Mafie in camicia nera

Nel biennio 1926-1927 il fascismo si propose di venire a capo del problema mafioso in Sicilia. Il prefetto di Palermo, Cesare Mori, intraprese una serie di operazioni di polizia tra le province di Palermo, Agrigento e Caltanissetta che portarono a 11mila arresti. Per Mussolini la mafia poteva dirsi sconfitta. In realtà quella sgominata da Mori con misure fortemente repressive era la cosiddetta "mafia degli stracci", la delinquenza minuta, mentre agrari e notabili trovarono asilo, protezione, interessi e poi amnistie nel Partito nazionale fascista

«Quando finirà la lotta contro la mafia? Finirà, non solo quando non ci saranno più mafiosi, ma quando il ricordo della mafia sarà scomparso definitivamente dalla memoria dei siciliani». Sono le parole gonfie di retorica tratte dal celebre Discorso dell’Ascensione, pronunciato il 26 maggio del 1927 alla Camera dei deputati dal capo del governo Benito Mussolini. Con un tono trionfalistico il duce si affrettò ad annunciare la vittoria sulla mafia siciliana che definì «associazione brigantesca», spogliandola anzitutto da quel fascino che le consentiva facili proseliti: «Non si parli di nobiltà e di cavalleria della mafia, se non si vuole veramente insultare tutta la Sicilia!».

Mussolini posa con dei bambini durante la sua visita a Palermo nel 1924

Mussolini posa con dei bambini durante la sua visita a Palermo nel 1924

Foto: Mary Evans P.L. / Cordon Press

Il fenomeno mafia è trattato da Mussolini essenzialmente in termini di cifre, che erano quelle della repressione e della tutela dell’ordine pubblico. Da questo punto di vista l’immagine più efficace a condensare oltre due anni di operazioni di polizia condotte dal prefetto di Palermo Cesare Mori è quella del medico e del paziente: «Poiché molti di voi non conoscono ancora l’ampiezza del fenomeno, ve lo porto io come sopra un tavolo clinico: ed il corpo è già inciso dal mio bisturi».

Il duce rievoca poi «quell’ineffabile sindaco che trovava modo di farsi fotografare in tutte le occasioni solenni, e che ora è dentro, e ci resterà per un pezzo». Si riferisce a don Ciccio Cuccia, che nel 1924 lo accolse a Piana dei Greci (dal 1941 Piana degli Albanesi, in provincia di Palermo) e, vedendolo circondato da agenti di pubblica sicurezza e carabinieri, tra il meravigliato e l’offeso dichiarò: «Voscienza, signor capitano… viene con mia [con me] e non ha bisogno di temere niente. Che bisogno aveva di tanti sbirri?». Cuccia esprimeva un pensiero comune, esplicitato sulla stampa siciliana già dal 1922: «Due istituzioni identiche non possono vivere nello stesso paese». Nonostante i proclami mussoliniani, dopo averlo “infiltrato”, la mafia sarebbe sopravvissuta al fascismo.

Nel grembo del fascismo

Pochi giorni dopo la marcia su Roma, alla fine di ottobre del 1922, Mussolini sosteneva che la sopravvivenza del fascismo era legata alla sua azione nel Mezzogiorno e in particolar modo in Sicilia, terra semisconosciuta. Bisognava integrare quelle terre riottose e arretrate nella grande famiglia della nazione italiana. C’era però un problema di fondo: la “vecchia” classe liberale cui il fascismo si poggiò per attecchire era compromessa fino al collo e quando Mussolini nel 1922 dichiarò apertamente che «il fascismo non è miracolista» alludeva probabilmente a quel pantano di relativismi, eccezioni, favoritismi, clientele e compromessi rappresentato dalla politica e dal notabilato meridionale.

