Quando pensiamo alla povertà in epoca medievale e moderna, spontaneamente la mente va a persone delle classi sociali popolari, che praticavano mestieri artigiani o legati all'agricoltura. Potremmo invece restare sorpresi, dal momento che l'indigenza arrivava a coinvolgere anche individui di estrazione aristocratica. Nella società feudale, infatti, vigeva la consuetudine di lasciare l'eredità del patrimonio familiare al primogenito in modo da non disperdere i beni di famiglia. I cosiddetti figli cadetti ricorrevano ad altri impieghi per mantenersi, escludendo le “arti meccaniche”, quelle cioè che richiedevano un impegno di tipo manuale, come ad esempio la medicina o l'architettura, ma anche il commercio, poiché prevedeva il maneggio diretto del denaro, considerato declassante per un nobiluomo. Restavano dunque le seguenti opzioni: l'arruolamento negli eserciti di mercenari, le professioni legate all'ambito burocratico e la carriera diplomatica. Le figlie femmine venivano invece “utilizzate” come pedine nelle alleanze matrimoniali delle famiglie nobili. L'ultima alternativa, comune sia ai figli cadetti che alle figlie femmine, era la strada ecclesiastica.
Un nobiluomo e una nobildonna ai tempi di Luigi XIII
Foto: Cordon Press
Un altro motivo di povertà era riconducibile allo stile di vita fastoso, alla scarsa parsimonia nell'amministrare le proprie risorse e al gioco d'azzardo, molto comune in ambiente aristocratico.
Aristocratici in difficoltà
Quando per diverse ragioni un nobiluomo si trovava in difficoltà finanziarie, la struttura stessa della società ne ostacolava la ripresa: se da un lato era troppo povero per affrontare le spese necessarie a intraprendere le carriere aristocratiche, dall'altro in quanto nobile non poteva accostarsi a quelle riservate al popolo per questioni d'onore: infatti, «erano ad una condizione peggiore della plebe: perché la povertà loro non potendo aspirare alle prime cariche del patriziato, e per essere patrizi a quelle de' cittadini, erano ridotti ad umili impieghi disdegnati dagli altri nobili, o a vivere quasi di mendicità, o nel grado di clienti di chi più poteva» raccontava Aurelio Bianchi-Giovini nella biografia di Paolo Sarpi, frate e teologo veneziano vissuto fra il XVI e il XVII secolo. A correre in soccorso dei nobili decaduti erano spesso i loro stessi pari, i quali a livello privato sovvenzionavano chi si era immiserito, allo scopo di mantenere la compattezza del ceto e impedire proteste a livello politico che avrebbero sovvertito lo status quo.
I nobili per i nobili
Ad alleggerire i problemi dell'aristocrazia decaduta erano dunque gli stessi nobili, che in forma privata o attraverso la fondazione di opere pie destinate a soccorrere i pari di ceto e contando sulla massima discrezione avevano creato un sistema di rete sociale destinato ad accumulare grandi fortune.
Al centro, il palazzo dell'Accademia dei nobili, una scuola per i figli delle famiglie patrizie impoverite di Venezia
Foto: Wolfgang Moroder, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=56940759
Ne è un esempio l'Opera pia dei nobili di Narni, in provincia di Terni, fondata in forma privata nel 1602 allo scopo di aiutare le famiglie aristocratiche del luogo cadute per qualche ragione in sinistri finanziari. Nel 1651, grazie a un cospicuo lascito testamentario da parte del benestante Paolo Mangonio, l'attività filantropica si ampliò con il compito di mantenere alcune zitelle povere (forse orfane di nobili origini che non avevano fatto in tempo a sposarsi). A ciò si aggiunse la cura dei funerali civili e religiosi di persone legate all'istituzione. Nel 1704 i nobili signori Domenico Alberti e Domenico Alberti Junior ne mutarono la ragione sociale trasformandola in Opera pia Alberti di Narni, sempre con finalità benefiche.
