di sé un potere praticamente assoluto.
L'ira di Fulvia contro Cicerone. Olio di Gregorio Lazzarini del 1692. Gemäldegalerie Alte Meister, Kassel
Foto: BPK / Scala, Firenze
L’ostracismo politico nei confronti di Cicerone coincise con un momento particolarmente duro della sua vita personale. Da poco rientrato a Roma, all’inizio del 46 a.C. divorziò dalla moglie Terenzia dopo 30 anni di matrimonio, accusandola di aver dilapidato gran parte del patrimonio familiare in discutibili investimenti. Quindi contrasse matrimonio con Publilia, una giovane di origini patrizie che finì però per ripudiare sei mesi dopo. Come se non bastasse, a metà febbraio del 45 a.C. sua figlia Tullia morì nel dare alla luce un bambino, che sarebbe morto anche lui poco dopo.
In seguito a questi eventi Cicerone cadde in uno stato di profondo scoramento, che cercò di superare come aveva fatto in passato: rifugiandosi nelle sue passioni letterarie. Si immerse in una frenetica attività di scrittura, che lo portò alla stesura di alcune delle sue opere retoriche più importanti (come per esempio il Brutus e il De oratore), e soprattutto intraprese un ambizioso progetto che mirava a rendere accessibili i concetti principali della filosofia greca al pubblico latino.
Mentre Cicerone trascorreva le sue giornate rinchiuso nelle ville di Astura, Tuscolo, Pozzuoli o Arpino, un gruppo di congiurati organizzava l’assassinio di Giulio Cesare. Sebbene avessero forti legami con l’oratore – in particolare Marco Bruto, su cui Cicerone aveva esercitato una decisiva influenza intellettuale –, i cospiratori non lo informarono dei loro piani, forse perché erano consapevoli del suo atteggiamento esitante e del suo rifiuto della violenza. Cicerone era presente alla sessione del senato delle idi di marzo del 44 a.C., durante la quale Cesare fu pugnalato a morte. La sua reazione fu un misto di sorpresa e orrore, ma anche di gioia contenuta: nella sua corrispondenza privata e nelle orazioni che avrebbe pronunciato contro Marco Antonio – le Filippiche – l’avvocato arpinate mostrò un certo orgoglio per il fatto che Bruto, mentre sollevava il pugnale che avrebbe conficcato nel corpo di Cesare, aveva gridato il nome di Cicerone in omaggio alla ritrovata libertà.
Guerra contro Marco Antonio
La gioia di Cicerone per la morte di Cesare non durò a lungo, perché ad assumere il controllo della situazione a Roma fu Marco Antonio: durante le esequie funebri del dittatore infiammò la folla e la aizzò contro gli assassini del loro capo. Sentendosi in pericolo di vita, Bruto e Cassio abbandonarono la città.
Marco Antonio approfittò dell’uccisione di Cesare per aizzare il popolo contro i congiurati e presentarsi come il nuovo uomo forte. Olio di George Edward Robertson
Foto: Bridgeman / Aci
Cicerone fu costretto a imitarli e iniziò a lamentarsi in toni sempre più aspri dell’inazione dei congiurati, della loro mancanza di determinazione nei momenti successivi alla morte di Cesare, della loro incapacità di affrontare Marco Antonio con chiari progetti per il futuro. L’oratore arpinate, invece, non era disposto ad arrendersi. Convinto che era in gioco la sopravvivenza stessa della repubblica, decise di assumere la guida del senato per condurre una lotta strenua contro Marco Antonio.
Come se ormai non avesse più niente da perdere, Cicerone mise da parte i dubbi e l’indecisione che avevano caratterizzato altri momenti della sua vita e si dimostrò implacabile nei confronti del suo avversario. Sostenne la necessità di intraprendere azioni molto più drastiche e violente di quelle proposte dai cospiratori, che a suo giudizio avevano agito con il coraggio di un uomo, ma con la testa di un bambino. Tuttavia quando, poco dopo, si profilò la possibilità di uno scontro tra Decimo Bruto (un altro dei congiurati) e Antonio in Gallia Cisalpina, che avrebbe significato per i romani una nuova guerra civile, Cicerone ebbe un momento di esitazione. Tutto ormai gli sembrava perduto; la repubblica – confessava in una lettera al suo amico Attico – era «una nave a pezzi: nessun piano, nessuna riflessione, nessun metodo». Senza più speranze, decise di abbandonare l’Italia e raggiungere la Grecia. Ma quando era già a bordo della nave, la partenza fu rimandata a causa del sopraggiungere di un’improvvisa tempesta.
