«La vita e la morte mi sembravano limiti ideali che io, per primo, avrei oltrepassato, e avrei versato un torrente di luce nel nostro buio mondo. Una nuova specie mi avrebbe benedetto come suo creatore e sorgente; molte creature felici ed eccellenti avrebbero dovuto a me la loro esistenza». A parlare è Victor Frankenstein, il celebre scienziato che, dopo infiniti studi, riesce a forgiare la Creatura, la stessa che lo perseguiterà e ne perseguiterà la famiglia. Simbolo della scienza che supera i limiti tra vita e morte, contravvenendo così alle leggi divine, Frankenstein (1818) è il protagonista dell’omonimo romanzo di Mary Shelley. Forse in non molti sanno che, proprio in virtù dell’attività demiurgica del suo protagonista, Mary Shelley decide d’intitolare questa sua opera, destinata a un incredibile successo, Frankenstein o il moderno Prometeo.
Il ritorno di un simbolo
Nella prima metà del XIX secolo il titano Prometeo è ormai tornato alla ribalta per rivestirsi di molteplici significati. Da più di due secoli ne dipingevano la fine o ne descrivevano l’audace gesto autori quali Hobbes, Salvator Rosa o Calderón de la Barca, ma è dalla fine del XVIII secolo che moltissimi artisti e filosofi ragionano e sognano su questa figura, lodandola o biasimandola. Prima di capire le ragioni di tale ripresa, è meglio tornare indietro nel tempo e conoscere più da vicino l’immortale che sfidò Zeus.
Otto Greiner, 'Prometeo', 1909
Foto: Pubblico dominio
Prometeo – in greco, “colui che pensa prima” – è figlio di Giapeto e di Climene e appartiene alla stirpe delle divinità preesistenti a Zeus. Assieme al fratello Epimeteo – in greco, “colui che pensa dopo” – si rende protagonista della creazione degli uomini. Benché sia ricordato soprattutto per aver sottratto agli dèi il fuoco così da donarlo agli esseri umani, Prometeo è pure il titano che, secondo Esiodo, Platone, Apollodoro e molti altri, forgia gli individui a partire dal fango o «impastando l’acqua piovana», riferisce Ovidio.
Ecco, quindi, il suo primo e importante contributo: aver creato gli esseri viventi, tra cui gli uomini. In tale compito è assistito dal fratello che, come racconta il nome stesso, agisce sbadatamente prima di riflettere. Difatti Epimeteo distribuisce ai vari animali armi, difese naturali, capacità di ambientarsi. Eppure, una volta giunto agli umani, non ha più risorse da donare, ed è Prometeo a risolvere il guaio combinato dall’incauto fratello. Ruba così ad Atena l’intelligenza e la tecnica, perché gli umani possano riuscire a ingegnarsi e a sopravvivere.
Secondo Esiodo, Prometeo si macchia di un’altra colpa, o di due. La prima, raggirare Zeus. Durante un sacrificio rituale nella città di Mecone, al quale sono presenti sia gli dèi sia gli uomini, Prometeo «pose innanzi a loro e divise in parti con animo benevolo un bue di notevole mole, cercando d’ingannare il pensiero di Zeus: per l’una delle due parti egli pose infatti le carni e le viscere piene di grasso, sotto la pelle; per l’altra invece preparò con astuto artifizio delle bianche ossa di bue, nascondendole sotto il bianco grasso». Prometeo vorrebbe tenere le carni succulente per gli umani e invita Zeus a scegliere per primo. Questi finge di non accorgersi del raggiro, salvo poi infuriarsi con Prometeo e vendicarsi con gli uomini, negandogli il fuoco. Prometeo si ribella: sottrae una scintilla e la dona agli sventurati. Secondo altre versioni, che non contemplano la scena di Mecone, Prometeo ruba comunque il fuoco perché l’umanità possa farne buon uso.
Jan Cossiers, 'Prometeo ruba il fuoco', 1630 circa
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In epoca arcaica il mito di Prometeo è fondamentale: rende conto delle caratteristiche dell’uomo, della sua capacità di sopravvivere in ogni circostanza e anche d’imporsi sulla natura. Il titano concede agli uomini il progresso, giustifica il loro predominio sulla terra e sulle altre specie. Ma lo fa con un tradimento, e dovrà pagarne le colpe. Verrà infatti incatenato da Efesto alle montagne innevate del Caucaso, dove ogni alba un’aquila plana a mangiargli il fegato, che poi ricresce di notte. L’orrendo supplizio, narra ancora Esiodo, è interrotto da Eracle. Gli uomini sono invece già stati puniti con il vaso di Pandora, infida e seducente donna ideata dagli dèi e sposata dal solito imprudente Epimeteo. Ma questo è un altro mito...
