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Quattro anni dopo aver attraversato l’Ellesponto alla testa del suo temibile esercito, Alessandro Magno poteva proclamarsi successore del Gran Re di Persia, Dario III, avendo conquistato il più vasto e potente impero che il mondo avesse mai conosciuto. Era il 330 a.C. Il re achemenide era stato assassinato da Besso, uno dei suoi satrapi, e tutte le grandi capitali persiane erano ormai nelle mani di Alessandro. Due anni dopo, nel 328 a.C., repressa la rivolta capeggiata da Spitamene, satrapo della Sogdiana (antica regione dell’Asia centrale, corrispondente in parte agli odierni Uzbekistan e Tagikistan), nessuna provincia dell’Impero achemenide sfuggiva più al controllo del sovrano macedone.
Si trattava di un territorio immenso, che si estendeva dall’Asia Minore (Anatolia) alla Mesopotamia e all’Indo, compreso tutto il Levante, l’Egitto e il sud del Caucaso. Ma Alessandro non era ancora sazio di conquiste. Oltre la cordigliera dell’Hindukush si dispiegava un Paese sconosciuto per i Greci e avvolto da un’aura leggendaria: l’India.
All’epoca di Dario il Grande la sfera di dominio persiana era giunta a includere il Gandhara (odierno Afghanistan meridionale e Pakistan settentrionale), e parte della valle dell’Indo; tuttavia i Persiani non erano riusciti a imporre un governo stabile in queste terre, e popolazioni indomite quali i Malli e gli Ossidrachi erano sempre rimaste libere e indipendenti. Alessandro si propose di arrivare fin dove si erano spinti i Gran Re achemenidi, inoltrandosi in luoghi che, secondo la tradizione greca, erano stati raggiunti solo da divinità e personaggi mitici quali Dioniso ed Eracle.
La sua marcia pareva inarrestabile: in poche settimane valicò l’Hindukush in direzione sud, poi sottomise le tribù bellicose di queste terre e ne rase al suolo le città, annientando la loro strenua resistenza. Dopo aver oltrepassato l’Indo nel 326 a.C. e aver sconfitto l’imponente esercito di Poro, raja del Paese di Paurava, nella battaglia del fiume Idaspe (l’attuale Jhelum), Alessandro si diresse verso la valle del Gange, desideroso di impossessarsi dell’intera regione indiana. Ma, giunti sulle rive dell’Ifasi (l’odierno Beas), i veterani macedoni, stremati da otto anni di ininterrotte campagne militari, si rifiutarono di proseguire in quella terra pericolosa e inospitale. Alessandro dovette rinunciare alla folle impresa e organizzare la marcia di ritorno, ridiscendendo lungo l’Idaspe e l’Indo fino a giungere all’Oceano Indiano per poi dirigersi verso Babilonia.
Alessandro e il re Poro durante la battaglia dell'Idaspe. Olio su tela del 1673 di Charles Le Brun, Louvre, Parigi
Foto: White images / Scala, Firenze
Alla scoperta di un mondo nuovo
Alessandro non raggiunse, dunque, l’estremo limite dell’Asia, e nemmeno poté tener fede alla promessa di ricchezze fatta ai suoi uomini, ai quali aveva garantito che avrebbero riempito non solo le loro case, ma la Macedonia e la Grecia di pietre preziose, perle, oro, avorio.
Se la spedizione in India del sovrano macedone si risolse in un fallimento politico, essa segnò tuttavia la scoperta di un mondo sconosciuto e misterioso, che per i Greci aveva sempre rappresentato l’estremo Oriente della terra abitata. Tracce dell’avventuroso viaggio di Alessandro sarebbero rimaste nelle cronache e nei resoconti stilati dai dotti che avevano seguito il condottiero.
