L'uomo contro il ghiaccio: la conquista del Polo Nord

Nel XIX secolo vari esploratori si avventurarono oltre il circolo polare artico alla ricerca del punto più settentrionale del pianeta. Lo statunitense Robert Peary disse di averlo raggiunto nel 1909

Il carattere inospitale delle regioni polari ha rappresentato per millenni una barriera praticamente insormontabile per gli esseri umani. Solo piccole comunità di eschimesi si erano stabiliti nelle aree periferiche del Polo Nord, ma la loro misera esistenza non offriva nessuna attrattiva commerciale ai mercanti provenienti da altre latitudini. Fu così che le zone artiche rimasero isolate e inesplorate per secoli. Fino a che la presenza di un gran numero di cetacei nei mari circostanti non risvegliò le attenzioni dell’industria baleniera.

Nel 1873 una spedizione austroungarica scoprì la Terra di Francesco Giuseppe

Nel 1873 una spedizione austroungarica scoprì la Terra di Francesco Giuseppe

Foto: Erich Lessing / Album

   

Ma per quanto i cacciatori di balene si avvicinassero ai confini di quel mondo gelato alla ricerca di prede, nessuno proseguiva verso nord. Che senso aveva? Il polo era una semplice chimera geografica, un punto situato a 90° esatti di latitudine senza alcun valore reale, lontanissimo dalle necessità concrete dell’esistenza quotidiana. Alla fine del XVIII secolo questa situazione cambiò. Da un lato non erano più solo i mercanti ad avere interesse per la navigazione: anche i governi organizzavano spedizioni militari in funzione dei propri obiettivi geostrategici. Dall’altro la scienza assunse un protagonismo crescente nelle esplorazioni. Ebbe un ruolo di primo piano anche l’opinione pubblica, che iniziò a dimostrare curiosità per le avventure geografiche, in particolare per quelle che si svolgevano tra i ghiacci, cioè nell’ambiente più inospitale del pianeta.

Fu in questo contesto che la Gran Bretagna – all’epoca potenza egemone – intraprese una serie di spedizioni polari. Molte di queste non avevano uno specifico interesse per il polo in sé, ma miravano a raggiungere lo stretto di Bering attraverso il mar Glaciale Artico, che secondo le credenze del tempo era un oceano aperto circondato da una cintura di ghiaccio. Gli inglesi non ottennero però i risultati sperati. La banchisa bloccava l’avanzata delle navi, e i marinai che decidevano di lasciare le imbarcazioni per proseguire in slitta scoprivano con stupore che la massa di ghiaccio galleggiante su cui avanzavano faticosamente si muoveva spesso in direzione opposta alla loro. Quando si fermavano a riposare, la deriva della superficie gelata li sospingeva all’indietro, come se stessero camminando su un tapis roulant.

Alla ricerca di Franklin

La maggior parte delle spedizioni britanniche aveva come obiettivo individuare il Passaggio a nord-ovest, ovvero la rotta che metteva in comunicazione l’Atlantico con il Pacifico. Nel 1845 una flotta composta da due navi e oltre un centinaio di uomini agli ordini di Sir John Franklin scomparve nel nulla. La tragedia creò una forte mobilitazione nella società anglosassone, e nel giro di una decina di anni più di cento imbarcazioni salparono alla ricerca dei dispersi.

Alcune di queste missioni di soccorso furono organizzate dalla marina britannica, altre da facoltosi cittadini statunitensi o inglesi che armarono delle navi per esplorare il dedalo di isole e canali dell’Artico canadese nel vano tentativo di rintracciare i naufraghi.

Normalmente il comandante di un’imbarcazione deve attenersi scrupolosamente alle istruzioni ricevute, tanto nel caso di spedizioni militari quanto di viaggi commerciali. Ma se l’obiettivo della navigazione è la ricerca di superstiti, esiste un certo margine di manovra che non sarebbe consentito nelle situazioni precedenti. Fu così che nel 1852 Edward Inglefield, capitano di una delle navi coinvolte nelle operazioni di soccorso, pensò di cercare i sopravvissuti lungo il canale di Smith, tra la costa occidentale della Groenlandia e l’isola di Ellesmere. Secondo quanto dichiarò in seguito, una volta lì ebbe «l’idea peregrina di raggiungere il polo». Non riuscì né a trovare le imbarcazioni disperse né ad arrivare ai 90° di latitudine, perché il ghiaccio gli impedì di proseguire. Ma disse di aver visto un mare aprirsi davanti a sé in direzione nord.

