Pericle, lo stratego che spinse Atene alla guerra

Nel 431 a.C., forte del suo carisma e dell’autorità di cui godeva nella polis, lo statista persuase gli ateniesi a dichiarare guerra a Sparta: ne scaturì il conflitto più devastante per la Grecia, la guerra del Peloponneso

La città di Megara, nella regione della Grecia orientale compresa tra l’istmo di Corinto, l’Attica e la Beozia, in età arcaica era stata una delle più fiorenti metropoli colonizzatrici, ma alla metà del V secolo a.C. la sua potenza languiva di fronte alla straordinaria prosperità della vicina Atene, che andava forgiando un vero e proprio impero navale e commerciale nell’Egeo. I rapporti tra le due poleis erano segnati da una profonda rivalità, risalente agli inizi del VI secolo a.C., quando Atene e Megara si erano contese il possesso dell’isola di Salamina.

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Busto in marmo di Pericle. Copia di un originale greco del 430 a.C. British Museum

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Foto: Bpk, Scala

Tuttavia nel 432 a.C. si giunse a uno scontro aperto. I megaresi, infatti, si schierarono a favore dei corinzi, quando questi vennero in conflitto con Atene per il controllo di Corcira (l’odierna Corfù) e Potidea, entrambe colonie di Corinto. Gli ateniesi reagirono imponendo un embargo all’antica avversaria e la esclusero da tutti i porti e i mercati del loro impero marittimo. Si trattava di un colpo durissimo per Megara, che viveva di commercio.

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Ma le conseguenze di tale disposizione andavano ben oltre. Il decreto contro Megara rappresentava infatti un’ennesima sfida diretta a Sparta, potente alleata della città. Così, nell’estate del 432 a.C., megaresi e corinzi mandarono un’ambasciata a Sparta con le loro accuse contro Atene durante l’assemblea della Lega peloponnesiaca. Sia gli uni sia gli altri invocarono la protezione dei lacedemoni, esortandoli a proclamare guerra contro la loro eterna rivale. Tucidide, nel suo La guerra del Peloponneso, riferisce il discorso dei corinzi: «Ora venite in soccorso degli altri, e soprattutto dei potideati, come avete promesso, invadendo l’Attica, affinché non abbandoniate uomini che sono vostri amici e consanguinei ai peggiori nemici, e non spingiate noi, gli altri popoli, nella disperazione a qualche altra alleanza».

A Sparta era arrivata nel frattempo una delegazione ateniese che prese parte al dibattito; pur senza difendersi dalle recriminazioni rivolte contro di loro, gli ateniesi si mostrarono disposti a rimettersi a un arbitrato, ma non nascosero di essere pronti allo scontro. Dopo essersi ritirati per deliberare, gli spartani annunciarono la loro decisione: dichiarare guerra ad Atene. A tale risoluzione giunsero non tanto perché persuasi dai discorsi dei loro alleati, quanto perché desiderosi di arginare la crescente potenza della polis attica, che aveva ormai assoggettato la gran parte della Grecia.

Il nucleo centrale del vasto programma edilizio di Pericle fu la ricostruzione dell’acropoli di Atene, distrutta dai Persiani nel 480 a.C.

Il nucleo centrale del vasto programma edilizio di Pericle fu la ricostruzione dell’acropoli di Atene, distrutta dai Persiani nel 480 a.C.

Foto: Günter Gräfenhain / Fototeca 9X12

Tuttavia, il re spartano Archidamo invitò alla prudenza e nei mesi successivi i lacedemoni inviarono ad Atene tre ambasciate per negoziare un accordo di pace, ponendo come condizione che l’editto contro Megara fosse revocato. L’offerta era allettante, poiché molti ateniesi erano contrari all’avvio delle ostilità. Dunque, secondo Plutarco, quando l’Ecclesia – l’assemblea generale del popolo ateniese – si riunì per decidere della guerra o della pace, si manifestarono opinioni «nell’uno e nell’altro senso: che era necessario entrare in guerra, o che il decreto non dovesse essere un ostacolo alla pace»; finché Pericle non prese la parola e pronunciò un lungo discorso con cui persuase i suoi concittadini che l’unica risoluzione possibile era la guerra.

