Pellagra, il male che portava alla pazzia

Dovuto a una carenza vitaminica causata da un’alimentazione quasi esclusivamente a base di mais, l’insorgere della pellagra fu ricondotto per decenni al consumo eccessivo di mais guasto da parte delle popolazioni contadine di Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna

«Venanzio dammi un portogallo! Un portogallo». «Mia nonna è morta così: con la voglia di un’arancia, il portogallo è l’arancia. Lei non l’aveva mai mangiata. Aveva visto un bambino tanti anni prima, figlio di signori, che sbucciava un’arancia e se la mangiava fettina a fettina. Ci aveva pensato trent’anni e solo morendo aveva trovato il coraggio di chiederne una». Una scena del film La neve nel bicchiere (Rai, 1984) di Florestano Vancini, ambientato nella “bassa” padana ferrarese agli inizi del novecento, ripercorre gli ultimi istanti di vita di una bracciante morta in preda ai deliri causati dalla pellagra. «Purtroppo la pellagra fa andar via la testa» esclama al capezzale della donna l’impotente don Angelo un attimo prima d’impartirle l’estrema unzione. Infatti se «per la malaria c’è il chinino, per la pellagra non c’è niente. Dicono che viene a mangiare troppa polenta, lei ha mangiato solo quella per tutta la vita».

La «orrida Iddia»

Della pellagra – malattia causata da carenza alimentare di acido nicotinico (o vitamina PP) e di triptofano, e in particolare dovuta a un’alimentazione basata sul mais, mangiato prevalentemente in forma di polenta scondita e cotta male – oggi non si parla quasi più, ma c’è stato un tempo tra Ottocento e Novecento in cui la «orrida Iddia, la pellagra con occhi di pazzia» falcidiava il nord Italia. A essere colpito era soprattutto il “triangolo” formato da Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna, ma anche Piemonte, Trentino, Friuli, Marche, Umbria e parti di Toscana, Abruzzo e Lazio risentirono del morbo. Nel solo Veneto nel 1881 si contavano oltre 55mila pellagrosi su poco più di un milione di individui dediti all’agricoltura.

Nel dialogo intitolato "La Pellagra e la Libertà", pubblicato nel 1885 dal giornale popolare e satirico Il Pellagroso, la malattia è descritta con fattezze umane. È comodamente assisa nel bel mezzo di una piazza sopra un sacco di granturco, intenta a divorare avidamente enormi fette di polenta: «La sua faccia è quello che si può dire di orrendo, gli occhi prospicienti e senza moto, denti lunghissimi, collo lungo, capelli scarmigliati, colore giallognolo, figura sparuta, vesti cenciose, mani lunghe, magre, scrostate, il tutto mette ribrezzo». La Libertà con le ali dorate e la spada in mano le chiede: «Di che Paese sei?». Pellagra risponde: «Il mio Paese è dove c’è molto oro, molta ignoranza e tanta miseria».

Fotografia di un uomo affetto da pellagra

Fotografia di un uomo affetto da pellagra

Foto: Pubblico dominio

Monofagismo e pazzia

Individuata, riconosciuta e descritta in Italia già alla fine del Settecento, la pellagra conobbe il suo picco di diffusione nella seconda metà del secolo successivo. Da allora si attenuò a mano a mano fino a scomparire quasi del tutto negli anni venti del Novecento. Era dovuta al cosiddetto “monofagismo maidico” da parte delle classi rurali povere. A spiegarne il significato è lo storico Alberto De Bernardi secondo cui il granturco divenne a un certo punto «l’unica, reale forma di remunerazione del lavoro contadino o, in ogni caso, pressoché l’unico prodotto alimentare cui i lavoratori della terra potevano accedere, in virtù dei loro modestissimi livelli di reddito».