Ritratto di John Franklin. Il tentativo di ritrovare la sua spedizione scomparsa risvegliò l’interesse per le regioni polari

Ritratto di John Franklin. Il tentativo di ritrovare la sua spedizione scomparsa risvegliò l’interesse per le regioni polari

Foto: Akg / Album

   

Il sogno del mar Glaciale Artico

Molti avventurieri statunitensi ritennero che attraverso quello stretto fosse possibile accedere a un mare aperto e raggiungere il Polo Nord, e trovarono alcuni facoltosi magnati disposti a finanziare le loro ambizioni di gloria. Nel ventennio successivo varie spedizioni nordamericane tentarono di avanzare lungo il canale di Smith. Nonostante le continue avversità e la strenua lotta contro il freddo, la fame e lo sfinimento, riuscirono ad avvicinarsi sempre di più all’estremo nord. Ma alla fine le navi venivano invariabilmente bloccate o affondate da quella spietata distesa di ghiaccio, e gli equipaggi, scoraggiati, erano costretti a tornare indietro a bordo di fragili scialuppe o ad attendere i soccorsi su un iceberg alla deriva.

Sul fronte europeo, tra il 1869 e il 1870 una spedizione tedesca cercò senza fortuna di dimostrare la tesi di August Petermann: il celebre geografo sosteneva che la corrente del golfo del Messico penetrava fino al centro dell’Artico, facendosi strada tra i ghiacci grazie alla temperatura delle sue acque. Nonostante il fallimento della missione, due anni più tardi una nave battente bandiera austroungarica ritentò l’impresa. All’inizio tutto sembrava procedere al meglio: la corrente effettivamente esisteva. Ma ben presto i ricercatori si resero conto che non era sufficientemente calda. La spedizione durò cica 27 mesi. Fu in quell'occasione che l’equipaggio scoprì un arcipelago fino ad allora sconosciuto, che fu ribattezzato Terra di Francesco Giuseppe in onore dell’imperatore asburgico. Purtroppo l’imbarcazione si schiantò sulle coste di un’isola, e per salvarsi i membri della spedizione dovettero caricare le scialuppe di salvataggio sulle slitte e trainarle in direzione sud. Fu un’operazione ardua e frustrante, perché la corrente marina spingeva la massa di ghiaccio su cui procedevano in senso opposto al loro, ossia verso nord. Dopo due mesi di marcia sfiancante si erano avvicinati alle coste di neanche 28 chilometri. Fortunatamente alla fine raggiunsero il mare aperto e riuscirono ad arrivare in Russia, dove furono soccorsi da un peschereccio.

La spedizione di Nares

In Inghilterra il fallimento della spedizione di Franklin, e soprattutto l’emergere di prove di episodi di cannibalismo tra i membri dell’equipaggio, aveva generato nella società una certa diffidenza verso le questioni polari. Tuttavia la marina britannica guardava con timore ai progressi degli statunitensi e voleva dimostrare di essere ancora la potenza egemone nella zona artica. Nel 1875 inviò una spedizione agli ordini del capitano George Nares, iniziata in modo particolarmente promettente. L’Alert percorse il canale di Smith, oltrepassò lo stretto che da allora porta il nome di Nares e trascorse l’inverno alla latitudine più settentrionale mai toccata da essere umano. Ma da quel momento in poi le cose iniziarono ad andare storte. Se le spedizioni statunitensi utilizzavano i cani per il traino delle slitte (come facevano gli eschimesi), i britannici decisero di ignorare le conoscenze dei nativi e di trainare le slitte loro stessi, senza l'ausilio di animali. A complicare ulteriormente la situazione ci pensò lo scorbuto, che costrinse gli esploratori a fare marcia indietro dopo aver raggiunto tra immani sforzi gli 83° 20’ (e quando mancavano ancora 700 chilometri all’obiettivo finale). Uno di loro riassunse la vicenda affermando che il mar Glaciale Artico aperto esisteva soltanto «nella testa di alcuni geografi folli» e il polo era «assolutamente irraggiungibile».