Allora l’arpinate tornò sui suoi passi e decise di rientrare a Roma. Le notizie provenienti dalla città erano incoraggianti: sembrava che la situazione si stesse tranquillizzando e che Marco Antonio fosse disponibile a rinunciare allo scontro con Decimo Bruto. Di fronte alla mancanza di iniziativa dei congiurati, Cicerone pensò di utilizzare nella sua battaglia contro Marco Antonio un giovane diciottenne, recentemente entrato in politica. Questo giovane era Gaio Ottaviano, pronipote di Giulio Cesare, da cui era stato adottato come erede. Ottaviano ricevette la notizia della morte di Cesare mentre era ad Apollonia (nell’attuale Albania), e subito si mise in viaggio verso Brindisi. Una volta sbarcato sulle coste italiche, cercò di accattivarsi la fiducia dei veterani delle legioni cesariane e di altri personaggi influenti, come lo stesso Cicerone. Durante la sua marcia verso Roma, visitò l’oratore presso la sua villa di Pozzuoli con l’intento di ingraziarselo, consapevole del fatto che avrebbe avuto bisogno del suo appoggio per raggiungere i propri obiettivi politici.
Avvocato, politico e filosofo, Cicerone è passato alla storia per la difesa dei valori repubblicani e per la lotta contro la tirannide
Foto: Scala, Firenze
L’arpinate fu lusingato dal fatto che il giovane fosse così attento nei suoi confronti e si convinse che avrebbe potuto manovrarlo per frenare le ambizioni di Marco Antonio. Quando venne a sapere che, in assenza di quest’ultimo, Ottaviano era entrato a Roma con i veterani delle legioni per rivendicare di fronte al popolo i suoi diritti di erede di Cesare, Cicerone se ne rallegrò e scrisse al suo amico Attico: «Quel ragazzo ha inferto un bel colpo ad Antonio». Si fece quindi convincere da Ottaviano a tornare nella capitale per guidare lo scontro con l’ex luogotenente di Cesare, che in quel momento stava marciando verso la Gallia Cisalpina. L’oratore cercò di convincere i nuovi consoli, Irzio e Pansa, a dichiarare apertamente guerra a Marco Antonio. Questa posizione – energicamente espressa nelle orazioni divenute celebri come Filippiche – era in contrasto con quella del senato, che puntava sulla via negoziale per convincere Antonio a desistere dall’assedio di Modena, dove Decimo Bruto resisteva disperatamente in attesa del soccorso delle truppe repubblicane. Quando si diffuse la notizia che era passata la linea dello scontro, a Roma si scatenò l’euforia: Cicerone fu portato in trionfo al Campidoglio e successivamente fu acclamato davanti ai rostra, la tribuna oratoria ufficiale del foro.
Ottaviano diffidava di Cicerone, che diceva di lui in privato: «Quel giovane dev’essere lodato, onorato ed eliminato»
Ma anche in questo caso la gioia di Cicerone fu di breve durata. Sebbene sconfitto, Marco Antonio riuscì a salvare una parte delle sue legioni e quindi strinse alleanza con Lepido, governatore della Gallia Narbonense. Invece di inseguirlo, Ottaviano rivendicò per sé la carica di console e, di fronte al rifiuto del senato, non esitò a varcare il Rubicone e a marciare su Roma con le sue legioni, come aveva già fatto Cesare prima di lui. I senatori non poterono far altro che accettare il fatto compiuto. Cicerone era ormai consapevole che il nuovo capo militare approfittava del potere delle sue truppe per calpestare la legalità repubblicana. Intanto Ottaviano iniziò a diffidare dell’oratore, poiché era venuto a sapere che in privato cospirava contro di lui e dichiarava: «Quel giovane dev’essere lodato, onorato ed eliminato».