Il nome “pellagra” era dovuto ai principali sintomi attraverso cui il morbo si manifestava: pelle ruvida, desquamata e piena di macchie rossastre. Per via di tali eruzioni cutanee in Spagna, dove probabilmente venne identificata per la prima volta, la pellagra era nota come mal de la rosa. In Italia era più semplicemente la “malattia delle tre D”: dermatite, diarrea e demenza. I primi eritemi comparivano sulle parti del corpo esposte al sole estivo, cui facevano seguito lesioni bollose, ulcere e cicatrici. Disturbi e infiammazioni interessavano lingua, gengive, faringe, stomaco e intestino. Tutto era accompagnato da dolore durante la deglutizione, vomito e diarrea. C’era poi quella che lo storico della medicina Franco Lupano definisce «compromissione della sfera psichica, caratterizzata da ipereccitabilità, manifestazioni neurasteniche e melanconiche, con quadri depressivi anche assai gravi che possono portare al suicidio».

Lo stato di demenza conclamata con allucinazioni e deliri portava i pellagrosi al ricovero in manicomio. Il medico mantovano Achille Sacchi nel 1878 descrisse con dovizia di particolari lo stato del pellagroso e l’ultima fase in cui «si manifesta la pazzia, che può prorompere subitanea e vestire tutte le forme, dal gaio e loquace esaltamento maniaco alla più cupa e feroce lipemania con tendenza al suicidio, all’incendio, all’omicidio». All’inizio dell’Ottocento un tale Mattio Lovat, pellagroso ricoverato nel manicomio di San Servolo a Venezia, fu preso da un delirio di natura religiosa che lo portò prima a evirarsi e poi a inchiodarsi a una croce in una calle di Venezia.

Pellagrosi di Mogliano Veneto (Treviso) tra fine Ottocento e inizio Novecento

Pellagrosi di Mogliano Veneto (Treviso) tra fine Ottocento e inizio Novecento

Foto: Museo Lombroso di Torino, https://www.museolombroso.unito.it

Due teorie

Mentre i contadini si spegnevano tra indicibili patimenti nell’impotenza dei medici condotti, il dibattito tra i vari studiosi in merito alle cause della pellagra e ai possibili rimedi si fece man mano più acceso, specie nell’ultimo trentennio dell’Ottocento, cioè nel momento di maggiore diffusione della malattia. Già dalla fine del Settecento si sapeva che la pellagra era riconducibile al binomio mais-miseria: il fiorire del morbo s’imputava cioè non solo alle misere condizioni di vita, ma anche al cattivo stato di conservazione del mais. Nel 1847, al nono congresso scientifico italiano, una Commissione per lo studio della pellagra stabiliva che «debbonsi adottare misure […] perché la coltura dei campi sia distribuita in modo che lo scarso vitto contadinesco non sia tratto da un solo cereale».

Tre decenni più tardi medici e studiosi si dividevano su due linee di pensiero riguardo alle cause della pellagra. La prima, che faceva capo al fisiologo Filippo Lussana (1820-1897), era detta “carenziale”: il mais aveva cioè un basso potere nutritivo e, consumato da solo e per periodi prolungati, portava alla denutrizione e al deperimento fino alla morte. La seconda teoria, detta “tossicozeista”, vedeva l’origine della pellagra nella scarsa qualità del mais, deteriorato o ammuffito a causa di una cattiva conservazione, o che vedeva comunque la presenza di sostanze tossiche.

Tra i sostenitori più accesi di questa teoria c’erano il medico Lodovico Balardini (1796-1891) e soprattutto il medico Cesare Lombroso (1835-1909), che all’epoca dirigeva il manicomio di Pesaro. «Mio padre, che già da studente era stato colpito dalla diffusione della pellagra nel Veneto, e che si ritrovò poi nel manicomio un ricchissimo materiale di pazzi pellagrosi, s’era vivamente appassionato a questo problema e aveva ripreso le esperienze del Balardini» raccontano le figlie Paolo e Gina Lombroso negli Appunti sulla vita e le opere del padre.

