
Salvatore Ottolenghi, medico e criminologo
Foto: Pubblico dominio
Tra la fine dell’800 e l’inizio del ’900 torme di disperati, piegati dalla miseria e dalla fame, inabili al lavoro, ma anche quelli che la stampa d’epoca definisce “oziosi” e “perdigiorno”, pullulavano nelle città italiane e nei principali centri della rendita e dell’agio, accalcandosi alle porte di ricoveri e ospizi di mendicità che non riuscivano ad accoglierli tutti. Un po’ dovunque il tasso di criminalità cresceva e i cittadini in balìa dei delinquenti si sentivano insicuri. La cosiddetta “forza pubblica” brancolava nel buio. Gli agenti di sicurezza, privi di una formazione adeguata al delicato compito, procedevano “a tentoni”, cioè unicamente sulla base dell’intuito e dell’esperienza maturata in anni di servizio.
Ovviamente non bastava. Furti, omicidi, stupri e altri tipi di violenze richiedevano un approccio diverso di cui si fece convinto assertore un medico piemontese che mediante lo studio analitico del criminale e la rigorosa raffigurazione delle sue fattezze avrebbe riformato i modi di pensare e agire degli agenti. Salvatore Ottolenghi (1861-1934) dettò le linee guida per la formazione di un funzionario di polizia moderno e razionale che, applicando un metodo scientifico nel proprio lavoro quotidiano, avrebbe ottenuto «la massima probabilità di successo, abbia o non abbia l’intuito di Sherlock Holmes». Fondò addirittura una scuola di polizia, per la creazione di «un moderno e scientifico organo di difesa sociale» che non doveva avere nulla a che fare «coi sistemi empirici, negativi, di quella cosiddetta polizia “del fiuto” oramai invecchiata da tempo».
I successi del fondatore della scuola di polizia scientifica, definita anche medicina poliziesca o polizia tecnica razionale, non tardarono ad arrivare. Nel maggio 1925, ormai al culmine della propria carriera, Salvatore Ottolenghi relazionò al Meeting of the International Police Conference di New York davanti «alle centinaia di delegati delle polizie di tutto il mondo […] i risultati ottenuti in venticinque anni di lavoro e di ricerche scientifiche sulla criminalità». Il New York Times titolò: “Italy teaches police crime-curing science” (l’Italia insegna alla polizia la scienza della cura del crimine). Negli anni il medico astigiano arrivò infatti alla determinazione che il cosiddetto “delinquente” era una sorta di paziente da visitare e curare, riportandolo sanato in società: a suo avviso la forza bruta e le pene detentive severe sarebbero servite a poco.

Ritratti segnaletici. Bertillonage (Francia), 1884-1896. Stampe alla gelatina ai sali d’argento incollate su cartoncino
Foto: Archivio Museo di Antropologia criminale “Cesare Lombroso”
“Dighe” contro il crimine
Salvatore Ottolenghi nacque ad Asti nel 1861 da una famiglia di origini ebraiche. Dopo il liceo, s’iscrisse alla facoltà di medicina e chirurgia dell’Università di Torino e conseguì la laurea nel 1885. In breve tempo divenne uno dei discepoli prediletti di Cesare Lombroso, che nel 1887 teneva un corso di medicina legale a Torino. Come scrive lo storico Silvano Montaldo, gli insegnamenti del «riverito maestro» furono decisivi per Ottolenghi, a partire dallo studio Sull’incremento del delitto in Italia e sui mezzi per arrestarlo (1879) in cui Lombroso auspica la trasformazione della polizia in «uno strumento scientifico […] che ponga in opera la fotografia, il telegrafo d’allarme, gli annunci nei giornali, e soprattutto la conoscenza dell’uomo delinquente».
