«Che solo al papa tutti i principi debbono baciare i piedi…. Che gli è lecito deporre imperatori… Che egli può sciogliere i sudditi dalla fedeltà verso gli iniqui… Che la Chiesa romana non ha mai errato né mai errerà per l’eternità». Sono solo alcune delle 27 affermazioni del Dictatus Papae attribuito a Gregorio VII e datato al 1075-1076: il proclama orgoglioso di una Chiesa decisa ad affermare la totale indipendenza dal potere temporale di re e imperatori e la sua supremazia universale. E’ il punto d’approdo di un movimento di riforma ecclesiale partito dal monastero benedettino di Cluny, fondato nel 909 in Borgogna, e basato sull’autonomia e sulla lotta contro i preti sposati o concubini e la simonia, ovvero la compravendita delle cariche ecclesiastiche.
Una Chiesa sovrana
Dal tempo di Carlo Magno, l’impero e i sovrani avevano quasi sempre esercitato la loro autorità sulla Chiesa con l’investitura di arcivescovi, vescovi e abati e la concessione dei benefici, cioè le rendite e le proprietà. Era un formidabile strumento di governo per nominare uomini di provata fiducia, a cui era demandato il controllo non solo delle anime, ma anche dei territori, amministrati come funzionari imperiali o regi in concorrenza con i nobili feudatari.
Gregorio VII fu proclamato santo nel 1606.
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La questione delle investiture era dunque fondamentale per l'assetto politico del tempo, e su questo terreno il più strenuo difensore degli interessi della Chiesa fu senza dubbio Ildebrando di Soana, asceso al soglio pontificio nel 1073 con il nome di Gregorio VII. Nato presumibilmente tra il 1013 e il 1024 nell’attuale Sovana, nel Grossetano, proveniva da una famiglia di umili origini. Monaco benedettino, dal 1049 si stabilì a Roma come suddiacono e divenne consigliere di papa Leone IX. Per ventiquattro anni sarebbe stato uno degli uomini di curia più influenti sui vari pontefici che si sarebbero succeduti, nonché un protagonista indiscusso della riforma interna della Chiesa portata avanti in quel periodo.
Nel 1059 papa Niccolò II emanò la bolla In nomine Domini, che di fatto escludeva il potere laico e il popolo dall'elezione del pontefice, riservandola esclusivamente ai cardinali. La prima violazione di tale documento avvenne dopo la morte di papa Alessandro II nel 1073, proprio per eleggere Gregorio VII. Ai funerali del pontefice, infatti, la folla acclamò Ildebrando, e solo in seguito i cardinali procedettero alla sua elezione. L'episodio sarebbe stato utilizzato dai nemici di Gregorio VII, che lo accusarono di essere stato proclamato papa in maniera irregolare. In ogni caso, uno dei primi provvedimenti del nuovo pontefice fu quello d'iniziare immediatamente la sua battaglia contro i preti sposati o concubini e contro la simonia, anche se il fronte su cui volle impegnare tutta la potenza della Chiesa fu quello della lotta per le investiture. Questo causò uno scontro diretto con Enrico IV, re di Germania e imperatore designato.
Rappresentazione di Enrico IV nella cronaca di Eccardo di Aura intorno al 1112/14
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La deposizione del papa e del re
Nel 1075 Gregorio VII lanciò l’offensiva con un anatema che proibiva l’investitura degli ecclesiastici da parte dei laici. Enrico IV non se ne diede per inteso e continuò a effettuare nomine, tra cui quella molto importante dell’arcivescovo di Milano. Il pontefice, attraverso una dura lettera, cercò d'imporgli di obbedire, ma il sovrano non cedette, e anzi, il 24 gennaio 1076 convocò un concilio dei vescovi tedeschi a Worms. Il re, forte della sua recente vittoria sui sassoni, credeva di poter sferrare al papa un colpo decisivo approfittando dell'appoggio di diversi vescovi tedeschi. Nel concilio si discusse dell'elezione di Gregorio VII, da molti giudicata irregolare, e si decise per la sua deposizione. La decisione fu comunicata al pontefice con una lettera scritta dallo stesso Enrico IV.
La reazione di Gregorio fu fulminea. Nel febbraio del 1076 inflisse la scomunica al re tedesco, togliendogli la dignità reale e sciogliendo i suoi sudditi dal giuramento di fedeltà. Il popolo ne fu impressionato, in quanto la figura reale manteneva una sua sacralità, mentre i principi che volevano indebolire il potere regio colsero la palla al balzo. Enrico IV rispose dichiarando deposto Gregorio VII e ordinando ai romani di designare un nuovo pontefice, ma rimase inascoltato. Principi e vescovi si riunirono il 16 ottobre a Trebur, in Assia, e stabilirono che il re doveva chiedere perdono al papa, proclamando che se entro un anno e un giorno dalla scomunica, quindi entro il 2 febbraio 1077, questa non fosse stata revocata, il trono reale sarebbe stato considerato vacante. Enrico capì che il rischio era concreto e si affrettò a promettere obbedienza al papa. I due si sarebbero incontrati nel febbraio 1077 ad Augusta, in Germania.
