«Siete finalmente liberi! La vostra libertà è il solo prezzo che la Francia vuol ritrarne dalla sua conquista; è la sola clausola del trattato di pace che l’Armata della Repubblica giura solennemente con voi fin dentro le mura della vostra capitale e sopra il rovesciato trono dell’ultimo re vostro», recita il Proclama di Championnet del 4 piovoso, 23 gennaio 1799.
L’ingresso a Napoli dell’esercito francese del generale Championnet e la nomina di un governo provvisorio diede inizio, il 23 gennaio 1799, alla Repubblica napoletana. La sua durata fu di 5 mesi e venti giorni, un periodo in cui, sull’onda della Rivoluzione francese, la città, insieme alle province del Regno di Napoli, visse la sua fase repubblicana dopo la fuga di re Ferdinando IV di Borbone a Palermo, sulla nave dell’ammiraglio inglese Nelson che vi attraccò il 27 dicembre 1798.
Ritratto del re Ferdinando IV di Napoli, opera di Francesco Liani. Il sovrano era noto presso il popolo come Re Lazzarone o Re Nasone. Museo Provinciale Campano, Capua
Foto: DEA / Scala, Firenze
In un periodo di tempo così breve si consumò la storia di una generazione d'intellettuali e di rivoluzionari educati alla scuola di Giambattista Vico, di Gaetano Filangieri e dell’Illuminismo francese, che affrontarono i mali ereditati dai secoli precedenti con l’idea che tutto fosse da riformare e da rivoluzionare. Avvocati, medici, giovani delle professioni liberali, dei ranghi della nobiltà cadetta formata nei nuovi collegi militari e chierici destinati alla carriera ecclesiastica furono i protagonisti del 1799 a Napoli.
La sollevazione popolare
Dopo la fuga del re con tesori, denaro, mobilio e biancheria, divenne suo vicario generale il principe Francesco Pignatelli Strongoli, che il 12 gennaio decise per la firma del gravoso armistizio di Sparanise (nei pressi di Caserta) con i francesi. Tuttavia, le clausole durissime per le classi meno abbienti fecero sollevare il popolo, che si sentì tradito. I lazzari napoletani – i giovani dei ceti popolari della Napoli del XVII-XIX secolo – si armarono e si organizzarono per combattere, aprirono le porte delle prigioni per scegliere i propri capi militari e affrontare i francesi. Tra i seimila condannati liberati c’erano anche molti giacobini – i patrioti napoletani, come preferiva chiamarli lo storico e filosofo Benedetto Croce – arrestati nel corso delle persecuzioni del 1794 e del 1798, tra i quali una delle donne protagoniste della rivoluzione, Eleonora De Fonseca Pimentel.
Furono giorni di furore: le case dei giacobini, considerati nemici dalla plebe, furono saccheggiate; le loro biblioteche date alle fiamme; il teatro San Carlo fu occupato e i castelli della città – Castel Nuovo (noto anche come Maschio Angioino), Castel Sant’Elmo, il forte del Carmine, Castel dell’Ovo – assaltati.
Il vicario Pignatelli fuggì travestito con gli abiti della moglie e con lui non solo i patrioti, ma anche gli esponenti delle classi abbienti, ritenuti colpevoli della catastrofe politica, economica e morale e di aver aperto le porte ai francesi. La totale “anarchia popolare” portò all’eccidio della famiglia Filomarino e, subito dopo, iniziò la battaglia di Napoli tra il popolo insorto e l’esercito di Championnet.
Eleonora De Fonseca Pimentel prima della sua esecuzione nel 1799 dà l’estremo saluto ai suoi compagni rivoluzionari. La patriota aveva redatto il 'Monitore Napoletano', giornale ufficiale della Repubblica
Foto: Bridgeman / Index
Il tricolore su Castel Sant’Elmo
Il 21 gennaio i giacobini riuscirono a entrare a Castel Sant’Elmo, estrema roccaforte della città sulla collina del Vomero, e dal suo versante più alto fecero sventolare, accompagnata da quattro cannonate, la prima bandiera tricolore improvvisata, fatta da un pezzo bianco dell’antica bandiera, un cappotto blu e alcune monture rosse. La Repubblica era stata proclamata. Due giorni dopo il generale francese s'impossessò del Castello e, per estensione, della città stessa. Dopo l’arrivo dei francesi, tra i vicoli della città si cantarono versi come: “È venuto lu franzese cu nu mazzo de carte ‘nmano. Liberté Egalité Fraternité tu rubbe a me, io rubbo a te”. Tra questi, anche quelli del canto più celebre dei lazzari, “A lu suono de le campane viva, viva li populane! A lu suono de li violini sempre morte a’ Giacobbini!”. Folla varia, gente senza un mestiere, facchini, pescatori, marinai, manovali, per qualcuno “il popolo di Dio”, essi avevano combattuto da “capi intrepidi”.
Lo stesso Championnet scrisse al Direttorio – l'organo politico-istituzionale posto al vertice delle istituzioni francesi nell'ultima parte della Rivoluzione – che «Mai lotta fu più accanita, mai quadro fu più terrificante. I lazzaroni, questi uomini meravigliosi, sono degli eroi». Per il Corriere di Napoli e Sicilia non erano altro che «gente ignorante, credula, e sempre ingannata da i nobili aristocratici, da i preti fanatici, e da una Corte perversa e sanguinaria». I lazzari, insieme ai contadini, erano parte di quel popolo napoletano dal quale i repubblicani erano molto distanti per estrazione sociale, cultura e lingua e di cui non conoscevano i bisogni reali.
Dopo l’8 maggio 1799, giorno della partenza dei francesi salutata con gioia da tutta la città, quel popolo non insorse, non si videro le scene di gennaio e non vi fu la caccia al giacobino.
