Alla fine della giornata, nella solitudine del pretorio, a Carnunto o a Sirmio (città della Pannonia), Marco Aurelio trovava sempre un momento per raccogliere e annotare le proprie riflessioni. Allora era impegnato in una guerra estenuante, lontano dal più mite clima italiano. Non era un militare ed era per natura più incline alla meditazione e allo studio; tuttavia, ogni mattina, prima dell’alba, era costretto a indossare la sua pesante corazza. Ma la lezione dei classici greci appresa in gioventù gli era di conforto: nei suoi Pensieri, Marco Aurelio cita un brano dell’Apologia di Socrate di Platone: «Perché, Ateniesi, la verità è questa: nel posto dove uno si schiera, perché lo ha giudicato il migliore o perché gli è stato assegnato dal comandante, in quel posto, a mio parere, deve rimanere e sfidare il pericolo senza dar peso alla morte e a nient’altro più che al disonore». Anche Marco Aurelio aveva dovuto scegliere tra il dovere e il disonore. E talvolta era preso dallo sconforto di fronte al duro e ingrato compito che gli era stato affidato: governare e difendere l’Impero romano.
Intorno al 170 d.C. Marco Aurelio aveva superato i cinquant’anni. Erano ormai lontani i tempi lieti della sua gioventù, all’epoca in cui la sua vivace intelligenza e la modestia insita nel suo carattere avevano richiamato l’attenzione dell’imperatore Adriano, che aveva imposto al figlio adottivo Antonino Pio di adottare a sua volta il giovane Marco. Alla morte di Adriano, quando Antonino Pio ascese al trono, Marco Aurelio aveva quasi ultimato la sua accurata educazione: aveva studiato lettere latine e greche, eloquenza, scienze giuridiche, e mostrava una spiccata inclinazione per la filosofia. Così, poiché il suo regno aveva beneficiato di un lungo periodo di pace, Antonino Pio non ritenne la formazione militare strettamente necessaria per il futuro sovrano. In contrasto con la tradizione guerresca dell’aristocrazia romana, non risulta che Marco Aurelio abbia esercitato in gioventù comandi militari o altre cariche pubbliche di responsabilità a Roma.
La colonna aureliana, eretta a Roma tra il 176 e il 192 d.C. in onore di Marco Aurelio, nell'attuale piazza Colonna, celebra le campagne germaniche e sarmatiche
Foto: Riccardo Auci
I successori di Antonino Pio
Nel 161 Antonino Pio morì lasciando come successori due co-imperatori che, per la prima volta nella storia di Roma, avrebbero condiviso il potere supremo. Marco Aurelio, di cui si riconosceva la preminenza, per età e virtù, e Lucio Vero, più giovane ma anche più carismatico, ambivano a prolungare il periodo di pace e prosperità. Ma l’illusione durò poco. Vologese III, re dei parti, ritenne che il momento fosse propizio per cacciare i romani dall’Armenia e invadere la provincia romana della Siria.
Entrambi gli imperatori erano impreparati a condurre una guerra, così stabilirono che Lucio, più forte e di salute più robusta, si sarebbe diretto in Oriente. Tuttavia, egli non si rivelò all’altezza del suo ruolo di comandante in capo dell’esercito, come afferma unanime la tradizione antica. Più interessato alla vita lussuosa e alle belle cortigiane siriache che alla guerra, Lucio Vero affidò il controllo effettivo delle sue legioni a generali abili ed esperti. Tra questi si distinse Gaio Avidio Cassio, sotto la cui guida le armate romane non solo riconquistarono i territori perduti, ma penetrarono nel cuore della Partia (regione dell’Iran nordorientale, a sudest del Mar Caspio), espugnandone la capitale, Ctesifonte. La vittoria fu assoluta e nel 166 Lucio Vero tornò a Roma trionfante.
Cammeo con Marco Aurelio e la moglie Faustina minore, figlia di Antonino Pio e di Faustina maggiore, che accompagnò il marito in molte campagne. Kunsthistorisches Museum, Vienna
Foto: AKG / Album
L’imperatore e il suo esercito di ritorno nell’Urbe, tuttavia, portarono la peste, contro cui le conoscenze mediche del tempo potevano ben poco. Lo stesso Lucio Vero cadde vittima dell’epidemia, che provocò la morte di cinque milioni di persone complessivamente. Vasti campi rimasero abbandonati e chi tentò di sfuggire al contagio contribuì solo a diffondere l’infezione. La “peste antonina” si propagò nell’intero Occidente, causando la rovina dei raccolti e mettendo in crisi il sistema di riscossione delle imposte e il reclutamento militare. Inoltre, il dilagare della povertà determinò l’esplosione del brigantaggio. Sarebbero stati necessari decenni perché l’Impero riacquistasse la floridezza e il benessere perduti.
L’indebolimento dell’Urbe naturalmente non passò inosservato agli occhi dei suoi nemici, soprattutto lungo la frontiera del Danubio, dove era in atto un mutamento degli equilibri di potere tra l’Impero e i barbari che vivevano al di là del fiume. All’inizio del II secolo Roma era riuscita a stabilizzare il confine settentrionale dei suoi domini. Nell’area del Reno, la potenza militare e il fascino culturale esercitato dalla civiltà romana avevano reso possibile una pacifica convivenza con i quadi, i marcomanni e i catti, che intrecciavano inoltre con i romani proficue relazioni commerciali. D’altronde, sul Danubio, con la conquista della Dacia (l’odierna Romania) Traiano aveva creato un baluardo contro eventuali invasioni da parte di tribù slave. I romani, tuttavia, non consideravano conclusa la loro espansione: miravano infatti alla conquista della pianura ungherese tra il Danubio e il Tibisco, una delle zone più fertili della regione, occupata dai sarmati iazigi.