Il dipinto Heinrich vor Canossa di Eduard Schwoiser del 1862 mostra un Enrico indomito e ribelle di fronte a Gregorio VII, che lo guarda dall'alto
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Lungo il cammino, a gennaio, il papa fu ospite della duchessa Matilde di Canossa, sua sostenitrice. Un paio di settimane dopo, il 25 gennaio, nel castello ducale giunse anche Enrico IV. Secondo la versione tradizionale, il papa ordinò che il sovrano fosse lasciato ad attendere fuori dalle mura del castello, al gelo e vestito con un saio penitenziario. Rimase così per tre giorni e tre notti prima che gli fosse concesso il perdono. Gregorio VII lo assolse, ma il ritorno del sovrano sul trono non era ancora certo: sarebbe dovuto essere confermato da una grande assemblea del regno.
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L'anti-re e l'anti-papa
Con questa dimostrazione di forza, Gregorio VII affermava una volta per tutte la sua supremazia sul potere laico, mentre Enrico IV era in una situazione decisamente scomoda. Si trovava ancora in Italia quando, il 15 marzo 1077, i nobili tedeschi proclamarono un nuovo re di Germania, il duca Rodolfo di Svevia. Il papa, dopo un'iniziale neutralità, decise di appoggiare il nuovo re e il 7 marzo 1080 scomunicò e depose nuovamente Enrico IV. Questi però non si arrese: riunì a Bressanone un concilio dei vescovi tedeschi dove il papa fu accusato di essere eretico e simoniaco. Il 26 giugno 1080 fu dichiarato deposto, e al suo posto venne eletto Guiberto di Ravenna, anche se Gregorio VII, non riconoscendo la deposizione, continuò di fatto ad essere il pontefice. Intanto Enrico IV, forte della sua prima vittoria, si diresse in Sassonia per affrontare Rodolfo. Ferito in combattimento nella battaglia di Hohenmolsen (o sull'Elster) del 14 o 15 ottobre 1080, l'anti-re morì il giorno seguente, ed Enrico IV, ormai di nuovo sul trono, volle regolare definitivamente i conti con il papa. Nel 1083 riuscì a prendere Roma, mentre il pontefice si rinserrava in Castel Sant’Angelo confidando nell’aiuto dei normanni di Roberto il Guiscardo, vassalli della Santa sede dal 1075 e insediati nel Sud Italia.
Il 24 marzo 1084, con il papa ancora in Castel Sant’Angelo, Enrico convocava a Roma un concilio che ribadiva l'elezione di Guiberto di Ravenna al posto di Gregorio VII. Il 31 marzo il nuovo papa, che adottò il nome di Clemente III, incoronò Enrico come imperatore. Nel frattempo Gregorio VII aveva ottenuto l'aiuto di Roberto il Guiscardo, che con le sue truppe marciava verso Roma. Enrico IV decise allora di lasciare la città portando con sé l'anti-papa, mentre i normanni la saccheggiavano senza che Gregorio VII potesse fermarli. Questo episodio gli valse il definitivo rancore del popolo romano, che già lo riteneva responsabile di tutte le disgrazie di quegli ultimi anni. Nel giugno del 1084 i normanni si ritirarono e Gregorio VII andò con loro, di fronte all’aperta ostilità del popolo. Sfiduciato e considerandosi sconfitto, visse l’ultimo anno della sua vita a Salerno. «Ho amato la giustizia e odiato l’iniquità, perciò muoio in esilio», lasciò scritto. Morì il 25 maggio 1085. Nel 1606 papa Paolo V lo dichiarò santo.
In alto Enrico IV siede vicino all'anti-papa mentre Gregorio VII è deposto. In basso, scomunica di Enrico IV e morte di Gregorio VII. Manoscritto del XII secolo.
Foto: Roger Viollet / Cordon Press
La lotta per le investiture si sarebbe conclusa solo con la firma del concordato di Worms tra il papa Callisto II e l’imperatore Enrico V il 23 settembre 1122. Fu un compromesso con cui l’imperatore rinunciava al diritto d'investire i vescovi dell’anello e del bastone pastorale, simboli del potere spirituale, e permetteva al papa di affermare compiutamente il suo primato sull’intera gerarchia ecclesiastica, senza più sottostare a interferenze laiche.
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