Durante il ventennio fascista, in un non meglio precisato paesino dell’Emilia, al termine di uno spettacolo di burattini il segretario locale del Partito nazionale fascista si avvicinò alla baracca per congratularsi con il protagonista: «Fagiolino, siamo camerati, entrambi usiamo il manganello». Fagiolino non esitò nel sottolineare: «C’è una bella differenza: io porto la berretta rossa e tu la camicia nera!». Paf! Paf! Due schiaffi raggiunsero il burattino dal copricapo rosso (e simbolicamente chi gli dava vita) ancor prima della reprimenda verbale del milite: «Hai sempre voglia di scherzare». Colui che animava Fagiolino, il burattinaio Francesco Sarzi, quella sera evitò la galera, ma altre volte andò peggio. Il pensiero unico imposto dal regime non ammetteva canzonature e motteggi. Secondo il giurista Pietro Calamandrei «uno degli effetti più visibili del totalitarismo era stato quello di paralizzare il senso del ridicolo». In tal senso la storica famiglia di burattinai d’adozione insegnò a una grigia e pavida provincia italiana l’arte e la forza dirompente della satira, nemica di ogni dittatura. Erano giovani, sfrontati e disposti con abili giochi di parole, contesti e simbologie a prendersi gioco dei fascisti.

Burattini della famiglia Sarzi: a sinistra, il gerarca fascista; a destra Fagiolino antifascista.
Foto: Fondazione Famiglia Sarzi
Teatranti a dorso d’asino
Nella seconda metà dell’Ottocento Antonio, il capostipite della famiglia Sarzi, decise di abbandonare l’impiego nel comune di San Giorgio in Frassine, nel Mantovano, per dedicarsi stabilmente al mestiere di burattinaio. Tale scelta orientò il destino di un’intera famiglia. Insieme alla moglie Rachilde Triva e ai cinque figli nati tra il 1889 e il 1904, Antonio Sarzi diede vita a un’impresa teatrale itinerante a conduzione famigliare. I “tour” duravano dai due ai quattro anni e toccavano le piazze delle città e dei paesi della bassa padana, la striscia dell’omonima pianura lungo il fiume Po che abbraccia territori di Emilia-Romagna, Veneto e Lombardia. La famiglia Sarzi si spostava su carretti trainati da asini e si portava dietro tutto il necessario per vivere e lavorare. Coi teatrini si guadagnava davvero poco e allora ci s’industriava nella produzione e vendita di dolciumi.
In quel mondo di schiene piegate dalla fatica e dagli stenti, la passione per i buratéin (burattini) non conosceva eguali. Il cosiddetto “teatro delle teste di legno”, che strizzava l’occhio alla commedia dell’arte italiana, attirava bambini e adulti, poveri e signori canzonando i loro stessi vizi, umori e modi di fare. Al centro delle invettive dei burattini di Antonio Sarzi stavano i religiosi panciuti e avari, i capitalisti che agivano solo per proprio tornaconto e, in generale, quelli che ignoravano la povertà. Nelle commedie brillanti, fiabesche o nei drammi storici, cavallereschi e religiosi i burattini si esprimevano a seconda delle zone in una varietà di dialetti e, contrariamente al panorama dell’epoca in cui si parlava solo in vernacolo, quelli di Antonio masticavano un italiano perfetto. Di scritto c’era poco o nulla, si recitava, cioè, a soggetto: i copioni, assai scarni, contenevano soltanto l’impalcatura della commedia, poi tutto era lasciato all’improvvisazione. Dato che i soggetti erano spesso presi delle gazzette e dai giornali d’epoca, poteva persino capitare che i protagonisti delle brevi di cronaca assistessero poi alle ironiche rappresentazioni dei loro stessi fatti e misfatti.

