Chiamato da tutti “Parmigianino” in virtù del fisico esile e dei lineamenti delicati, oltre che per via della sua città natale, il pittore Francesco Mazzola è stato uno dei più importanti esponenti del manierismo emiliano. Con suoi dipinti, caratterizzati dall’eleganza delle figure, dalla raffinatezza formale e dal virtuosismo compositivo, è stato artefice di una pittura che, collocata in ambito manierista, appare rinnovata e aperta alle novità delle nuove generazioni di pittori.
Mazzola nacque a Parma l’11 gennaio 1503 in una famiglia di artisti. Suo padre Filippo era un pittore di discreta fama – conosciuto anche con soprannome “delle erbette”, perché era solito dipingerne in grande quantità nelle sue opere – così come gli zii Michele e Pier Ilario. Quando Francesco aveva circa due anni, il padre morì di peste e, qualche tempo dopo, la madre Donatella Abbati decise di affidare la formazione artistica del figlio agli zii. Francesco rivelò immediatamente un talento precoce, superando molto il livello dei suoi parenti. L’apprendistato presso di loro non era quindi sufficiente a garantirgli una valida formazione, per cui entrò nella cerchia del noto maestro Antonio Allegri, detto da Correggio, che all’epoca si trovava a Parma per realizzare dei cicli di affreschi.
Pala di Bardi. Parmigianino, 1521 circa. Tempera su tavola. Chiesa di Santa Maria Addolorata, Bardi
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Quando attorno al 1521 il re di Francia Francesco I minacciò di assediare la città nella sua guerra contro Carlo V, Parmigianino si trasferì temporaneamente a Viadana, una località in provincia di Mantova, dove realizzò la sua prima opera certa, una Santa Caterina per la chiesa di San Pietro. Secondo alcuni, la sua prima opera documentata, invece, sarebbe da anticipare al 1519, quando avrebbe realizzato un dipinto raffigurante il Battesimo di Cristo per la chiesa dell’Annunziata a Parma. In ogni caso, il soggiorno a Viadana fu molto importante nella formazione pittorica del giovane Francesco, perché poté entrare in contatto con la tradizione artistica lombardo-veneta, in particolar modo con la pittura di Giovanni de’ Sacchi, detto Il Pordenone. Ritornato nella città natale, partecipò insieme agli zii alle decorazioni della cappella Torelli nella chiesa di San Giovanni Evangelista, ottenendo molti apprezzamenti.
Il soggiorno romano
Gli zii (o più probabilmente solo Pier Ilario), oramai certi delle enormi potenzialità del nipote, nell’estate del 1524 si trasferirono con lui a Roma sperando che Francesco fosse notato dal neoeletto papa Clemente VII, al secolo Giulio de’ Medici, famoso per il suo mecenatismo nei confronti degli artisti, e che quindi ottenesse qualche buon incarico. Del resto, il clima culturale in quel momento era favorevole: con la morte di Raffaello avvenuta qualche tempo prima e la partenza di Michelangelo per Firenze, molti artisti – come Polidoro da Caravaggio, Perin del Vaga e Sebastiano dal Piombo – erano riusciti a ritagliarsi degli spazi per promuovere il loro stile liberi dall’opprimente ombra dei due giganti.
In città, anche se non riuscì mai a ottenere commissioni dirette dal papa, Mazzola si fece comunque apprezzare sia dagli altri artisti – in primis da Rosso Fiorentino, che fu a lungo suo amico – sia soprattutto dai committenti, entusiasti delle sue opere raffinate, eleganti e sempre caratterizzate da un tocco di eccentricità, come nel caso dell’Autoritratto allo specchio in cui raffigurò se stesso riflesso in uno specchio convesso.
Parmigianino si trovava ancora a Roma nel 1527, quando la città fu saccheggiata e brutalizzata dai lanzichenecchi, soldati mercenari d’area germanica al servizio di Carlo V. Il cosiddetto “sacco di Roma” fu un evento estremamente drammatico per la città per il suo carico di violenza e devastazione inaudite. L’anno prima Parmigianino aveva ricevuto da parte della ricca Maria Bufalini Caccialupi l’incarico di dipingere una tela raffigurante la Visione di San Gerolamo. Si racconta che quando i mercenari irruppero nel suo atelier, lo trovarono intento a dipingere e, colpiti dalla bellezza dell’opera, decisero di non distruggerla e di risparmiare anche la vita al pittore dietro il pagamento di una sorta di riscatto. Dopo quest’esperienza, anche Mazzola, così come la maggior parte degli artisti, fuggì dalla città. Trovò riparo a Bologna, dove le monache del convento di Santa Margherita gli chiesero un dipinto che ritraesse la loro santa patrona. Realizzò anche un’opera per la basilica di San Petronio, raffigurante San Rocco e il suo committente, un tale Fabrizio da Milano.
'Madonna di Santa Margherita'. Parmigianino (1529-1530). Olio su tavola. Pinacoteca Nazionale di Bologna
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La passione per l’alchimia
Rimase a Bologna probabilmente fino al 1530 circa, poi fece ritorno a Parma, dove nel 1531 ottenne dai responsabili della chiesa Santa Maria della Steccata un contratto per la realizzazione di un ciclo di affreschi. Parallelamente, iniziò a sviluppare una forte passione per l’alchimia. Nel giro di poco tempo, quest’interesse divenne una vera e propria fissazione: trascorreva tutto il suo tempo – come racconta lo storico rinascimentale Giorgio Vasari nella sua opera Le vite de' più eccellenti pittori, scultori, e architettori – tra «carboni, legne, bocce di vetro ed altre simili bazzicature», finendo per disinteressarsi completamente della cura della propria persona. Prese così ad andare in giro in maniera molto trasandata, «con barba e chiome lunghe e malconce, quasi un uomo salvatico». Purtroppo, l’alchimia lo distrasse anche dal lavoro e ritardò pesantemente tutti ciò che aveva in cantiere, inclusa la Steccata. I committenti, esasperati, denunciarono Parmigianino per inadempienza e quindi fu arrestato e incarcerato per due mesi. Quando poi, liberato, cercò di riottenere il lavoro, scoprì di essere stato sostituito dal pittore Giulio Romano. Seguì quindi un carteggio tra i due artisti, in cui Parmigianino cercò di dissuadere Romano ad accettare l’incarico e alla fine quest’ultimo decise di ritirarsi. Impossibilitato comunque a completare i lavori alla Steccata, dopo aver cancellato la decorazione dell’abside già iniziata, si trasferì a Casalmaggiore, dove rimase fino alla morte, avvenuta il 24 agosto 1540, a soli trentasette anni, forse a causa della malaria. Qualcuno, invece, ipotizza che sia morto per avvelenamento da mercurio, un elemento chimico molto usato dagli alchimisti. Fu sepolto nella chiesa dei Servi detta “la Fontana” a Casalmaggiore.
Terminava così la breve vita di un artista poliedrico che, come lamenta Vasari, «fu ch’egli stillando cercava l’archimia dell'oro, e non si accorgeva lo stolto ch’aveva l’archimia del far le figure».
'Autoritratto con cagna gravida'. Parmigianino. 1530 circa.
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Per saperne di più:
Parmigianino. Anna Coliva, Giunti, Milano, 2016.
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