In questa mappa del 1595 Mercatore diede forma a quella che sarebbe rimasta l’immagine della regione polare fino al XIX secolo: un mare aperto circondato da una cintura di ghiacci in cui si aprivano dei passaggi

In questa mappa del 1595 Mercatore diede forma a quella che sarebbe rimasta l’immagine della regione polare fino al XIX secolo: un mare aperto circondato da una cintura di ghiacci in cui si aprivano dei passaggi

Foto: Prisma / Album

   

Nel 1881 una spedizione scientifica statunitense condotta da Adolphus Greely non seppe resistere alla tentazione di battere il record inglese, per quanto vi riuscì di soli sette chilometri. Il prezzo pagato fu eccessivo per un risultato così modesto: solo sei dei 25 membri dell’equipaggio, tra cui lo stesso capitano, rientrarono vivi. Sempre in campo statunitense, l’editore del New York Herald decise di patrocinare una sua spedizione verso il Polo Nord, memore del successo che aveva rappresentato per il giornale l’invio di Stanley alla ricerca di Livingstone in Africa centrale. Nel 1879 la Jeanette, agli ordini di George De Long, penetrò nel mar Glaciale Artico attraverso lo stretto di Bering, con l’intenzione di lasciarsi trasportare verso nord dalla Kuroshio, una corrente calda di origine tropicale del Pacifico.

Secondo un marinaio, il mar Glaciale Artico aperto esisteva soltanto «nella testa di alcuni geografi folli»

Non servirono a molto gli avvertimenti dei balenieri della zona, che conoscevano per esperienza la scarsa forza della corrente e la pericolosità di quel mare. Dopo essersi inoltrata nelle fredde acque polari, la nave si ritrovò imprigionata tra i ghiacci e affondò nel giro di due anni. I membri della spedizione furono costretti a trascinare le scialuppe lungo la banchisa, fino a quando non trovarono condizioni favorevoli per poterle rimettere in acqua. Solo un terzo dell’equipaggio sopravvisse all’odissea e riuscì a raggiungere le coste della Siberia nell’autunno del 1881.

Tre anni più tardi il relitto della Jeanette fu inaspettatamente localizzato lungo le coste della Groenlandia. Questa scoperta spinse lo scienziato ed esploratore norvegese Fridtjof Nansen a ipotizzare l’esistenza di una corrente marina che attraversava tutto il mar Glaciale Artico. Secondo questa teoria, un’imbarcazione che fosse stata intrappolata dai ghiacci nella zona dov’era affondata la nave statunitense avrebbe attraversato tutto l’Artico alla deriva passando per il Polo Nord.

L’odissea di Nansen

Nansen decise di provare a dimostrare la sua teoria. A questo scopo progettò una nave con uno scafo in grado di sopportare l’urto dei ghiacci, che chiamò Fram (“avanti”). La traversata iniziò nel 1893. Inizialmente l’imbarcazione resse bene alla pressione della banchisa e fu trascinata dalla corrente marina nella direzione sperata. Ma, dopo più di un anno alla deriva, l’esploratore si rese conto che la rotta non lo stava portando verso il Polo Nord. A quel punto, come altri prima di lui, Nansen si lasciò sedurre dal canto delle sirene polari e decise di abbandonare la Fram per proseguire a piedi. Non riuscì a raggiungere il polo, anche se batté il record precedente di 300 chilometri. Il suo viaggio di ritorno, durato oltre un anno, rappresenta una delle imprese più straordinarie nella storia delle missioni polari.

Nansen (il secondo  da sinistra) e Johansen (il settimo, in fondo)  il 14 marzo 1895, pronti a partire per il polo con tre slitte e 28 cani

Nansen (il secondo da sinistra) e Johansen (il settimo, in fondo) il 14 marzo 1895, pronti a partire per il polo con tre slitte e 28 cani

Foto: For Alan / Alamy / Aci

Sei anni dopo l’avventura della Fram, una spedizione italiana diretta da Luigi Amedeo di Savoia, duca degli Abruzzi, riuscì a migliorare il risultato del norvegese. Un gruppo capitanato da Umberto Cagni partì dalla Terra di Francesco Giuseppe, a nord della Russia, e dopo aver superato numerose avversità si fermò a 381 chilometri dal polo. Sembrava ormai chiaro che quel mitico punto geografico non era raggiungibile dall’Europa. L’attenzione generale cominciò a spostarsi verso le coste nordoccidentali della Groenlandia, da dove passava la rotta degli esploratori statunitensi. Uno di loro, Robert Peary, tentava ormai da anni di raggiungere i leggendari 90° di latitudine nord.

