A Cinisi è un venerdì sera qualunque. È la primavera del 1978, con l’imbrunire le strade si sono svuotate e le famiglie si sono ritirate nelle rispettive case, dove la radio gracchia a volume sommesso. Al microfono, dall’altro lato dell’apparecchio, c’è un ragazzo di trent’anni. Ha lo sguardo acuto, le spalle strette, i capelli spettinati e una voce che graffia l’etere con un’ironia tagliente, sferzando duri attacchi agli “uomini d’onore” che in Sicilia detengono il potere per mano della criminalità organizzata.
Si chiama Giuseppe Impastato, ma tutti, da sempre, lo chiamano Peppino. È figlio di Luigi, un uomo di Cosa Nostra, un legame che il giovane rinnega con i fatti e con le parole. Le sceglie con cura, quando in diretta radiofonica infrange l’omertà che soffoca la cittadina sicula, denunciando abusi e storture. Poche settimane prima ha scelto di candidarsi alle elezioni municipali per diventare consigliere comunale. Vuole cambiare le cose con la politica, con la sua radio e con la forza della legalità. Il suo è un cammino in direzione ostinata e contraria, distante solo cento passi dalla casa dell’uomo che lo farà uccidere per tappargli la bocca, senza riuscire a cancellare il suo nome, oggi simbolo della lotta all’illegalità.
Peppino Impastato nel 1977
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Contro la "famiglia"
Peppino Impastato nasce a Cinisi il 5 gennaio 1948. Il padre proviene da una famiglia di agricoltori, che da sempre ha dovuto fare i conti con la malavita locale offrendo favori per assicurarsi tranquillità. Durante il fascismo Luigi ha trascorso tre anni di confino a Ustica con l’accusa di attività mafiose, ma una volta tornato a casa ha proseguito dedicandosi al contrabbando di generi alimentari. Peppino cresce con il fratello Giovanni in un ambiente protetto dal clan, ma è da subito testimone della violenza che caratterizza il mondo della criminalità organizzata.
Nel 1963 lo zio materno Cesare Manzella, ex capomafia, muore in un’esplosione a bordo della propria auto, probabilmente l’estremo attacco di una faida. Peppino ha solo quindici anni, ma il fatto muove in lui la decisione di prendere una direzione opposta a quella seguita dalla famiglia. Rompe i rapporti con il padre, che lo caccia di casa. Mantiene il contatto con mamma Felicia, che inutilmente cerca di dissuaderlo dall’intensa attività politico-culturale avviata in quegli anni.
Luigi Impastato e Felicia Bartolotta con il primogenito Peppino
Foto: Pubblico dominio
L'onda pazza
Nel 1965 Peppino fonda il giornalino L'Idea socialista e aderisce al Partito socialista italiano di Unità proletaria, cui segue la militanza nei gruppi di Nuova sinistra e l’impegno concreto nella lotta all’esproprio delle terre per costruire la terza pista dell’aeroporto di Palermo. Nel 1975 forma il gruppo Musica e cultura, che organizza cineforum, eventi musicali e dibattiti. Due anni più tardi a Terrasini fonda Radio Aut, gestita con gli amici Andrea Bartollotta, Carlo Bommarito e Faro Di Maggio. Aut sta per autonoma, indipendente e autofinanziata, libera di denunciare gli affari illeciti che in quel territorio trovano terreno fertile.
Ogni venerdì sera sulla frequenza 98.000 Mhz va in onda Onda Pazza, trasmissione satiro-schizo-politica che diventa in breve tempo un vero e proprio radiogiornale di controinformazione. Racconta cosa accade in consiglio comunale e nelle stanze del potere. Fa nomi e cognomi trasformando in satira gli affari di «Tano Seduto», capo tribù di quella «cretina commedia» che ricalca la drammatica realtà in cui la sua terra è invischiata. Cinisi diventa Mafiopoli e il municipio è il «maficìpio», dove il grande capo Tano Seduto (soprannome affibbiato al boss Gaetano Badalamenti, detto Zu Tano) gestisce traffici di droga e appalti con il silenzio assenso delle istituzioni locali.
Gaetano Badalamenti, condannato all'ergastolo nel 2002 per aver fatto uccidere Peppino Impastato
Foto: Guida Sicilia, Fair use, https://rb.gy/dgxoq
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Strappare le radici
«Pazzi. Incoscienti. Vi farete uccidere». Sono le frasi più ripetute da chi a mezza voce commenta l’iniziativa dei giovani sostenitori del progetto. Un sussurro che dietro le finestre chiuse della silenziosa Cinisi trova via via ascolto e consenso. «Immaginavo che me lo ammazzavano. E glielo dicevo, Peppino, tu non lo puoi fare. Tu lo sai a che famiglia appartieni. Ma lui non sopportava l’ingiustizia». Così Mamma Felicia racconterà a distanza di anni l’impegno di quel figlio così distante dalla strada di casa e così difficile da proteggere. È il tempo degli attentati della Prima repubblica, scie di sangue che collegano le maglie della criminalità organizzata e s’intrecciano laddove cadono le vittime, colpevoli di aver ostacolato il sistema.