Lo studio lombrosiano della categoria del “delinquente”, condannato secondo lo scienziato a tale orrenda condizione dalla genetica più che da fattori sociali, portò alla strutturazione di un articolato apparato repressivo e riabilitativo. «Innanzi alla marea del delitto che monta e monta sempre, e minaccia sommergerci e insieme infamarci», scrive Lombroso, bisognava opporre delle “dighe”. Occorreva cioè mettere da parte l’improvvisazione e puntare «sulle basi scientifiche offerte dagli studi nuovi di statistica, di antropologia criminale». Medici e scienziati sociali di stampo positivista, animati cioè da una vibrante fiducia nel progresso, concordavano sul fatto che la priorità era quella di raffigurare le fattezze fisiche dei criminali e le loro caratteristiche morali in modo da poterne fissare e conservare l’identità. A ciò si affiancava la necessità d’identificare i delinquenti dalle tracce che potevano lasciare durante il compimento del reato.
Fu così che Ottolenghi scoprì la sua vera passione: lo studio analitico del criminale. Dopo aver ottenuto nel 1893 la cattedra di medicina legale all’Università di Siena, due anni più tardi istituì un libero corso universitario di polizia giudiziaria scientifica e di discipline carcerarie. Egli era consapevole della scarsa efficienza della polizia italiana che «da tutti è presa di mira» perché incapace di produrre prove sufficienti a incastrare i rei e mancante d’informazioni a proposito dei precedenti penali degli stessi. Ma la vera svolta passava a suo parere da quegli accertamenti d’identità che avrebbero fissato in modo indelebile le fattezze fisiche dei rei. Secondo la storica Mary Gibson, «come burocrate di livello intermedio riuscì a introdurre la criminologia positiva nell’amministrazione dello stato».

Ritratti segnaletici. Bertillonage (Francia), 1884-1896. Stampe alla gelatina ai sali d’argento incollate su cartoncino
Foto: Archivio Museo di Antropologia criminale “Cesare Lombroso”
La scuola italiana di polizia scientifica
Tra il 1902 e il 1903, prima in maniera sperimentale e poi con uno specifico insegnamento associato alla facoltà di medicina dell’Università di Roma, Ottolenghi diede vita a un Programma pratico di polizia scientifica che avrebbe assunto progressivamente i connotati di una vera e propria scuola di polizia scientifica. La sede perfetta per la scuola, dove gli allievi avrebbero trovato «prezioso materiale didattico», erano le prigioni: prima le Carceri nuove, in seguito quelle di Regina Coeli.
Nelle aule la casistica pratica ebbe la precedenza sulla teoria. I partecipanti si trovarono subito tra le mani fotografie, tavole, strumenti e corpi di reato. Ma, oltre alla didattica, la scuola era chiamata a svolgere precisi incarichi per conto della pubblica sicurezza: il servizio di segnalamento e identificazione, vale a dire il rilievo delle impronte digitali; le investigazioni tecniche di polizia giudiziaria con il trattamento delle prove di laboratorio forense; e infine il cosiddetto servizio antropologico-biografico, con la compilazione dei dossier criminali. Con davanti le prime ricostruzioni fotografiche di scene del delitto, ma anche armi, strumenti da scasso, documenti contraffatti e scritti di criminali, Ottolenghi spiegò ai propri “ragazzi” che «ogni nazione tiene pronti in permanenza potenti eserciti preparati a possibili guerre: la polizia, che è invece impegnata in una lotta continua e quotidiana […] dev’essere in costante assetto di guerra […] ha lo scopo di fornire la cultura tecnica degli argomenti più moderni che riguardano l’accertamento dei reati e la vigilanza dei rei».

Il trasformista. Pannello didattico della scuola di polizia scientifica dei primi del Novecento
Foto: Archivio Museo di Antropologia criminale “Cesare Lombroso”
Antropometria e impronte digitali
Alla fine dell’Ottocento la maggior parte delle polizie dell’Europa occidentale si affidava all’antropometria, cioè la misurazione delle varie parti del corpo come miglior sistema d’identificazione dei delinquenti. Sia Lombroso sia Ottolenghi rimasero affascinati dal “metodo Bertillon” – detto anche bertillonage – dal nome del criminologo francese Alphonse Bertillon (1853-1914), inventore dell’antropometria giudiziaria e istitutore del primo laboratorio d’identificazione criminale. Egli fissò una serie standard di parti del corpo da misurare che, insieme alle fotografie segnaletiche, avrebbero permesso l’identificazione in caso di ogni nuovo arresto anche sotto falso nome.