Se risalire le coste della Groenlandia era già di per sé difficile, la parte più scoraggiante iniziava dopo, quando le spedizioni si trovavano di fronte l’oceano Polare congelato. Le correnti marine spostavano di continuo la banchisa, e pertanto era impossibile lasciare scorte di cibo o di materiali per il ritorno. Inoltre, le imbarcazioni erano costrette di continuo ad aggirare i canali che si aprivano sui banchi di ghiaccio a causa della deriva, o ad attendere che le acque tornassero a congelarsi. Con uno sforzo encomiabile l’esploratore statunitense fece sei tentativi di arrivare al polo in 18 anni. Apprese le tecniche di sopravvivenza degli eschimesi e riuscì a migliorare i suoi risultati a ogni missione. Finalmente, il 6 aprile 1909 toccò il punto più settentrionale del globo.

La polemica del polo

Al ritorno, Peary scoprì che un suo compatriota, Frederick Cook, sosteneva di aver compiuto l’impresa un anno prima di lui. Inizialmente Cook fu ricevuto come un eroe, ma a poco a poco nel suo resoconto emersero incongruenze e lacune che ne misero in dubbio l’attendibilità. Il rapporto di Peary era più credibile, ma comunque non esente da zone d’ombra: l’assenza di misurazioni precise e un’eccessiva rapidità di spostamento sul ghiaccio (circa il quadruplo di quella abituale) insospettirono molti specialisti. Oggi la maggioranza degli esperti ritiene che né Cook né Peary abbiano toccato il polo, anche se entrambi hanno folte schiere di sostenitori pronti a difendere con passione le rispettive versioni. In ogni caso, per anni nessuno tentò di ripetere l’impresa.

La spedizione di Robert Peary puntò sulla rotta americana: risalì in nave il canale di Smith e il successivo canale di Nares, e quindi dal nord di Ellesmere continuò in slitta

La spedizione di Robert Peary puntò sulla rotta americana: risalì in nave il canale di Smith e il successivo canale di Nares, e quindi dal nord di Ellesmere continuò in slitta

Foto: Hulton Archive / Getty Images

   

Nel 1926 Umberto Nobile fece una spedizione con il dirigibile Norge, cui segui un'altra, due anni dopo, con l'Italia, che si schiantò sui ghiacci. In quest'occasione fu organizzata una tra le prime spedizioni di soccorso polare per cercare i superstiti che, nel frattempo, avevano trovato riparo nella cosiddetta "tenda rossa", una tenda progettata dall'ingegnere Felice Trojani per proteggere l'equipaggio in caso di incidente. Si trattava di uno spazio con un'area di circa otto metri quadrati e un'altezza di un metro destinato ad accogliere quattro persone. In realtà i superstiti che vi si rifugiarono furono otto. Roald Amundsen, invece, morì nel tentativo di salvataggio.

Nel 1948, in piena guerra fredda, Stalin decise di giocare d’anticipo sul sottomarino statunitense Nautilus, che doveva arrivare ai 90° di latitudine nord navigando al di sotto della banchisa. La squadra agli ordini del colonnello Aleksandr Kuznecov si fece lasciare da un aereo nelle vicinanze del polo e fu la prima a raggiungerlo in maniera incontestabile. In seguito le spedizioni polari passarono di moda, fino a quando, il 6 aprile 1969 l’esploratore britannico Wally Herbert attraversò in solitaria tutto l’Artico diventando la prima persona a poter documentare in modo certo di essere arrivata al Polo Nord a piedi. Il sogno di decine di spedizioni era finalmente realizzato, dopo quasi due secoli di vicissitudini.

«I bolscevichi salutano i conquistatori del Polo Nord», si legge in questo cartello. «Non ci sono fortezze che i bolscevichi non possano conquistare», recita la parte inferiore

«I bolscevichi salutano i conquistatori del Polo Nord», si legge in questo cartello. «Non ci sono fortezze che i bolscevichi non possano conquistare», recita la parte inferiore

Foto: Fine Art / Album

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