Campioni di mais, estratto di olio di mais e resti di un pollo usati da Lombroso per esperimenti sulla pellagra

Campioni di mais, estratto di olio di mais e resti di un pollo usati da Lombroso per esperimenti sulla pellagra

Foto: Museo Lombroso di Torino, https://www.museolombroso.unito.it

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Pellagrozeina

Per il medico veronese, considerato il “padre” dell’antropologia criminale, i pellagrosi erano «simulacri di uomini, macilenti, dall’occhio immobile e vitreo, dalle guance gialle, allibite, dalle braccia screpolate e piagate quasi per scottatura o per larga ferita». Li definisce così in La pellagra ed il maiz in Italia (1879), opera in cui si fa paladino della teoria tossicozeista e dell’ereditarietà della malattia. Con zelo, passione e un’infinità di dati e aneddoti raccolti e sapientemente snocciolati a vantaggio della propria teoria, Lombroso spiega che è possibile rinvenire di frequente nei chicchi di mais i segni della malattia «la quale meglio si distingue da un certo color bigiastro, dal sapore amaro, da un odore viroso, e dalla presenza frequente di cellule di fermento».

Lombroso somministrava alle sue cavie (cani e pulcini) – e successivamente a una quarantina d'individui in piccolissime dosi – una tintura oleosa ricavata «da cereali poco sani», che assunta provocava sintomatologie rilevanti che spesso conducevano alla morte dell’ospite. La “pellagrozeina”, la sostanza tossica contenuta nel mais, si produceva secondo Lombroso a causa della pioggia che s’infiltrava nei magazzini e in generale per l’azione dell’umido nelle varie fasi della lavorazione.

Ma se i “popolani” erano soliti chiamare il mais con l’appellativo funereo di “grano della pellagra”, perché continuavano a mangiarne? «Per suprema necessità; per mancanza di altro alimento» annotava Lombroso. E come rispondere ai critici secondo cui la pellagra era presente anche in assenza di un abuso di mais? Esisteva una “pellagra ereditaria” che si trasmetteva secondo lo scienziato al pari delle modificazioni corporee. Al fine di scongiurare il deterioramento del mais Lombroso propose una serie di misure, su tutte l’acquisto di magazzini meccanici che avrebbero permesso una ventilazione continua del cereale, ma anche evitare la raccolta del mais nel suo stato embrionale.

La vetrinetta pellagrologica di Cesare Lombroso

La vetrinetta pellagrologica di Cesare Lombroso

Foto: Museo Lombroso di Torino, https://www.museolombroso.unito.it

La “minestra” di Messedaglia

I provvedimenti proposti dai sostenitori della teoria tossicozeista prevedevano censimenti dei pellagrosi, divieto di vendita e consumo di mais guasto, creazione di essiccatoi per il granturco, istituzione di manicomi per pellagrosi all’ultimo stadio della malattia. Posti al centro degli interventi locali e statali, non ebbero però effetti risolutivi sulla scomparsa della pellagra. La stessa smise di falcidiare le popolazioni del nord Italia fino a scomparire a partire dagli anni venti del Novecento per effetto di un miglioramento delle condizioni di vita, di lavoro e di un’alimentazione più ricca di nutritivi ed equilibrata. In breve «il contadino mangia meglio e la pellagra se ne va» scrisse il medico Luigi Messedaglia (1874-1956). Dalla pellagra si guariva cioè «somministrando abbondevole minestra di riso, saporose e ben nutrite carni, ottimo pane, pretto vino».

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Per saperne di più:

Zea mays. Mais e pellagra nel Nord Italia tra fine Ottocento e inizio Novecento. Scritti di Cesare Lombroso, Pasquale Villari, Luigi Messedaglia. La Vita Felice, Milano, 2015.

Franco Lupano. Lombroso e la pellagra, in Il Museo di Antropologia criminale «CESARE LOMBROSO», a cura di Silvano Montaldo e Paolo Trappero. Utet, Torino, 2009.

Paola e Gina Lombroso, Cesare Lombroso. Appunti sulla vita e le opere. Fratelli Bocca Editori, Torino, 1906.

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