Giacca della divisa da partigiano di Otello Sarzi
Foto: Fondazione Famiglia Sarzi
«Papà, lasciami fare»
Nel 1898 Antonio Sarzi decise d’inscenare Il brigante Musolino, il mafioso calabrese che dominò la scena del banditismo italiano dal 1895 al 1905. Francesco era sempre al suo fianco: «Avevo sette-otto anni e leggevo i giornali come mio padre e ricordo che l’ho aiutato a fare i vestiti, i burattini e i fucili». Presto però le parti s’invertirono perché Antonio contrasse una forma di miopia che nel giro di un ventennio lo avrebbe portato alla cecità totale. Alla vigilia della marcia su Roma, l’evento che nel 1922 portò il fascismo al potere, Francesco Sarzi poteva dirsi formato: aveva una compagnia di prosa – che preferì per tutta la vita al teatro dei burattini – nella quale recitava con la moglie Linda Bozzi. Fino ai dieci anni d’età aveva frequentato il seminario, poi venne scritturato da una compagnia e iniziò a studiare recitazione. Durante la leva militare nel 1913 fu trovato in possesso di volantini sovversivi e fu spedito in Libia. Persino in quelle lande desolate si dilettò con i suoi burattini che lo accompagnarono fino alla fine del Primo conflitto mondiale. Tornato nel 1919, sposò Linda e nel 1920 nacque la primogenita Lucia, mentre nel 1921 abbracciò il Partito comunista dopo il congresso costitutivo di Livorno. L’anno dopo nacque Otello.
Il “Padiglione”
Prima dell’avvento del fascismo le compagnie teatrali lavoravano nella certezza che ciascun burattinaio aveva una propria zona, in genere rispettata da tutti gli altri. A causa della sua militanza comunista, a partire dal 1922 cominciarono per Francesco le prime limitazioni: gli negavano le sale o gli toglievano l’agibilità. Senza paura Francesco continuò a cucire le sue idee antifasciste sulle bocche di personaggi presi abilmente da altre epoche e contesti. Per esempio, al conte di San Germano (o Saint-Germain), salvatore di una coppia d’innamorati, fece urlare: «Qui sotto questo manto rosso, che infiamma i nostri cuori, e che sventolerà come simbolo, venite innocenti che io vi proteggo contro l’infamia». E c’era sempre qualcuno nel pubblico che riconoscendolo esultava: «Evviva il manto rosso». La censura però lo braccava e il rischio della galera dietro l’angolo: «Io, i miei figli Otello e Lucia e mia moglie siamo stati in prigione 13 volte e non abbiamo mai rubato una gallina. Tredici volte e siamo stati anche in pericolo di morte».

Otello Sarzi, a sinistra, con Alcide Cervi, il padre dei sette fratelli fucilati dal fascismo il 28 dicembre 1943
Foto: Fondazione Famiglia Sarzi
Per aggirare la censura, tra il 1927 e il 1928 Francesco si fece costruire un teatro viaggiante chiamato “Padiglione”, composto da platea e palcoscenico completamente chiusi da pannelli di legno e coperti da un telone. Negli anni ’30 il Padiglione dei Sarzi girò soprattutto in Trentino e in Veneto, poi in Piemonte e negli anni della guerra nelle province emiliane. Nel Padiglione ebbero un grande successo le commedie brillanti imperniate sul personaggio di Fagiolino, come Il viaggio del Norge al Polo con Fagiolino e Sandrone del 1928. Costruito in Italia nel 1923 da Umberto Nobile, il Norge (Norvegia) fu il primo dirigibile semirigido a sorvolare il Polo nord nel maggio del 1926. Ovviamente il fascismo era stato lesto ad amplificare l’avvenimento. Fu ancora più lesto Francesco Sarzi che terminò ironicamente il suo spettacolo con una riproduzione del Norge che dopo esser uscito dalla baracca per mezzo di una carrucola, fece un breve giro del cortile e poi rientrò.
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«Sgherri infami»
Negli anni ’40 le trasferte del teatro viaggiante dei Sarzi divennero il pretesto per incontrare altri militanti antifascisti e tenere «collegamenti con le forze di sinistra della regione», scrive il biografo di famiglia Fulvio De Nigris. Rimane scolpita nella memoria antifascista l’amicizia con i Cervi: il padre Alcide e i suoi sette figli antifascisti che furono fucilati al poligono di tiro di Reggio Emilia all’alba del 28 dicembre 1943. In I miei sette figli è proprio Alcide a narrare l’arrivo ai Campi Rossi nella pianura reggiana di una compagnia di teatro di quelle girovaghe mandata dal Partito comunista nel 1941: «Davano lavori sociali e romantici, come I figli di nessuno, La Tosca, Scampolo, e recitava tutta la famiglia, che si chiamava Sarzi […] Sembrava una di quelle compagnie che si trovano nei romanzi di Victor Hugo, predicavano la dignità dell’uomo e la liberazione dalla schiavitù. I fascisti non ci facevano tanto caso, ché prima di tutto erano ignoranti e poi perché dicevano di essere una rivoluzione sociale». Alcide narra estasiato della forza dirompente di quella figlia di appena vent’anni, «la Lucia Sarzi [che] faceva la Tosca e diceva sulla scena parole che mi sono rimaste impresse come: “La mia vita prendetevela, che non abbia più l’orrore di vedervi. Sgherri infami di una più infame tirannia, sole vigliacco che le dai la tua luce”. Il popolo capiva e batteva acceso le mani».