Nell’immaginario greco, l’India era un Paese dalla straordinaria ricchezza, popolato da esseri meravigliosi e mostruosi. Prima della campagna militare di Alessandro Magno, infatti, le informazioni su questa regione erano scarse e inverosimili. Pochissimi Greci si erano avventurati in quelle zone: soltanto il navigatore Scilace di Carianda, nel VI-V secolo a.C., per incarico di Dario I di Persia, aveva esplorato il fiume Indo fino a giungere all’Oceano Indiano, per poi affrontare le acque del Golfo Persico e del Mar Rosso.
L'incontro di Alessandro Magno con i brahmani. XVIII secolo, British Library, Londra
Foto: Erich Lessing / Album
Anche Ctesia di Cnido, vissuto fra il V e il IV secolo a.C., scrisse una Storia dell’India, basandosi sulle informazioni raccolte da viaggiatori, mercanti e ambasciatori conosciuti durante i diciassette anni che trascorse alla corte persiana, in qualità di medico reale. Le relazioni di Scilace e Ctesia, che presentavano l’India come un territorio favoloso e ricco di prodigi, costituirono senz’altro un forte stimolo alla spedizione di Alessandro.
In India i soldati macedoni si trovarono di fronte a un paesaggio completamente diverso da tutti quelli che avevano conosciuto fino ad allora. Dopo aver attraversato l’impervia catena dell’Hindukush, con le sue nevi perenni e le sue profonde gole, l’esercito di Alessandro si addentrò nella valle dell’Indo. Gli uomini rimasero impressionati dalle ampie dimensioni di questo fiume e dei suoi affluenti e dall’impeto delle sue correnti, oltre che dal rumore assordante provocato dallo scorrere delle acque. Le sue piene spettacolari, paragonabili solo a quelle del Nilo, potevano causare l’isolamento, se non la distruzione, di numerose città. Secondo la tradizione greca, tra gli animali che Alessandro e i suoi soldati dovettero affrontare non mancarono i coccodrilli. Lo stesso condottiero macedone credette di aver trovato le sorgenti del Nilo, notando alcune analogie nella flora e nella fauna di entrambi i fiumi, ma capì di essersi sbagliato quando scoprì che l’Indo sfociava invece in un oceano sconosciuto.
Veduta aerea della provincia di Kunduz, nel nord dell'Afghanistan
Foto: Ton Koene / Age Fotostock
Animali e piante locali
Esemplari di flora e fauna mai visti prima suscitarono stupore e sorpresa tra i Macedoni e nel contempo risvegliarono gli interessi scientifici degli studiosi che viaggiavano al seguito dell’esercito, incaricati da Alessandro di catalogare gli animali e le piante sconosciute.
Gli echi di tali scoperte si avvertono negli scritti botanici di Teofrasto, discepolo di Aristotele, e in altre opere simili, un tempo conservate nella biblioteca di Alessandria, oltre che in composizioni più eterogenee, come le raccolte paradossografiche, un genere letterario costituito da racconti su avvenimenti meravigliosi.
I cronisti greci raccontavano di aver visto alberi con tronchi così grossi che neanche cinque uomini sarebbero riusciti ad abbracciarli; testimoniavano poi l’esistenza di un albero dalla chioma talmente ampia e folta da poter offrire ombra fino a quattrocento cavalieri. Si trattava probabilmente del baniano, un albero sempreverde, sacro in India, che può raggiungere dimensioni eccezionali.
Alessandro Magno apprende della morte del gimnosofista indiano Calano. Jean-Baptiste de Champagne, XVII secolo, Versailles
Foto. Daniel Arnaudet / RMN
Secondo i resoconti di viaggio, alcuni alberi producevano frutti enormi e abbondanti, dolci come il miele, contenuti in baccelli di circa venticinque centimetri di lunghezza. È forse la descrizione delle banane, che lo stesso Alessandro Magno assaggiò. Si narra inoltre di alberi dalle foglie molto larghe, le cui dimensioni non erano inferiori a quelle di uno scudo.