Locandina del film "Il prefetto di ferro" (1977) sulle vicende di Cesare Mori in Sicilia

Locandina del film "Il prefetto di ferro" (1977) sulle vicende di Cesare Mori in Sicilia

Foto: Pubblico dominio, urly.it/3twjm

Lo storico Christopher Duggan afferma che tale connubio tra un fascismo intransigente e legalitario e «il lassismo morale dell’era liberale si dissolse presto in contraddizioni politiche. Il risultato fu farsesco e in definitiva tragico». Lo storico Salvatore Lupo parla di un vero flusso politico-delinquenziale al quale partecipano tutti i gruppi che ottengono i maggiori risultati alle elezioni del 1919 e del 1921: i combattenti, i radicali, i social-riformisti e persino il nuovo Partito popolare. A tutto sovrintende la figura del “mafioso” che «si avvicina a quella del notabile che con fraseologia progressista, ma con intenti affaristico-clientelari, cavalca e strumentalizza i processi di democratizzazione». Dal 1920 in poi i ceti dominanti isolani, intrisi di delinquenza e malaffare, avevano riconquistato il terreno perduto sia nelle città sia nelle campagne a discapito dei lavoratori e del loro accesso alle terre.

Orgia trasformistica

Come scrive lo storico Giuseppe Miccichè, «dovunque il controllo sui municipi era tornato alle vecchie fazioni conservatrici, che, pacificate nel grembo del fascismo, esercitavano ora assolutisticamente il potere tramite i podestà». Uno di questi è senza dubbio don Ciccio Cuccia, sindaco di Piana dei Greci e al tempo imputato di una serie di crimini tra cui diversi omicidi. È lui a incarnare più di tutti quella che Salvatore Lupo definisce «orgia trasformistica senza precedenti [in cui] i notabili grandi e piccoli provano a saltare sul carro del fascismo». Ed è probabilmente su questo personaggio sui generis che Mussolini “calibra” la risposta dello stato fascista. La chiedeva già nel 1923 il segretario del fascio di Alcamo, secondo cui «se si vuole salvare la Sicilia bisogna spezzare questo genere di organizzazione che è la mafia; se il fascismo vuole rendersi benemerito della Sicilia deve risolvere questo problema».

Il superprefetto

Per sgominare la mafia in Sicilia Mussolini non scelse un fascista modello, ma semplicemente «un uomo in grado di uccidere personalmente un brigante e di scrivere un libro (per quanto orribile)», scrive Lupo. Era il lombardo Cesare Primo Mori, che dopo aver lasciato l’esercito fece tutta la trafila nella polizia come commissario, vice-questore, questore e infine prefetto. A Bologna non si fece scrupoli a punire gli squadristi più scalmanati, mentre il suo lavoro a Trapani, improntato alla fermezza, suscitò il motto: «Vedi Trapani e poi Mori».

Il prefetto Cesare Mori, a capo della lotta di Mussolini contro la mafia in Sicilia

Il prefetto Cesare Mori, a capo della lotta di Mussolini contro la mafia in Sicilia

Foto: Topham Picturepoint

Nell’ottobre del 1925 Mori venne nominato prefetto di Palermo. Egli trovò nel regime totalitario quei poteri illimitati di cui necessitava: per lui l’ordine garantito dalla forza era un bene supremo che avrebbe consentito deroghe ai principi legalitari e umanitari: «Richiamarsi […] alla fierezza per reagire alla prepotenza; al coraggio per reagire al delitto; alla forza per reagire alla forza; al moschetto per reagire al moschetto». Nelle remote campagne della Sicilia occidentale Mori sguinzagliò i nuclei interprovinciali o “squadriglie” celeri ed efficienti che dipendevano direttamente dal prefetto. Dalla fine del 1925 diede vita a una serie di fulminee e clamorose operazioni a cadenza quotidiana che, secondo i dati della propaganda, portarono a circa 11mila arresti, di cui cinquemila nella sola provincia di Palermo fino al 1928.

L'assedio di Gangi

L’azione di Mori si concentrò nelle province di Palermo, Agrigento, Caltanissetta, e soprattutto nel gruppo montuoso delle Madonie. Nel gennaio del 1926 a Gangi, nel Palermitano, in una sola notte furono messe agli arresti circa 450 persone. Si trattò di un’operazione bellica in grande stile, che la stampa paragonò all’assedio della turca Adrianopoli da parte delle armate bulgare durante la Prima guerra balcanica (1912-1913), descritto nell’opera Zang Tumb Tumb dal poeta futurista Filippo Tommaso Marinetti, il cui titolo è un encomio alla guerra.