In teoria, Pericle era solo uno degli aventi diritto al voto, la cui opinione contava in un suffragio tanto quanto quella di qualsiasi altro cittadino. In realtà, la sua posizione ad Atene era unica. Da quasi tre decenni egli dominava infatti il panorama politico della polis, fondando il proprio potere sulla annuale libera rielezione nel consiglio degli strateghi (un collegio di dieci membri eletti dal popolo le cui funzioni fondamentali consistevano nel comando dell’esercito e della flotta). Poiché nell’Ecclesia Pericle si imponeva per il suo acume, l’integrità, il carisma e le doti oratorie, Tucidide poteva a buon diritto affermare che Atene «era di nome una democrazia, di fatto il governo del primo cittadino».

Secondo Tucidide, con Pericle «si avverava ad Atene una democrazia di nome, ma di fatto il governo del primo cittadino»

Le ragioni di Pericle

Le fonti storiche dell’epoca non dubitavano che Pericle fosse il responsabile della decisione di non annullare il decreto contro Megara e, dunque, di aver scatenato la guerra del Peloponneso. Successivamente, però, altri storici hanno offerto interpretazioni differenti. Plutarco (vissuto cinque secoli dopo), nella sua Vita di Pericle, riporta diverse opinioni.

Busto di Tucidide. Museo archeologico nazionale, Napoli

Busto di Tucidide. Museo archeologico nazionale, Napoli

Foto: Oronoz / Album

Secondo alcuni egli era convinto che i lacedemoni intendessero solo mettere alla prova gli ateniesi, «per vedere fino a che punto avrebbero ceduto alle loro richieste», e che condiscendere alle loro pretese equivalesse a un’ammissione di debolezza. Per altri, invece, ad animare l’uomo politico era solo il desiderio di mantenere il proprio prestigio personale. Le sue decisioni erano mosse, in definitiva, da «grandezza d’animo unita a buon senno», a detta dei suoi sostenitori, e «da una certa arroganza e pertinacia», secondo gli avversari. Plutarco, peraltro, non tralascia l’ipotesi secondo cui lo statista avrebbe istigato la guerra per «la peggiore e la più disonesta ragione», ossia per sottrarsi alla minaccia dell’impopolarità che incombeva su di lui.

In effetti, benché Pericle fosse amato dalla gran parte del popolo ateniese, non mancavano dei gruppi politici a lui ostili. Si trattava degli stessi che avevano riprovato, seppur invano, il suo ambizioso programma di opere pubbliche; l’aristocrazia, in particolare, molto vicina all’ideologia oligarchica promossa dagli spartani e, dunque, contraria alla guerra, lo accusava di aver corrotto il popolo con i biglietti d’ingresso agli spettacoli teatrali e i salari accordati alle cariche pubbliche. I nemici di Pericle d’altronde non lesinarono allo stratego e ai suoi più stretti collaboratori continui attacchi e campagne diffamatorie.

Lo scultore Fidia, il principale artefice del progetto di rinnovamento urbanistico di Pericle, venne accusato di malversazione di fondi pubblici nella costruzione del Partenone, e ancora più violenta fu l’offensiva lanciata contro Aspasia. La celebre cortigiana di Mileto e amante di Pericle fu tacciata pubblicamente di empietà e prossenetismo, cioè di essere immorale oltre che ruffiana. Naturalmente il vero bersaglio di tali processi era Pericle, così vi fu chi ritenne probabile che egli avesse esortato gli ateniesi alla guerra per sfuggire agli strali dei suoi detrattori e riacquistare il consenso popolare. Come scrisse Plutarco, egli «ravvivò la fiamma dell’imminente guerra, sperando così di dissipare le accuse e umiliare l’invidia, mentre in così grandi affari e in sì grandi pericoli, a lui solo sarebbe la città ricorsa, e a lui unicamente si sarebbe affidata in virtù del suo prestigio e della sua autorità».

I nemici di Pericle, per colpirlo indirettamente, accusarono la sua amante di empietà. Marie- Geneviève Bouliard. 1794, Museo delle Belle Arti, Arras

I nemici di Pericle, per colpirlo indirettamente, accusarono la sua amante di empietà. Marie- Geneviève Bouliard. 1794, Museo delle Belle Arti, Arras

Foto: Photoaisa

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Una guerra inevitabile

In ogni caso, nonostante le crescenti tensioni diplomatiche tra Atene e Sparta, fu infine Tebe a dare avvio al conflitto. Nel marzo del 431 a.C. la città beota, alleata di Sparta, approfittò del momento di confusione per attaccare la filoateniese Platea, situata in posizione strategica nella Beozia, ai confini con l’Attica. Un’avanguardia tebana di trecento uomini assalì la città, ma fu respinta dai plateesi. Degli aggressori, 180 vennero catturati e massacrati senza pietà. Tale episodio lasciava presagire quanto cruento sarebbe stato il conflitto che si apprestava a scoppiare.