Un altro esempio di opera pia creata dai nobili per i nobili risale al 1609, quando Ferigo Contarini, procuratore di San Marco, presentò al senato veneziano una proposta di legge per istituire un collegio per i figli dei “barnabotti”, cioè gli abitanti della contrada di San Barnaba di origine aristocratica ma impoveriti, che si erano ridotti a vivere delle sovvenzioni statali e della generosità privata. I giovani di belle speranze avrebbero poi servito fedelmente la repubblica lagunare nel migliore di modi. La proposta fu ben accolta, ma la sopraggiunta morte del Contarini frenò il processo per quasi un decennio. Nel 1618 il progetto venne poi ripreso in mano da messer Nicolò Contarini, che riuscì a fondare sull'isola della Zudecca l'Accademia dei nobili, la quale grazie alla cooperazione del patriziato della Serenissima offriva vitto, alloggio e istruzione ai giovani barnabotti dai tredici ai vent'anni. Per i collegiali era prevista anche una divisa, costituita da un abito di panno nero coperto da una corta mantella azzurra detta pellegrina e da un berretto di velluto rosso con il ricamo del leone di san Marco, emblema della città.
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La Pia opera dei poveri vergognosi di Bologna
Secondo la tradizione, nel 1495 dieci nobili bolognesi fondarono la Compagnia de' poveri vergognosi, all'interno del convento di San Domenico. Il motivo di questo bizzarro nome sta nel fatto che i beneficiari delle elemosine erano «Gentilhuomini, Cittadini, Mercanti et anco Artefici buoni nati nella città di Bologna, o ch' almeno in quella siano habitati […] quali siano decaduti et venuti in povertà et miseria». Questi cittadini appartenenti al patriziato benestante si vergognavano della nuova condizione d'indigenza e di dover ricorrere all'elemosina. Per risparmiargli l'onta, sarebbero dunque stati suffragati dai propri pari di ceto in forma discreta e anonima. In tale maniera, si creava una volta di più un forte legame di classe volto a mantenere la solidità della struttura sociale. La carità verso l'aristocrazia era dettata dunque dalla necessità di mantenere la compattezza all'interno dell'élite dominante preservandone il privilegio, mentre quella a favore degli strati popolari era determinata piuttosto dalla paura, volta al contenimento delle emergenze sociali e di eventuali rivolte.
Giuseppe Lorenzo Gatteri, 'Tumulto dei Ciompi', 1877, Civici musei di storia e arte di Trieste
Foto: Pubblico dominio
Nel corso dei secoli, come avvenne per molte altre strutture caritative, anche l'Opera pia dei poveri vergognosi arricchì il suo patrimonio grazie a lasciti testamentari e donazioni, riuscendo a sopravvivere anche ai grandi eventi politici come l'occupazione napoleonica del 1796, quella austriaca del 1799 e al ritorno di Bologna allo Stato pontificio nel 1815. Nonostante i corsi e ricorsi della storia, infatti, la sua autonomia amministrativa restò immutata e le nuove acquisizioni non vennero mai meno, accogliendo opere d'arte, documenti, mobilio, denaro e paramenti sacri. Nel 1715 il conte Francesco Rossi Poggi Marsili donò all'istituto una palazzina collocata nel centro della città emiliana, con la clausola di utilizzarla come sede dell'Opera pia. Con l'unificazione del regno d'Italia queste istituzioni private e nobiliari vennero assorbite nel sistema dello stato sociale, perdendo la loro iniziale vocazione. Oggi, grazie ai cospicui lasciti rappresentati da opere pittoriche, palazzo Poggi Marsili è la sede della Quadreria, una ricca pinacoteca che raccoglie, fra l'altro, opere di artisti come il Guercino, Ludovico Carracci, Lavinia Fontana e artisti bolognesi dal cinquecento al settecento.
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