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L’usanza della mummificazione in Egitto è probabilmente la conseguenza delle condizioni climatiche e geografiche del Paese. Le mummie più antiche datano alla fine del IV millennio a.C. ed erano ciò che potremmo definire mummie naturali. All’epoca i corpi si seppellivano nel deserto, dove la sabbia calda fungeva da potente agente essiccante che eliminava l’umidità e, pertanto, frenava la putrefazione del corpo. La mummificazione artificiale nacque quando s'iniziò a collocare i cadaveri dentro una bara e in una tomba, perdendo così il contatto con la terra, il che condusse a ideare metodi per ottenere la conservazione dei corpi.

L’uomo di Gebelein. Risalente a 5500 anni fa, questa è una delle mummie naturali più antiche d’Egitto. British Museum, Londra.
Foto: World history archive / Age Fotostock
Questo sforzo era legato alle credenze religiose degli egizi. Secondo loro, l’essere umano era un amalgama di elementi, alcuni materiali – il corpo, l’ombra e il nome – e altri associati allo spirito ultraterreno: il ka o energia cosmica che si riceve alla nascita, l’ankh o respiro vitale e il ba, la personalità o psiche. La morte comportava la separazione di questi elementi, ma era solo momentanea, dato che l’individuo rinasceva nella vita oltretomba riunificando i suoi primi componenti. La mummificazione serviva giustamente per conservare il corpo nel suo sepolcro o «dimora dell’eternità», in modo che il suo ba potesse raggiungerlo e riconoscerlo.
Compito da professionisti
La mummificazione era svolta da professionisti altamente qualificati, gli imbalsamatori. Dato che dovevano compiere una serie di rituali, facevano parte di una classe sociale di sacerdoti e probabilmente avevano una stretta affinità con i medici. Vari papiri ci informano delle figure che partecipavano all’operazione. Uno dei principali era chiamato «signore dei misteri» (hery sesheta), che eseguiva i rituali indossando una maschera di Anubi, dio dell’imbalsamazione. Questa era la divinità che dirigeva il rituale e che trattava la testa del defunto con le proprie mani. Inoltre, c’erano sacerdoti lettori (hery heb) che pronunciavano le istruzioni del rituale e le formule magiche mentre venivano aggiunte le bende. I tagliatori, invece, incaricati di praticare le incisioni nel cadavere ed estrarre le viscere, avevano lo status sociale più basso, a causa dell’impurità associata a tale rituale. A tal proposito, testimonianze di epoca greca affermano che questi tagliatori a volte erano costretti a fug- gire dalla bottega dell’imbalsamazione sotto la pioggia di sassi lanciati contro di loro dai loro compagni.

L’imbalsamatore capo, che indossa una mascara di Anubi per rappresentare il dio protettore dei defunti, impone le sue mani sulla mummia. Tomba di Sennedjem a Deir el-Medina. XIX dinastia.
Foto: Dea / Album
Durante l’Antico e il Medio Regno esisteva un’unica squadra di imbalsamatori reali, incaricati della mummificazione dei membri della famiglia del faraone e dei cortigiani e degli ufficiali a cui il sovrano concedeva questo privilegio. Con la diffusione della mummificazione apparve un gran numero di botteghe indipendenti, sebbene la qualità del loro lavoro fosse variabile – presumibilmente dipendeva dal «budget» dei clienti – e non fosse paragonabile a quella delle botteghe reali.
Riti di purificazione
Gli imbalsamatori svolgevano il loro compito nel corso del lungo periodo che intercorreva tra la morte e la sepoltura, di solito circa settanta giorni, sebbene ci siano riferimenti a casi fino a 274 giorni (tomba di Meresankh a Giza, della IV dinastia). Lo storico greco Erodoto racconta che dopo il lutto il defunto era consegnato agli imbalsamatori, che «mostrano a chi lo ha portato modelli di cadaveri in legno, copiati dal naturale», di vari prezzi. Una volta scelto il tipo di imbalsamazione e il prezzo, la famiglia tornava a casa e iniziava il lavoro dell’imbalsamatore.
La prima fase si svolgeva piuttosto rapidamente, dato che con il clima caldo dell’Egitto la decomposizione non tardava a manifestarsi. Il primo passo era il rituale della purificazione del defunto, che si svolgeva in tre giorni in una struttura temporanea chiamata ibw, dove il corpo veniva lavato. Una volta purificato, il corpo era portato al wabet («luogo puro») o nefer («la casa bella»), dove nell’arco di settanta giorni si realizzava la mummificazione vera e propria.
Secondo Erodoto, gli imbalsamatori iniziavano svuotando la testa del cadavere. Per gli antichi egizi, il cervello non era importante come sede della ragione e del pensiero, e quindi non facevano alcuno sforzo per preservarlo. Secondo lo storico greco, nel cranio vuoto veniva versato un liquido resinoso che raffreddandosi si solidificava. In seguito venivano estratti gli organi interni attraverso un’incisione laterale che, secondo gli studi effettuati, quasi sempre si praticava sul lato sinistro dell’addome.
Il cuore, sede della saggezza, era deliberatamente lasciato al suo posto: le formule 27, 28 e 29 del Libro dei morti esprimono l’importanza di mantenere quest’organo unito al corpo, motivo per cui il defunto si difende da chi vuole asportarglielo: «Non togliermi il cuore, non giudicare le viscere del mio cuore! Che il mio cuore non suscita rimproveri, perché è il mio cuore».