Lucio Vero. Busto in marmo, Metropolitan Museum, New York
Foto: Bridgeman / Index
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Falle lungo il confine
Questa volta, però, non fu Roma a dare inizio alle ostilità. Nell’area del Baltico si andava allora sviluppando un movimento di popoli che alla lunga avrebbe determinato uno sconvolgimento dei rapporti di forza lungo le frontiere dell’Impero. Tribù del nord, ancora sconosciute ai romani, nella loro discesa verso sud spinsero le popolazioni germaniche dei quadi e dei marcomanni a valicare il limes danubiano. Si diffuse allora a Roma l’allarmante notizia che orde di barbari avevano attraversato il Danubio per insediarsi nei territori dell’Urbe. Aveva avuto inizio la grande migrazione barbarica, che secoli più tardi avrebbe provocato la caduta dell’Impero.
Consapevoli di dover fronteggiare una vera e propria invasione, Marco Aurelio e i suoi generali decisero di passare subito al contrattacco. Così, nel 169 l’imperatore diede avvio a una campagna, di cui avrebbe condotto personalmente le operazioni militari, per annettere il territorio quado-marcomanno (odierna Slovacchia) e poi la vasta pianura ungherese, occupata dagli iazigi. Tuttavia, nella primavera del 170, mentre i romani invadevano la regione di quest’ultima popolazione sarmatica, una grande coalizione germanica oltrepassò il Danubio, penetrò in Italia e cinse d’assedio Aquileia.
Battaglia tra romani e marcomanni. Sarcofago di un generale di Marco Aurelio. Museo nazionale romano
Foto: White Images / Scala, Firenze
A quel punto, si resero evidenti gli effetti della crisi demografica innestata dalla terribile pestilenza nei territori dell’Impero, poiché lo spopolamento delle campagne e delle città rendeva sempre più difficile il reclutamento dei legionari. L’imperatore e i suoi generali commisero inoltre l’errore di lasciare sguarnito il corso inferiore del Danubio, a oriente della Dacia. Di tale circostanza avrebbero approfittato i costoboci, una tribù di traco-daci che attraversò la Mesia Inferiore (provincia romana compresa tra il Danubio inferiore e le pendici settentrionali dei Balcani, fino al Mar Nero), e la Tracia, giungendo in Grecia. Qui i costoboci dilagarono nell’Attica, dove incendiarono il santuario di Eleusi, uno dei più venerati. Si diffuse allora nell’Impero un senso generale di insicurezza e le città dovettero rapidamente fortificarsi per far fronte alle sempre più ricorrenti razzie barbariche.
I barbari nell’Impero
Per tener testa alla profonda crisi in cui versava l’Impero, Marco Aurelio, nella sua offensiva contro i germani, attuò la tattica di opporre i barbari ai barbari. Così ammise su larga scala soldati germanici nelle legioni e concesse terre a coloni barbari in Dacia, Pannonia, Mesia e nella Germania romana. Proprio per via di queste disposizioni, all’imperatore filosofo viene ascritta la responsabilità di aver dato avvio alla “barbarizzazione” dell’Impero romano.
D’altronde era necessario compensare il regresso demografico con lo stanziamento di nuove masse di abitanti nei domini di Roma; e, peraltro, l’imperatore mirava a spezzare la coalizione delle tribù germaniche per poter concentrare le proprie forze contro i nemici più pericolosi: gli iazigi e i marcomanni. Fu proprio per fronteggiare questi ultimi che Marco Aurelio pose il suo quartiere generale a Carnunto, antica città della Pannonia Superiore, sul Danubio. La guerra, che proseguì tra alterne vicende, fu lunga e difficile, ma nel 175 il progetto dell’imperatore di creare una nuova provincia romana di Marcomannia, sul territorio germanico a nord del corso medio del Danubio, sembrava sempre più attuabile.
La morte di Marco Aurelio a Vindobona. Olio su tela di Eugene Delacroix, 1835. Musée des Beaux Arts, Lione
Foto: White Images / Scala, Firenze
Tuttavia, Marco Aurelio dovette sospendere le operazioni militari sul fronte germanico a causa di un’inaspettata sollevazione dell’esercito orientale guidata dal governatore della Siria, Avidio Cassio, il vincitore dei Parti. L’imperatore fu dunque costretto a siglare una pace affrettata con i germani e marciò prontamente verso la Siria. La rivolta fu rapidamente domata, ma ebbe in ogni caso nocive ripercussioni sulla frontiera del Danubio, dove i marcomanni insorsero di nuovo nel 177. I romani si trovarono in difficoltà, soprattutto a causa della peste che continuava a imperversare tra le legioni. Lo stesso Marco Aurelio ne sarebbe stato colpito, probabilmente nel suo campo a Vindobona (l’attuale Vienna). Conscio che la sua fine era ormai vicina, smise di mangiare e di bere. Spirò nel settimo giorno di digiuno autoimposto, non prima, però, di aver lasciato l’eredità dell’Impero nelle mani del figlio Commodo, che era con lui a Vindobona, benché nutrisse dubbi sulle sue capacità di governo.
In effetti, secondo le fonti antiche, Commodo concluse con i germani una pace frettolosa e vergognosa per poter tornare al più presto a Roma e dedicarsi ai suoi passatempi preferiti: i giochi gladiatorii. L’età d’oro degli Antonini era finita; iniziava ora, per dirla con lo storico Cassio Dione, un’era di “ferro e ruggine”.
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