Nel 1977 Luigi Impastato, il padre di Peppino, muore investito da un’auto. Non ci sono prove, ma il sospetto di un attentato a stampo mafioso è forte. Al funerale Peppino si rifiuta di stringere la mano a Badalamenti e ai suoi uomini, venuti a porgere ossequi alla famiglia. La sua presa di posizione non passa inosservata. La madre prende accordi per mandarlo in California da un parente, ma Peppino non vuole partire: ha deciso di candidarsi alle elezioni municipali nella lista di Democrazia Proletaria, vuole diventare consigliere. La mafia ha cambiato abito, passando dalla lupara alla camicia bianca: ora si muove attraverso le istituzioni, condiziona gli appalti, costruisce una rete di favori difficile da estirpare. L’unico modo è combatterla dall’interno, e Peppino lo sa.
«Assassinato dalla mafia»
La notte tra il 9 maggio 1978, sei giorni prima delle elezioni amministrative, Peppino Impastato viene picchiato a morte e fatto saltare in aria con sei chili di tritolo. I suoi resti dilaniati dall’esplosione vengono ritrovati lungo un tratto della ferrovia che collega Palermo a Trapani. L’agghiacciante notizia viene oscurata da un’altra morte illustre, quella di Aldo Moro, ex premier e deputato della Democrazia Cristiana. Gli inquirenti liquidano la morte di Peppino con un’ipotesi di “atto terroristico” ordito dalla stessa vittima e finito male. Oppure si tratta di un suicidio? Quest'ultima ipotesi è corroborata dal ritrovamento di una lettera che annuncerebbe il desiderio del giovane di farla finita: «Purtroppo debbo riconoscere d'aver dato la mia sensibilità in pasto ai cani. Ho cercato con tutte le forze che mi restavano in corpo di riprendere quota, incoraggiato anche dalla fiducia e dall'affetto di alcuni compagni (vecchi e nuovi): non ce l'ho fatta, bisogna prenderne atto. Il mio sistema nervoso è prossimo al collasso e, sinceramente, non vorrei finire i miei giorni in qualche casa di cura. Ho bisogno, tanto bisogno di starmene un po' solo, riposarmi, curarmi. Spero di riuscirci. Il parto non è stato indolore, ma la decisione è ormai presa. Proclamo pubblicamente il mio fallimento come uomo e come rivoluzionario. Addio, Giuseppe».
Nonostante però presto si sia appurato che non si è trattato di suicidio, iniziano a scomparire documenti e ad apparire prove false, si dimentica di cercare testimoni chiave e s'ignorano i luoghi reali dell'omicidio. Sul delitto, insomma, cala ancora una volta il velo dell’omertà. Sui muri di Cinisi e Palermo, però, compaiono manifesti che gridano a lettere cubitali una verità tanto evidente quanto silenziosa: «Peppino Impastato è stato assassinato dalla mafia».
La rivoluzione
Al suo funerale partecipano circa mille persone. Sulla sua tomba si legge «Rivoluzionario e militante comunista, assassinato dalla mafia democristiana». Il 14 maggio 1978 il suo nome viene ripetuto 260 volte, una per ogni voto ricevuto: Peppino viene eletto in consiglio comunale, con il sei per cento delle referenze. In consiglio comunale il suo seggio rimane vuoto, un’assenza che continua fare rumore e scuotere le coscienze della piccola Cinisi, con un’eco ben più ampia. E il 16 maggio 1978 avviene la vera rivoluzione: la madre Felicia e il fratello Giovanni presentano alla procura un esposto per chiedere che vengano svolte indagini sull'omicidio di Peppino, ucciso per mano mafiosa. Un atto di coraggio e di orgoglio, di amore per quello che Peppino Impastato era stato in vita, e che non ha mai smesso di essere nemmeno da morto: la spinta all'azione, a provare a fare in modo che le cose cambino.
Ci vorranno sedici anni prima che questa battaglia legale trovi un barlume di giustizia nella sentenza firmata dal magistrato Rocco Chinnici, che dichiara la morte di Impastato omicidio e la imputa a «ignoti mafiosi». La lunga vicenda giudiziaria si chiuderà solo l’11 aprile 2002 con l’ergastolo per Tano Badalmenti, mandante mai pentito. Il boss morirà in carcere, senza essere riuscito a fermare l’"onda pazza" di quel giovane siciliano che gridava l’unica verità: «La mafia è una montagna di merda».
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