Otello Sarzi al confino in Calabria
Foto: Fondazione Famiglia Sarzi
Lucia, ape antifascista
Da quel momento Sarzi-Cervi diventò un binomio inscindibile fino al tragico evento della fucilazione dei Cervi alla fine del 1943. Nel 1936 Otello fu costretto a scappare in Svizzera e da lì teneva i contatti con la resistenza spagnola al regime franchista, spingendosi per motivi logistici fin sui Pirenei. Rientrato nel 1939, subì altri due arresti: fu prima ammonito poi mandato al confino a Sant’Agata di Esaro in Calabria, dove rimase fino al 1942. In assenza del fratello, era Lucia il perno dell’alleanza tra le due famiglie, Sarzi e Cervi. La giovane teneva i collegamenti con i “compagni” di Reggio Emilia e di Parma, riceveva le direttive del Partito comunista, come quella d’impiantare una stamperia clandestina presso una famiglia di mezzadri reggiani.
Annota la sua biografa Laura Artioli: «Lucia comincia a ritessere con un’abilità da ape impollinatrice i fili dell’antifascismo decimati e dispersi dagli arresti, mettendo in campo la sua arte, la sua comunicativa e il carisma che era in grado di esercitare». Per esempio, come racconta Alcide Cervi, a un certo punto bisognava acquistare delle rivoltelle, ma il prezzo di sessanta lire ciascuna era proibitivo. Così, dopo aver parlato col padre, si decise di rappresentare I figli di nessuno che si sapeva già avrebbe avuto un grande successo perché trattava di una ribellione degli operai di una ferriera al loro padrone. Parteciparono anche i fascisti locali, compreso il segretario: «Lucia girò tra le sedie e tutti diedero soldi. Il segretario del fascio volle dare molto, dieci lire, forse l’unica spesa giusta della sua vita».

Lucia Sarzi in una foto segnaletica
Foto: Fondazione Famiglia Sarzi
Rogo di burattini
L’armistizio dell’8 settembre 1943 pose fine a tutte le rappresentazioni. Dalle frequenze di Radio Mosca, Palmiro Togliatti chiedeva un impegno totale per l’insurrezione antifascista. Il Padiglione venne smontato e costumi, scenari e burattini furono riposti nelle casse. Rimase tutto lì, nel fienile dei Campi Rossi a Campegine fino al momento dell’arresto dei Cervi, quando un grande rogo appiccato dai fascisti distruggerà gli strumenti di quell’arte dissenziente. Insieme a pochi compagni Lucia e Otello Sarzi «si muoveranno continuamente fra la pianura e l’Appennino in cerca di basi per continuare a combattere, tentando invano di organizzare per la notte di Capodanno l’evasione dei sette fratelli e del padre». Tra arresti e clandestinità Lucia e Otello continueranno a resistere fino alla Liberazione. Otello avrebbe raccolto la tradizione burattinaia di famiglia a partire dal 1951 a Novara, quando per rallegrare un gruppo di bambini sfollati a causa dell’alluvione del Polesine, tirò fuori i vecchi burattini e improvvisò uno spettacolo. Burattini e memorie sono oggi custoditi nel Museo della Fondazione Famiglia Sarzi a Cavriago, in provincia di Reggio Emilia.
Per saperne di più:
Otello Sarzi. Burattinaio annunciato. Fulvio De Nigris. Pàtron, Bologna, 1986.
Una giovane attrice intelligente. Lettere di Lucia Sarzi (1938-1940). Laura Artioli, Luciano Casali (a cura di). Viella, Roma 2021.
Storia delle storie di Lucia Sarzi. Laura Artioli. Corsiero, Reggio Emilia, 2014.
Il fascismo come regime della menzogna. Piero Calamandrei. Laterza, Roma-Bari, 2014.
I Cervi ed altro nei ricordi d’un protagonista: Otello Sarzi. Antonio Zambonelli. In Ricerche Storiche, Anno XV, n.44-45, dicembre 1981.
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