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Prometeo ad Atene
Si torna a parlare di Prometeo nell’Atene classica, con Platone ed Eschilo. In una tragedia attribuita a quest'ultimo, Prometeo incatenato, il titano è il ribelle generoso con gli uomini, che s’impone quale simbolo della vittoria dell’ingegno sulle forze ostili al progresso. Non si pente: «Ho voluto, ho voluto il mio peccato [...] per dare aiuto a chi moriva ebbi la mia pena». Nel contesto dell’Atene democratica, Platone introduce un ulteriore elemento di riflessione: in Protagora riconosce a Prometeo il pregio di aver dotato i primi uomini di fuoco, senno e tecnica, ma gli rinfaccia di non aver pensato alla giustizia. Armati e astuti, i mortali sono condannati a lottare e a uccidersi tra di loro. È Zeus a rimediare a tale errore, concedendo a tutti, nessuno escluso, la virtù politica perché possa poi prevalere il senso di giustizia.
Si delineano, quindi, gli interrogativi che da sempre circondano la figura di Prometeo: è stato saggio o sventato? È un sovversivo o un benefattore? Innocente o colpevole? E come si pone rispetto alla sua creatura, l’uomo?
Jean-Simon Berthélemy e Jean-Baptiste Mauzaisse, 'Prometeo dà vita all'uomo in presenza di Atena', 1802
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Tali domande guideranno l’intera fortuna del mito, che avrà alterne vicende. Se nel Medioevo, ad esempio in Boccaccio, Prometeo è il sapiente che ha affrancato l’uomo dalla condizione primitiva, più avanti, con Rousseau, diventerà colui che ne ha corrotto il felice stato naturale. Senza il fuoco, senza la tecnica, l’uomo primitivo era sereno, e non avrebbe pensato a farsi la guerra né avrebbe strumentalizzato il progresso per i propri fini.
Sulla scia ora di Eschilo, ora di Esiodo, ora di Rousseau, diversi autori tornano al titano, indissolubilmente legato ai concetti di civiltà, progresso, ribellione agli dèi, ma anche dolore e finitezza. Nell’Inno a Prometeo (1773), Goethe sottolinea la rivolta audace del demiurgo che, sprezzando gli dèi, plasma la nuova stirpe. Una stirpe che, però, è destinata a piangere e a soffrire come lui. Non ha forgiato un uomo ideale, bensì mortale e imperfetto, ricorderà anche Leopardi nell’operetta morale La scommessa di Prometeo (1824). Nel romanticismo inglese, invece, Prometeo è il rappresentante per eccellenza dei valori romantici: lord Byron e Percy Bysshe Shelley v’intravedono il simbolo della sollevazione contro il tiranno in nome della libertà.
Kylix laconica a figure nere con Prometeo e Atlante. Attribuita al Pittore di Arkesilas. 550-560 a.C. circa
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Non c'è pace per Prometeo
Come molte aquile che si nutrono del suo fegato e della sua carne, non vi sarà più pace per il semidio, nemmeno nel XX secolo, perché le questioni che il suo mito solleva coinvolgono l’intera umanità e il suo tortuoso percorso tra guerre e lutti, tecnologie e cadute degli dèi. Prometeo è ancora l’incarnazione della ribellione in Albert Camus, che lo definisce «il più grande mito dell’intelletto in rivolta», e in Cesare Pavese, che in I dialoghi con Leucò (1947) ne mostra l’aspetto meditabondo, sprezzante della morte. Il XX secolo è, però, anche il periodo del progresso smisurato. Se da e con Prometeo ha avuto tutto inizio, filosofi come Hans Jonas e Günther Anders chiamano in causa proprio il titano quando cercano una nuova etica che ponga freni alla tecnologia. Non solo: Anders si spinge a ribaltare il mito, sostenendo che l’uomo odierno non è più all’altezza nemmeno del Prometeo che è in lui, e prova vergogna per essere stato sopraffatto dalle macchine e dal progresso.
Nella mente, allora, risuonano ancora le parole che Mary Shelley aveva fatto pronunciare al suo Victor Frankenstein, parole profetiche di un Prometeo già sconfitto: «Imparate da me, se non dai miei consigli, almeno dal mio esempio, quanto sia pericolosa l’acquisizione della conoscenza e quanto è più felice quell’uomo che crede che la sua città natia sia il mondo rispetto a colui che aspira a diventare più grande di quanto la sua natura gli permetta».
Per saperne di più
Il principio responsabilità. Hans Jonas. Einaudi, Torino, 2002.
L'uomo è antiquato. Günther Anders. Bollati Boringhieri, Torino, 2003.
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