Le truppe del condottiero macedone si imbatterono in piante sconosciute e dai colori vivaci. Ce n’erano di velenose, ma altre, come l’aloe, possedevano proprietà terapeutiche, di cui gli esperti erboristi che Alessandro aveva portato con sé seppero prontamente approfittare; essi sarebbero ritornati in patria con un notevole patrimonio di informazioni relative alle erbe medicinali asiatiche. Queste furono impiegate per curare chi si ammalava a causa del clima avverso, caratterizzato da piogge incessanti, o come antidoto per i morsi di serpente e le punture di insetto. Parte di tale sapere si sarebbe poi conservato in poemi didascalici quali gli Antidoti di Nicandro di Colofone, del II secolo a.C., sui veleni e i loro antidoti.
Alessandro Magno portò con sé in India degli esperti erboristi che scoprirono le proprietà delle piante medicinali dell'Asia
Anche la ricchissima e variegata fauna indiana destò grande meraviglia tra i soldati greci e macedoni, che non avevano mai visto prima animali come tigri, pappagalli o rinoceronti. Essi si trovarono di fronte a numerose varietà di scimmie, alcune di dimensioni così grandi e massicce da essere scambiate per uomini.
Alessandro e i mostri dell'India, miniatura. XIV secolo, Musée Condé, Chantilly
Foto. Bridgeman / Index
Elefanti e serpenti
Tuttavia, gli animali che più impressionarono gli invasori furono gli elefanti, soprattutto per il loro impiego in guerra. Alessandro li aveva incontrati per la prima volta nella battaglia di Gaugamela (331 a.C.), che aveva segnato la sconfitta decisiva degli Achemenidi, ma si trattava allora di un numero esiguo di esemplari.
Al contrario, il re Poro nella battaglia del fiume Idaspe (326 a.C.) schierò in prima linea duecento elefanti, che avevano l’aspetto di vere e proprie torri e schiacciarono molti soldati nemici. Lo storico greco Plutarco, nella sua Vita di Alessandro, narra lo speciale legame tra il re Poro e il suo elefante, il quale, accortosi che il suo padrone era in difficoltà, «con la proboscide, dolcemente, prese i giavellotti che lo avevano colpito, a uno a uno, e glieli estrasse dal corpo».
Gli elefanti divennero dunque un prezioso bottino di guerra o un dono offerto al conquistatore macedone – e da questi particolarmente apprezzato – dai vari monarchi indiani che dovettero sottomettersi a lui durante la sua inarrestabile avanzata.
Moneta d'argento del 323 a.C., in cui Alessandro a cavallo si scaglia contro un elefante in battaglia contro re Poro. British Museum, Londra
Foto: British Museum / Scala, Firenze
Conosciamo l’ingegnoso metodo usato dagli Indiani per catturare gli elefanti grazie a Flavio Arriano, storico greco del II secolo d.C., che attinse ai resoconti degli uomini di Alessandro: essi scavavano una fossa e vi attiravano gli animali servendosi di alcune femmine in calore; poi, una volta intrappolati gli elefanti selvatici, lasciavano che fossero sfiniti dalla fame e vinti dalla sete, fino a renderli docili e addomesticati.
La marcia dell’esercito di Alessandro fu inoltre ostacolata dalla presenza di innumerevoli serpenti di grossa taglia. Come rende noto lo storico greco Diodoro Siculo (I secolo a.C.): «Se accadeva di essere morsi venivano dolori orrendi, e un sudore di sangue per tutto il corpo. Con grande difficoltà potevano i Macedoni salvarsi da quella peste; ed erano obbligati ad attaccare ai rami degli alberi i giacigli, e passarvi senza dormire la più parte della notte». Del resto, anche gli animali più familiari riservavano sorprese. Secondo il racconto di Diodoro Siculo, i feroci cani addestrati dal re indiano Sopeithes erano in grado di fronteggiare un leone e non avrebbero lasciato la presa nemmeno se fosse stata loro tagliata lentamente una delle zampe.