La fuga di Cicerone
Scoraggiato e ormai ben conscio che la causa repubblicana era definitivamente persa, Cicerone si ritirò nei suoi possedimenti nell’Italia meridionale, da cui assistette impotente all’avvicinamento tra Ottaviano, Lepido e Marco Antonio e alla nascita del cosiddetto secondo triumvirato. Per lui questo accordo non rappresentava semplicemente una sconfitta, ma anche una minaccia diretta. Infatti i triumviri redassero una «lista di proscrizione», ovvero un elenco di senatori e cavalieri condannati a morte e sottoposti alla confisca dei beni personali. La sete di vendetta ebbe la meglio persino sui legami familiari: Lepido sacrificò suo fratello Paolo, Marco Antonio lo zio Lucio Cesare. Nel caso di Cicerone, fu Ottaviano che alla fine cedette di fronte ai propositi di rivalsa di Antonio. Plutarco ricostruisce così quel momento: «La proscrizione di Cicerone fu quella che suscitò maggiori discussioni, in quanto Antonio non era disponibile a nessun accordo se Cicerone non fosse stato il primo a morire […] Si dice che Ottaviano difese Cicerone i primi due giorni, e poi al terzo lo abbandonò».
Questo affresco opera di Francesco di Cristofano detto il Franciabigio illustra il ritorno di Cicerone a Roma nel 57 a.C.
Foto: Scala, Firenze
L’oratore si trovava nella sua villa di Tuscolo, in compagnia del fratello Quinto e del figlio di questi, quando venne a sapere che lui stesso e il fratello erano stati inseriti nella prima lista di proscrizione. In preda all’angoscia, si misero immediatamente in marcia verso la villa di Astura, da dove pensavano di raggiungere la Macedonia per riunirsi con Marco Bruto. Ma a un certo punto Quinto, che era partito senza portarsi dietro nulla, decise di tornare indietro per procurarsi delle provviste. Quella scelta gli fu fatale: tradito dai suoi servi, fu ucciso pochi giorni dopo insieme al figlio. Ad Astura, Cicerone era ormai divorato da dubbi e timori. Si imbarcò su una nave ma si fece lasciare a terra all’altezza del Circeo e si diresse verso Roma; dopo una trentina di chilometri cambiò nuovamente idea, tornò ad Astura e poi raggiunse via mare la villa di Formia. Qui decise di fermarsi a recuperare le forze, prima di intraprendere il viaggio finale verso la Grecia.
La morte del grande oratore
Troppi dubbi. Troppi tentennamenti. Quando venne a sapere che i soldati di Antonio stavano per raggiungerlo, Cicerone si fece trasportare in fretta e furia verso il porto di Gaeta. I soldati trovarono la villa vuota, ma un liberto di nome Filologo gli indicò il percorso seguito dalla lettiga su cui viaggiava Cicerone. Era il 7 dicembre del 43 a.C. Plutarco descrisse così la scena: «In quel momento arrivarono il centurione Erennio e il tribuno dei soldati Popilio il quale, accusato una volta di parricidio, era stato difeso dallo stesso Cicerone […] Cicerone, accortosi che Erennio si avvicinava di corsa, ordinò ai suoi servi di fermarsi e deporre la lettiga. Toccandosi il mento con la mano sinistra, com’era solito fare, fissò in volto i suoi carnefici, sporco di polvere, i capelli arruffati e il viso contratto dall’angoscia; cosicché in molti si coprirono gli occhi per non vedere Erennio che lo sgozzava. Cicerone sporse il collo fuori dalla lettiga, e in quella posizione morì, a quasi 64 anni. Per ordine di Antonio gli furono tagliate la testa e le mani con cui aveva scritto le Filippiche; testa e mani che in seguito furono esposte come trofei su quelle stesse tribune dove pochi mesi prima Cicerone era stato acclamato dalla folla, perché tutti i romani potessero vederle.
Quest’olio di François Perrier ricostruisce il momento in cui Erennio si appresta a decapitare Cicerone
Foto: Akg / Album
Stefan Zweig, che dedica a Cicerone il penultimo dei suoi Momenti fatali, conclude così il suo saggio: «Eppure, nessuna invettiva contro la brutalità, l’illegalità e la smania di potere proferita dal grande oratore su questa tribuna ha mai denunciato in modo così eloquente il male eterno della violenza quanto il linguaggio muto del suo capo profanato: il popolo si avvicina timidamente ai rostra, poi con un senso di vergogna e costernazione se ne allontana. Nessuno dei presenti osa protestare – siamo in una dittatura! –, ma angosciati, col cuore stretto in una morsa, abbassano lo sguardo davanti al tragico simbolo della loro repubblica crocifissa».