Tuttavia nel 1902 il bertillonage era pressoché superato in Europa e lo stesso Ottolenghi per l’ufficio segnaletico della sua scuola preferì la rilevazione delle impronte digitali. Secondo la storica Mary Gibson, tra le tante ragioni alla base della scelta stava il fatto che «il metodo Bertillon non funzionava con i minorenni che non avevano ancora completato la crescita, mentre le impronte digitali non variavano dall’infanzia all’età adulta». La dattiloscopia – rilievo, esame e studio delle creste cutanee evidenti sui polpastrelli delle dita – era centrale soprattutto in sede di sopralluogo, considerato da Ottolenghi un passaggio cruciale dell’istruttoria processuale. Inoltre il rilievo delle impronte era una pratica ritenuta più economica e più facile da apprendere rispetto al metodo antropometrico. Tuttavia quest’ultimo non cadde totalmente in disuso e alcuni suoi parametri vennero mantenuti. Ottolenghi dispose infatti che sulle schede identificative personali venisse incollata una fotografia fronte e/o profilo e si annotassero alcune descrizioni salienti dei connotati. Ma non solo: per tutto il primo decennio del XX secolo Ottolenghi caldeggiò la compilazione di “cartelle antropo-biografiche” di indiziati e pregiudicati che, oltre alla storia giudiziaria della persona schedata, cominciò a includere anche le vicende famigliari, le caratteristiche fisiche e psichiche della persona.

Impronte digitali del trasformista. Pannello didattico della scuola di polizia scientifica dei primi del Novecento
Foto: Archivio Museo di Antropologia criminale “Cesare Lombroso”
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Sovversivi
Nel primo decennio del ’900 il servizio segnaletico mediante impronte si propagò a macchia d’olio in tutta Italia, con l’istituzione di specifici laboratori provinciali per la dattiloscopia, che passarono dai diciassette del 1910 ai cinquantotto nel 1933. Allo stesso modo il numero di serie d’impronte raccolte continuò a crescere con una media di circa 10-15mila rilevazioni annue, con una certa flessione durante la Prima guerra mondiale. Nel solo 1934, anno della morte di Ottolenghi, erano state raccolte negli uffici segnaletici e nei commissariati di tutta Italia quasi 24mila registrazioni d’impronte.
Il regime fascista, con i suoi propositi di controllo dei cosiddetti “sovversivi” – cioè degli oppositori politici che, pur non avendo commesso alcun reato, avrebbero potuto rappresentare una seria minaccia per lo stato –, sostenne il potenziamento dei servizi antropo-biologici della scuola di Ottolenghi e nel 1924 il ministro degli interni Luigi Federzoni diede il proprio nome alla cartella antropo-biografica. Se Ottolenghi aveva auspicato cautela, rigore e competenza nell’analisi di ogni individuo sospetto che veniva arrestato, secondo Mary Gibson «i funzionari fascisti erano attratti dalle cartelle antropo-biografiche non certo per dedizione alla scienza, bensì per la possibilità di raccogliere una grande quantità di dati su un numero sempre più vasto di individui». Con le aberrazioni che tutto ciò comportò.
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Per saperne di più
Salvatore Ottolenghi. Le impronte digitali in polizia scientifica e medicina legale. Andrea Giuliano, Edizioni Minerva Medica, 2018.
Cesare Lombroso. Gli scienziati e la nuova Italia. Silvano Montaldo (a cura di), Il Mulino, 2010.
Nati per il crimine. Cesare Lombroso e le origini della criminologia biologica. Mary Gibson, Bruno Mondadori, 2004.