La scenografica scalinata del Palazzo Reale, detta anche d’onore. Con l’occupazione da parte delle truppe francesi, le raccolte d’arte del palazzo vennero saccheggiate
Foto: L. Maisant / Age Fotostock
Le difficoltà della Repubblica
Ma la Repubblica non ebbe vita facile. Il governo provvisorio, costituito da venti membri tra cui Carlo Lauberg, Mario Pagano, Melchiorre Delfico, Domenico Cirillo, Pasquale Baffi e Cesare Paribelli, in pochi mesi svolse un’intensa attività legislativa per rovesciare l’antico regime e gettare le basi di una società nuova, fondata sull’uguaglianza di fronte alla legge. Questi «grandi idealisti e cattivi politici», come li definì Croce, oltre a legiferare tentarono di coinvolgere proprio quel popolo nella Repubblica attraverso i giornali e le società popolari, organi importanti per la circolazione del dibattito politico.
A tutela dei ceti sociali più deboli, il 9 maggio fu abolito il dazio sulla farina e il 6 giugno quello sul pane. Furono annullati i titoli nobiliari, i privilegi di nascita e la feudalità; fu riformato l’ordinamento giudiziario, creati nuovi organi di governo municipali ed elaborata la Costituzione repubblicana. Furono inoltre scoperte congiure, catturati ostaggi, fucilati 68 borbonici e altri 32 condannati a vari anni di reclusione. L’11 maggio anche i lazzari salirono tra gli “applausi generali” alla tribuna per proclamare il loro attaccamento alla Repubblica al grido di «Viva la Repubblica, Viva la Libertà, e Viva San Gennaro». Nel frattempo, le società “regaliste” filoborboniche, costituite da nobili, funzionari ed ecclesiastici, si rivelarono molto efficaci nel reclutare le forze antirepubblicane.
Va ricordato che il 25 gennaio 1799 Ferdinando IV di Napoli (anche noto come Ferdinando I di Borbone-Due Sicilie) aveva affidato ampi poteri e l’organizzazione di una forza militare per combattere i giacobini al cardinale Fabrizio Ruffo, che progettò una spedizione in Calabria per sollevare i contadini contro i repubblicani. Agli inizi di febbraio iniziò così l’avventura sanfedista (così detta dal nome dell’esercito della Santa Fede guidato da Ruffo), con lo sbarco nella regione, l’ordine di reclutare quanti più uomini armati possibili e dare così il via alla crociata antigiacobina. Il 13 giugno, con l’arrivo a Napoli dell’esercito della Santa Fede, terminò l’esperimento repubblicano, seguito da una reazione monarchica durissima.
L'albero della libertà. Il palo eretto in Largo di Palazzo (oggi Piazza del Plebiscito) come simbolo rivoluzionario, fu abbattuto quando Napoli fu riconquistata dai sanfedisti
Foto: Bridgeman / Index
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La capitolazione
«Tutto era orrore, spavento e lutto», come scrisse il cronista Diomede Marinelli nel suo Diario, a testimonianza di quei giorni. Furore, massacro e saccheggio non ebbero freni, la vendetta collettiva non risparmiò nessuno, le case furono devastate e il Ponte della Maddalena divenne il luogo in cui Ruffo decise la sorte di tutti gli arrestati, senza distinzione tra uomini, donne, vecchi e bambini. Le Giunte di Stato condannarono a morte e giustiziarono 119 persone; a 122 fu dato l’ergastolo o la carcerazione, 457 furono esiliati a vita o banditi, 231 esiliati a tempo determinato o espulsi.
Castel Sant’Elmo fu il luogo della lotta, da cui tutto era cominciato e in cui tutto finì: qui i patrioti napoletani innalzarono la prima bandiera proclamando la Repubblica, da qui combatterono gli assalti quotidiani delle masse sanfediste, qui si barricarono per tentare l’ultima resistenza dopo l’ingresso in città delle truppe di Ruffo, da qui furono portati via legati e in catene dopo aver firmato la capitolazione, mai rispettata, che avrebbe dovuto garantirgli salva la vita.
Battaglia tra la flotta repubblicana e quella anglo-borbonica, nel canale di Procida, nel 1799. Gouache del pittore napoletano Saverio Della Gatta. Museo di S. Martino, Napoli
Foto: DEA / Scala, Firenze
Le prigioni del Regno furono riempite di 40.000 cittadini, rinchiusi in massa nelle carceri di quel Castello, dei Granili, della Vicaria, il “carcere nefando, senza luce, senz’aria, senza sole”, e nella famosa “fossa del coccodrillo”, tenebrosa e profonda caverna di Castel Nuovo. A Piazza Mercato, la stessa in cui erano stati giustiziati Corradino di Svevia (nel 1268) e Masaniello (nel 1647), fu eretto il patibolo per umiliare pubblicamente i condannati, tra le urla e lo scherno della folla. Uno tra gli estremi difensori della Repubblica, Gennaro Serra di Cassano, la osservò ed esclamò «perché il popolo non ha capito?»; Oronzo Massa chiese al boia di fare presto perché non aveva «tempo da perdere»; Giovanni Andrea Vitaliani suonò la chitarra fino al momento dell’esecuzione; Domenico Cirillo urlò al suo aguzzino: «In tua presenza, codardo, io sono un eroe!».
Francesco Mario Pagano, il “Robespierre di Napoli”, salì sulla forca calmo, davanti a un popolo silenzioso. Con essi anche quelle donne che tanto avevano dato alla Repubblica napoletana, Eleonora De Fonseca Pimentel e Luisa de Molino Sanfelice. Quest’ultima fu giustiziata l’11 settembre 1800, quando un macellaio come boia le dovette tagliare la testa con un coltello perché con la mannaia aveva sbagliato colpo.
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