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Abitudini e religione
Le regioni attraversate dai Macedoni erano molto popolose, punteggiate da numerose città e villaggi. Per il geografo greco Strabone, tra i fiumi Ipani, nella Scizia, e Idaspe, affluente dell’Indo, vi erano cinquemila città, e le loro dimensioni in genere erano di gran lunga superiori a quelle delle polis greche, come nel caso di Tassila o Sangala, nell’odierno Pakistan. Si trattava spesso di roccaforti difese da combattenti esperti, muniti di lunghi archi e temibili carri da guerra; i loro re solevano apparire ornati di pietre preziose e accompagnati da sontuosi cortei.
Gli usi e i costumi orientali erano considerati particolarmente strani e stravaganti dai Greci, a partire dall’abbigliamento. Nel diario dell’ammiraglio di Alessandro, Nearco, trascritto da Arriano, gli Indiani erano descritti come gente ossuta, più alta e più smilza degli altri uomini. Nearco aggiungeva: «I ricchi portano orecchini d’avorio e si tingono la barba, alcuni di un bianco abbacinante, altri di blu scuro, rosso o porpora e persino verde».
A colpire erano anche la longevità, la frugalità e la buona salute che caratterizzavano gli abitanti di alcune regioni dell’India. Tra queste vi era il regno di Musicano, nel sud del continente. Lo storico e filosofo greco Onesicrito di Astipalea, nocchiero della nave reale, che come Nearco pubblicò le sue memorie del viaggio, ne diede una descrizione utopica, presentandola come una terra di favolosa ricchezza, dove gli uomini godevano di una condizione di vita ideale.
Monumento buddista del III secolo a.C. vicino a Tassila, in Pakistan
Foto: Nadeem Kawar / Getty Images
Eppure, nonostante l’enorme distanza culturale tra il mondo indiano e quello ellenico, Greci e Macedoni ravvisarono alcune analogie, soprattutto in campo religioso. Circolava infatti la credenza che Dioniso avesse fondato in India una città, Nisa, ai piedi del monte Meros; quest’ultimo termine in greco significa “coscia” e, secondo la tradizione mitologica, proprio da una coscia di Zeus era nato il dio del vino e della liberazione dei sensi.
Prova della fondazione di Dioniso, a detta di Arriano, era l’edera, pianta sacra alla divinità, che non cresceva in altri luoghi dell’India. Alessandro concesse agli abitanti di Nisa libertà e autonomia e volle visitare i luoghi che nella regione recavano tracce di Dioniso. Salì dunque sul monte Meros e «vide che era pieno di edera e di alloro e di boschi di ogni genere».
Se gli indigeni accolsero con favore il culto straniero, che garantiva loro un trattamento benevolo da parte degli invasori, Alessandro intendeva assimilarsi a Dioniso, che nella tradizione greca era il conquistatore dell’Oriente (come Eracle lo era dell’Occidente).
Dioniso rappresentato con l'edera tra i capelli e una coppa in mano
Foto: Pubblico dominio
La leggendaria spedizione di Alessandro Magno ampliò i confini del mondo conosciuto e cambiò la storia e la geografia dell’Asia: innanzitutto il Macedone si rese conto delle enormi dimensioni del continente, che si estendeva ben oltre quanto ipotizzato in precedenza dai Greci (in realtà quello che gli antichi chiamavano India corrispondeva solo al nord della Penisola, l’odierno Punjab). Tutte le nuove conoscenze confluirono nella carta della Terra disegnata dallo scienziato greco Eratostene nel III secolo a.C., in cui i confini dell’ecumene si allargarono fino all’India e all’Etiopia.
In ogni caso l’India avrebbe conservato quasi intatto l’alone di mistero che l’avvolgeva, e le leggende su quel Paese meraviglioso ai confini del mondo avrebbero alimentato l’immaginario occidentale ancora per secoli.
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