La morfologia del paese era tale da offrire un buon nascondiglio ai capi e ai gregari della banda di Andaloro e Ferrarello, che per oltre un trentennio aveva spadroneggiato nella zona. Le modalità dell’operazione vengono ripercorse da Salvatore Lupo a partire dagli «inutili dispiegamenti di forze, la finta trattativa che prelude al tradimento di cui ci si compiace, le minacce truculente di rappresaglia trasversale contro i latitanti attraverso la macellazione dei loro animali, la vendita dei loro beni, la deportazione delle loro famiglie e, velatamente, la violenza sulle loro donne».

Giuliano Gemma interpreta Cesare Mori nel film "Il prefetto di ferro"

Giuliano Gemma interpreta Cesare Mori nel film "Il prefetto di ferro"

Foto: Pat Morin / Rue des Archives / Cordon Press

Il “ducino”

Ci si illuse quando si pensò che l’azione poliziesca condotta da Mori potesse portare a colpire allo stesso modo «in alto e in basso» come avrebbe voluto Mussolini. In realtà il prefetto provò a inchiodare Alfredo Cucco, detto “il ducino”, l’oculista capo incontrastato del fascismo palermitano. Le presunte malefatte di Cucco, per un totale di ventisette capi d’accusa tra cui legami elettorali compromettenti, abusi di potere, reati amministrativi legati all’esercizio della professione, furono al centro di un voluminoso dossier oggetto delle attività d’indagine del prefetto e che istruirono un lungo processo. Dopo una decina di giudizi nel 1931 Cucco fu assolto e riammesso nel Partito nazionale fascista da cui era stato espulso. Avrebbe aderito alla Repubblica sociale italiana e successivamente, nel nuovo corso democratico, sarebbe stato tra i fondatori del Movimento sociale italiano.

La mafia degli stracci

Nell’estate del 1929 Cesare Mori venne messo a riposo per anzianità di servizio dopo essere stato nominato senatore alla fine del 1928. La propaganda fascista lo innalzò fino a presentarlo come colui che aveva definitivamente sconfitto la mafia. Secondo alcuni questa sarebbe risorta improvvisamente dalle prime ceneri del fascismo nel 1943, «già armata come Pallade dalla testa di Zeus» ironizza Lupo.

Si è a lungo dibattuto sugli esiti delle operazioni repressive condotte da Mori. I numeri imponenti, almeno quelli veicolati dalla propaganda, gli davano ragione. In effetti, pur facendo ricorso a misure liberticide, in pieno stile fascista, Mori affrontò a viso aperto il fenomeno portando a un certo calo delle attività criminali: «Tra eccessi terroristici, condanne di innocenti, persecuzioni politiche, il questurino Mori e l’inquisitore Giampietro incontrano e battono la mafia» ammette Lupo. Tuttavia la repressione di Mori si concentrò prevalentemente sulla cosiddetta “mafia degli stracci”, cioè la piccola delinquenza o quei vecchi capi e notabili loro legati che spadroneggiavano in età giolittiana e che avevano consentito al fascismo di attecchire in Sicilia: «La vecchia mafia, ormai non necessaria agli agrari, i cui interessi venivano ora difesi dalla milizia, era stata abbandonata nelle mani della polizia, che ne aveva fatto vaste retate, sicché si erano salvati solamente i mafiosi che nei fasci ricoprivano cariche» scrive Micciché.

Alfredo Cucco a Castelbuono in Piazza Margherita il 9 giugno 1926 insieme al prefetto Cesare Mori

Alfredo Cucco a Castelbuono in Piazza Margherita il 9 giugno 1926 insieme al prefetto Cesare Mori

Foto: Pubblico dominio

Oltre la mafia

Nel già citato Discorso dell’Ascensione, Mussolini andò oltre la mafia siciliana. Il duce dichiarò guerra alla delinquenza dei Mazzoni, descritti come «una plaga che sta tra la provincia di Roma e quella di Napoli, ex Caserta» a ridosso di un «terreno paludoso, stepposo, malarico, abitato da una popolazione che fin dai tempi dei romani aveva una pessima reputazione, ed era chiamata popolazione di latrones». Nello stesso discorso Mussolini non fece però nessun riferimento alla malavita calabrese che, in un rapporto del 4 dicembre 1924 firmato dal tenente Carmine Fera, dei carabinieri reali di Biancofiore, l’odierna Bianco, veniva descritta per la prima volta come associazione degli ’ndrangheti: «Tale associazione basata sull’onore dei soci, in seguito a vincolo di giuramento, aveva per iscopo la consumazione di delitti contro la proprietà, rispetto all’obbedienza verso i capi gerarchici e la rappresaglia contro i delatori costituiti da gravi danni alla persona degli accoliti che per avventura si rendevano indegni di appartenervi».