Da qui ebbe origine la spirale della guerra poiché, quando i tebani si mostrarono pronti alla vendetta, Atene si vide obbligata a inviare una guarnigione a Platea per proteggerla. Nel contempo gli spartani interpretarono la risoluzione ateniese come una interruzione dei negoziati, cosicché invasero l’Attica nella primavera del 431 a.C.

Pericle aveva preparato i suoi compatrioti a tale evenienza. Saggiamente lo stratego scelse di non sfidare gli spartani in campo aperto, dove le forze lacedemoni avrebbero prevalso; preferì invece far ritirare la popolazione dell’Attica entro le ciclopiche fortificazioni di Atene, le cosiddette Lunghe mura, che oltre a cingere la città ne garantivano l’approvvigionamento, collegandola con il porto del Pireo. Le sorti dello scontro, secondo Pericle, sarebbero state decise dalla potenza della flotta ateniese e dalle ingenti risorse finanziarie della città. Confidando in tale strategia, gli ateniesi rimasero al riparo dalle devastazioni perpetrate nell’Attica dall’esercito di Archidamo, mentre la loro flotta rispondeva con incursioni lungo le coste del Peloponneso. Così, alla fine dell’estate, quando le armate spartane si furono ritirate, Pericle scese in campo con 10mila opliti per invadere la regione di Megara.

Il tipo di elmo più diffuso era quello corinzio, parte essenziale dell’equipaggiamento delle falangi oplitiche che si scontrarono nella guerra del Peloponneso

Il tipo di elmo più diffuso era quello corinzio, parte essenziale dell’equipaggiamento delle falangi oplitiche che si scontrarono nella guerra del Peloponneso

Foto: Nimatallah / AKG / Album

Ad Atene però non tardarono a sorgere nuovi malumori. Il saccheggio dell’Attica, infatti, colpiva fortemente un gran numero di ateniesi, piccoli proprietari agricoli; in più, l’affollamento in città stava diventando insostenibile. In aggiunta, l’anno seguente, tra la popolazione assiepata in condizioni durissime all’interno delle mura, scoppiò la peste.

Colpevole di tutti i mali

Gli ateniesi, ridotti allo stremo, incolparono Pericle per averli trascinati in un conflitto dalle conseguenze tanto nefaste e lo additarono come l’unico responsabile; lo ritennero colpevole persino della pestilenza, poiché la sua strategia aveva costretto gli abitanti dell’Attica a rinchiudersi entro le mura di Atene, favorendo l’epidemia. Si tentò allora di scendere a patti con Sparta, ma tutto fu vano poiché i lacedemoni erano ormai certi della vittoria.

Di fronte alla disperazione dei connazionali, Pericle li convocò in assemblea e li biasimò duramente, accusandoli di non pensare alla salvezza comune e di porre il benessere dell’individuo al di sopra di quello della polis. Non riuscì però a placare il malcontento e nel settembre del 430 a.C. lo stratego fu deposto dalla sua carica e condannato per malversazione a pagare un’ingente multa.

Guardiano spartano in bronzo

Guardiano spartano in bronzo

Foto: Bridgeman / Index

Riconquistato poi il capriccioso favore del popolo, l’anno successivo Pericle fu nuovamente eletto stratego, ma dopo pochi mesi morì, vittima della peste che continuava ad affliggere Atene. Alla sua città lasciò la pesante eredità di una guerra lunga e distruttiva, «senza dubbio l’evento che sconvolse più a fondo la Grecia», secondo le parole di Tucidide.

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Per saperne di più

La guerra del Peloponneso. Tucidide, a cura di E. Savino, Garzanti Libri, Milano, 2007
Vite parallele. Pericle e Fabio Massimo. Plutarco, BUR Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 1991
Sparta e Atene. Il racconto di una guerra. Sergio Valzania, Sellerio Editore, Palermo, 2017

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