Gli egizi immaginavano il cielo in tanti modi diversi: come un mare su cui navigava la barca del dio del sole Ra; come un soffitto sostenuto da quattro colonne poste ai punti cardinali; come una donna con il corpo blu che di notte è cosparso di stelle. Ma come è possibile avere tante rappresentazioni del cielo e tutte ugualmente valide? Gli egizi erano soliti dare spiegazioni diverse a un unico fenomeno; per loro ciò che contava davvero era che il cielo rimanesse li dov’era sempre stato. Se quindi a una concezione più antica se ne affiancava una più recente, gli abitanti del Paese del Nilo le conservavano entrambe. In questo senso, tra le diverse immagini del cielo quella che in assoluto è la più importante e rappresentativa è incarnata dalla dea Nut.
Il cielo è donna
Al contrario di tante altre antiche culture, gli egizi identificavano il cielo con una donna – la dea Nut – e la terra con un uomo, il dio Geb. Verrebbe da pensare, come scrisse Erodoto nelle sue Storie (II, 35), che gli egizi «hanno adottato usi e costumi tutti contrari a quelli degli altri uomini».
In realtà l’idea del cielo come donna ha una forte valenza simbolica e una sua intrinseca coerenza che è legata al concetto di "grande madre" e di rinascita. Secondo quanto narrato da un antico mito, la dea Nut ingoiava il sole ogni sera e lo partoriva la mattina dopo in un eterno ciclo di morte e rinascita. Il cielo quindi è donna poiché custodisce in sé il dio del sole Ra che, dopo aver viaggiato all'interno del suo corpo durante le ore della notte, è pronto a rinascere sul mondo. Finanche il colore rossastro dell'alba assumeva rilevanza in tale simbologia: gli sgargianti colori dell'inizio del giorno richiamavano simbolicamente il sangue del parto.
Cosmo Egizio. La dea Nut si china per formare il cielo. Copia di un papiro rinvenuto nel tempio egizio di Dendera
Foto: World History Archive / Cordon Press
Proprio perché strettamente connessa all'idea di rinascita, l'immagine di Nut veniva spesso posta sui soffitti della camera del sarcofago di alcune tombe della Valle dei Re, necropoli scelta dai sovrani del Nuovo Regno (1539-1069 a.C.) per il loro eterno riposo. Splendida è l’immagine di Nut che si ritrova nella tomba di Ramesse VI (1145-1137 a.C.) dove è rappresentata una doppia immagine della dea a simboleggiare il cielo della notte e quello del giorno. Allo stesso modo, la dea veniva rappresentata all'interno del coperchio dei sarcofagi: alla loro chiusura il defunto si sarebbe ritrovato disteso sotto il corpo della dea, stretto in un eterno abbraccio e, identificandosi con il dio del sole Ra, sarebbe entrato nel corpo di Nut per poi essere ripartorito nell’aldilà. La morte in questo modo diventa sia una rinascita sia, simbolicamente, il ritorno nel grembo materno. Le immagini della dea Nut all’interno dei sarcofagi sono spesso accompagnate da testi che esemplificano la sua funzione, eccone qui di seguito uno tra i tanti:
«Ti depongo dentro di me, ti partorisco una seconda volta, si che tu entra ed esca sotto le stelle imperiture, e sia eletto, vivo e ringiovanito come il dio del sole giorno dopo giorno».
In un altro testo la materna divinità parla così al defunto :
«tua madre terrena ti ha portato per dieci mesi [lunari], / ti ha nutrito per tre anni. / Io ti porto per un tempo indeterminato, / e non ti partorirò mai».
Sarcofago egizio con la dea Nut raffigurata all'interno. 400 a.C. circa
Foto: World History Archive / Cordon Press
Sebbene la frase «non ti partorirò mai» possa sembrare contraria all'idea di rinascita, in realtà intende sottolineare il concetto della morte come un eterno riparo, un ritorno al grembo materno. Questa concezione dell'altra vita è antichissima in Egitto: non a caso nelle prime sepolture il defunto era deposto in posizione fetale all'interno di una fossa ovale che richiamava l'utero materno. L’immagine del sole che entra nel corpo di Nut e che viene partorito la mattina dopo è ciò che ogni egizio auspicava: il desiderio di mutare la linea diritta della vita in una circolare, così da poter tornare indietro e rinascere. In questo modo la morte viene sconfitta definitivamente poiché finalmente coincide con la nascita. Questa concezione spiega anche l’importanza di morire nel luogo dove si era nati: «muori nel tuo villaggio, quello in cui sei nato», recita un antico testo egizio.
Non perderti nessun articolo! Iscriviti alla newsletter settimanale di Storica!
La dea del sicomoro
Spesso la dea Nut s'identifica con la bara stessa, come una "grande madre" che accoglie i defunti dentro di sé per rigenerarli. La dea non è dunque solo il sarcofago, ma diventa simbolicamente anche la tomba, la necropoli, il regno dei morti. In essa s'incarna qualsiasi forma accogliente che da riparo al defunto e gli fornisce aria, acqua e nutrimento. Per questo motivo nelle tombe del Nuovo Regno spesso viene rappresentata mentre esce dal tronco di un sicomoro e porge l’acqua della vita al defunto, oppure gli offre il seno per allattarlo. Sono tutte immagini che simboleggiano il sostentamento del defunto da parte della dea madre. Va detto che le dee madri Iside e Hathor spesso si sovrappongono e s'identificano con Nut: le tre divinità sono diverse facce di una stessa medaglia.
Scatola degli ushabti di Anhai, una sacerdotessa di Amon. Nel disegno la defunta riceve dell'acqua da Nut, che esce dall'albero del sicomoro. British Museum
Foto: Dixon / Heritage Images
Non a caso il grande egittologo Jan Assman ha affermato: «Nut, divinità del cielo e dei morti, della bara e degli alberi, è la forma in cui si manifesta nell’antico Egitto la Grande Madre, che compare qui in una varietà di immagini forse senza pari e rappresenta a sua volta forse senza uguali nelle altre culture una figurazione della morte».
In questa concezione originale e affascinante la morte diventa un vero e proprio ritorno a casa.
Se vuoi ricevere la nostra newsletter settimanale, iscriviti subito!