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’ndrangheti in camicia nera

La repressione fascista in Calabria scattò nel 1927, con una serie di retate e di successivi processi che portarono in carcere centinaia di malavitosi. Dalle indagini emerse la profonda penetrazione della criminalità organizzata calabrese nelle organizzazioni fasciste locali. Il caso più clamoroso fu quello di Vincenzo Surfaro, descritto come un boss della ’ndrangheta del basso Jonio reggino. Il suo nome si ripete nei carteggi della sezione reggina del Partito nazionale fascista e nei fascicoli istruiti a suo nome dalla prefettura e conservati presso l’Archivio Centrale dello Stato.

Nell’agosto del 1933 il segretario del Partito nazionale fascista Achille Starace scrive a Pasquale Faraone, segretario della federazione reggina del PNF, per chiedere la rimozione di Surfaro con la motivazione che lo stesso «conduce a Reggio un tenore di vita non consono alla sua posizione economica», ma soprattutto che «i suoi precedenti morali e politici non sono buoni. È notorio infatti che egli, insieme al fratello, avrebbe avuto relazioni con elementi associati a delinquere». Starace fa riferimento esplicito a un episodio in particolare: «In occasione dell’uccisione di tal Campori, noto capo della malavita, il Surfaro avrebbe mandato una ricca corona [di fiori] con la scritta: “Giuseppe Surfaro al suo compare carissimo Campori”». Per tale motivo il segretario generale del PNF sentenzia che «per questi suoi precedenti non è ritenuto degno delle importanti cariche che ricopre in seno al partito».

Achille Starace accanto a Mussolini in una fotografia del 1938

Achille Starace accanto a Mussolini in una fotografia del 1938

Foto: Pubblico dominio

In un altro dossier giunto nell’estate del 1933 sulla scrivania di Starace, Surfaro viene presentato come un uomo alla costante ricerca di denaro e che «agisce nell’ombra usando qualunque strumento e qualunque mezzo» o, ancora, come «uno dei più quotati durante la vita studentesca nella maffia provinciale». Surfaro viene descritto come un personaggio violento, vendicativo, dedito a vizi e lusso, che non disdegna le bastonature agli avversari politici ed economici, e che sfrutta «la dignità d’industriale […] per camuffare le molteplici attività camorristiche». Tra queste «abusa delle sue molteplici cariche per fare degli affari rovinando coloro i quali gli danno o gli potranno dare fastidio». Per questo carico di accuse Surfaro è costretto a dimettersi.

Liberi tutti

Tutto venne però vanificato dall’amnistia concessa in occasione del decennale della marcia su Roma nel 1932, che rimise in libertà la gran parte degli arrestati. Dopo l’avvicendamento al vertice provinciale del Partito nazionale fascista, con il conseguente allontanamento di Surfaro, il nuovo segretario Giovambattista Alessandri è costretto a segnalare «la sensibile recrudescenza dell’attività criminale in alcuni centri della provincia» e soprattutto, l’incapacità delle forze dell’ordine a contrastarla per amicizie e legami sospetti con l’ambiente locale.

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Per saperne di più

Storia della mafia. Salvatore Lupo. Donzelli, Roma, 2004
La mafia durante il fascismo. Christopher Duggan. Rubbettino, Soveria Mannelli, 2007
Dopoguerra e fascismo in Sicilia. Giuseppe Miccichè. Editori Riuniti, Roma, 1976

Documenti

Archivio Centrale dello Stato, PNF, SPEP, Reggio Calabria, b.17
Archivio Centrale dello Stato, MI, DGPS, DPPS 1963, b, 179
Archivio Centrale dello Stato, R. Prefettura di Reggio Calabria, Melito Porto Salvo, b. 24

Gli autori ringraziano la giornalista Barbara Ranghelli per la ricerca archivistica

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