Nel Periodo Tardo le incisioni prodotte sull’addome del cadavere per eviscerarlo venivano poi coperte con una piccola placca in oro. Mummia di Psusennes I. Museo Egizio, Il Cairo.
Foto: Werner Forman / Art Archive
Una fase decisiva nel procedimento di imbalsamazione era l’eliminazione dell’umidità dal corpo, per cui era necessario un agente disidratante che lo essiccasse e che, allo stesso tempo, lo mantenesse flessibile. Il materiale scelto fu il natron allo stato solido, una sostanza naturale di carbonato di sodio che, come la sabbia calda, era un potente essiccante. Il corpo veniva completamente coperto con questo prodotto. Secondo le fonti, doveva rimanere a diretto contatto con questo sale per circa quaranta giorni.
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Un buon bagno di natron
Gli studi dimostrano che il corpo si disidratava sia esteriormente sia internamente. Esistono prove che, dopo l’estrazione delle viscere, la cavità toracica venisse riempita con piccoli sacchi di natron affinché il corpo si seccasse anche all’interno. La quantità di natron impiegata era molto superiore al volume del corpo. Nell’esperimento realizzato con un cadavere umano dagli egittologi Bob Brier e Ronald Wade nel 1994 si è riscontrato che erano necessari 264 chili di natron per coprirlo interamente e poterlo quindi seccare senza margini di errore.
Dopo la disidratazione, affinché il corpo recuperasse la sua elasticità, veniva unto con vari oli e resina liquida, che talvolta contribuivano a prevenire o a ritardare l’attacco degli insetti e a coprire i cattivi odori della decomposizione che potevano essersi prodotti durante la mummificazione. Diodoro Siculo descrive così il procedimento: «Insieme prestano al cadavere cure scrupolose per più di trenta giorni, prima con olio di cedro e altri prodotti, poi con mirra, cannella e prodotti che possono fornire non solo una conservazione prolungata, ma anche un buon profumo».

La mirra si usava per riempire e massaggiare il corpo del defunto. Questo rilievo mostra il trasporto dell’albero della mirra. Tempio funerario di Hatshepsut, a Deir el-Bahari.
Foto: C. Sappa / Dea / Album
L’ultimo viaggio
Il bendaggio della mummia aveva grande importanza religiosa, perciò era stabilito nel dettaglio. Mentre nella maggior parte dei casi i defunti venivano avvolti con li- no ordinario, quelli reali erano rivestiti con speciali tessuti di lino di alta qualità. Gli imbalsamatori impiegavano circa quindici giorni per ultimare il bendaggio, nel quale ogni azione era minuziosamente prescritta e accompagnata dalla specifica formula magica.
Le varie parti del corpo erano avvolte separatamente e alla fine tutto il corpo era coperto in modo uniforme. Il numero di bende utilizzate varia da una mummia all’altra. Molte volte erano proprietà del morto ed erano contrassegnate con il suo nome per distinguerle da quelle appartenenti alla bottega di mummificazione. Il grande costo dei tessuti era la causa principale per cui in molte occasioni il defunto veniva vestito con indumenti e tessuti scartati, che venivano tagliati a strisce. Per fornire una protezione maggiore si inserivano sulla mummia e tra le bende amuleti di vario tipo, oltre a papiri con formule e testi magici.
Una volta terminato il lavoro degli imbalsamatori, avveniva il funerale. Se si trattava di un membro dell’élite, la mummia era coperta con una maschera e posta in una bara che a sua volta veniva inserita in un sarcofago. Una processione formata da familiari, amici e servi accompagnava il sarcofago al sepolcro, la «casa dell’eternità», dove il defunto sarebbe rinato per godere della beatitudine eterna.

Accuratamente bendata, la mummia di Pachery era protetta con amuleti, coperta con una maschera e collocata in una bara inscritta con formule magiche. II-II secolo a.C. Musée du Louvre, Parigi.
Foto: Les frères Chuzeville / RMN-Grand Palais
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