Se anche nell’Italia del XX secolo, in ritardo rispetto ad altri Paesi europei, si creano i presupposti per l’avvento del giornalismo e per la consacrazione dei mass media come strumento d'informazione,veicolazione e orientamento delle masse, ciò è dovuto in gran parte all’operato di Luigi Albertini.
I primi anni al Corriere
Luigi Albertini, giovane anconetano laureato in legge, all’epoca direttore della rivista Credito e cooperazione, entra a far parte del Corriere della Sera nel settembre del 1896, all’età di venticinque anni. Giovane quotidiano di orientamento moderato fondato nel 1876, il Corriereaveva la sua sede in un minuscolo bilocale in Galleria Vittorio Emanuele II, a Milano. Posizionato a metà strada fra i due più importanti quotidiani meneghini in circolazione – Il Secolo, di tendenza democratico radicale, e la Perseveranza, cassa di risonanza della destra conservatrice –, presto il giornale diventa portavoce degli interessi della nascente borghesia milanese.
Dopo un periodo di prova come inviato in Russia per seguire l’incoronazione dello zar Nicola II, Albertini viene assunto dal direttore Eugenio Torelli Viollier, che intravede subito in lui un enorme potenziale. In poco tempo il giovane viene infatti nominato segretario di redazione, compito molto delicato che consiste nel collegare la direzione con la redazione del giornale.
Luigi Albertini, direttore del «Corriere della Sera» dal 1900 al 1921
Foto: Pubblico dominio
Il “colpo di stato”
La prima svolta nella sua carriera avviene nel 1898, quando la violenta repressione di una manifestazione in piazza del Duomo, per ordine del generale Bava Beccaris causa la morte di ottanta civili e svariati feriti. Torelli, in forte contrasto con la posizione degli industriali proprietari del quotidiano, favorevoli alla repressione, dà le dimissioni. Gli succede Domenico Oliva, decisamente schierato a favore della svolta autoritaria. Il vuoto lasciato da Torelli dà l’opportunità ad Albertini, che ne condivide l’orientamento politico, di tramare nell’ombra all’insaputa di Oliva. Presto riesce a convincere i proprietari del giornale ad abbandonare la linea reazionaria del direttore per schierarsi su posizioni moderatamente liberali.
Albertini, forte dell’appoggio della proprietà, attua diverse innovazioni volte a modernizzare la struttura e il funzionamento del quotidiano; in breve tempo diventa la figura di spicco del Corriere, colui che detta la strada da seguire. Ciò comportò un inevitabile braccio di ferro con Oliva, che si protrae per mesi. Albertini rimprovera al direttore di essere troppo impegnato nelle trame politiche del Paese, che lo costringono a risiedere spesso a Roma, lasciandogli di fatto la responsabilità del giornale, che ufficialmente non spetterebbe a lui. La rottura definitiva tra i due avviene in seguito a quello che alcuni storici hanno definito un “colpo di stato” di Albertini all’interno del Corriere: il 18 maggio 1900 incarica il caporedattore Vittorio Banzatti di scrivere un articolo ostile nei confronti del governo Pelloux, fortemente appoggiato fino al giorno precedente da Oliva e, di conseguenza, dal giornale. Il direttore, in quel momento in viaggio in treno verso Roma, viene tenuto volutamente all’oscuro del cambio di linea politica sostenuto da Albertini e Banzatti: una volta scoperta la pubblicazione dell’articolo, Oliva, sdegnato, si dimette. Ha così inizio l’era di Albertini come direttore del Corriere della Sera: durerà venticinque anni e rivoluzionerà totalmente la storia del quotidiano milanese e del giornalismo italiano.
La sede del Corriere della Sera in via Pietro Verri (1889-1904)
Foto: Pubblico dominio
Un successo travolgente
Albertini in breve tempo modernizza il quotidiano, rendendolo il giornale più diffuso in Italia e trasformandolo in un’industria molto redditizia dal punto di vista economico. Basti pensare che il saldo attivo della società passa dalle 260 mila lire del 1900 alle 12 milioni e 301 mila del 1921. La prima preoccupazione di Albertini in veste di direttore è quella di svecchiare il giornale, prendendo esempio dai grandi quotidiani europei: su tutti, il Time e il Daily Mail di Londra e il Petit Journal di Parigi.
Per prima cosa vengono investiti ingenti capitali nell’acquisto delle più moderne macchine tipografiche in circolazione, che permettono sia di stampare con maggiore frequenza (72mila copie all’ora nel 1904) che di aumentare il numero di pagine per ogni edizione, raddoppiando in breve tempo le canoniche quattro pagine proprie dei quotidiani del XIX secolo. L’aumento delle tirature medie del giornale testimonia la rivoluzione in atto: dalle 75mila del 1900, si arriva all’incredibile cifra di 800mila nel secondo semestre del 1924, quando ormai il Corriere si annovera tra i più grandi quotidiani europei.
Inoltre Albertini iniziò a offrire sempre più spazio pubblicitario nelle pagine del quotidiano. Gli ingressi generati coprivano gran parte dei costi di produzione, permettendo l’accumulo di un capitale da investire nella creazione di una redazione preparata e competente. Alle indubbie capacità imprenditoriali di cui dà prova l’incredibile rinnovamento tecnico del quotidiano e l’aumento vertiginoso dei guadagni, Albertini aggiunge una spiccata sensibilità giornalistica, in grado di mettere in piedi una squadra di editorialisti e inviati di alta qualità. Oltre a convincere le penne più brillanti dei maggiori quotidiani italiani a passare dalla sua parte, scova nei quotidiani provinciali giovani giornalisti con la stoffa necessaria per entrare a far parte della redazione del Corriere. Firme come Luigi Barzini, Arnaldo Fraccaroli, Ugo Ojetti e Luigi Einaudi, tra le altre, concorrono a fare la fortuna del quotidiano. Stipula infine contratti di collaborazione esterna con alcuni dei migliori scrittori italiani: Luigi Pirandello, Ada Negri, Grazia Deledda e Gabriele d’Annunzio, tra gli altri.
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Il Corriere in uniforme
L’improvvisa esplosione della Prima guerra mondiale nel 1914 sconvolge gli equilibri di tutto il mondo giornalistico europeo: i più importanti quotidiani del continente si trovano a dover fare i conti con la censura e sono di fatto costretti a operare come strumenti di propaganda e a seguire le linee dettate dai governi. In Italia, nei dieci mesi di dibattito circa la possibilità d’intervenire nel conflitto, fra i tanti quotidiani che si fanno portavoce delle istanze interventiste, il Corriere si schiera in prima fila e contribuisce in modo decisivo a orientare l’opinione pubblica nazionale verso la scelta dell’intervento. Albertini, in buoni rapporti con il presidente del consiglio Antonio Salandra e grande amico del generale Luigi Cadorna, di cui condivide ideali e progetti, con l’entrata in guerra dell’Italia nel 1915 dedica anima e corpo alla causa nazionale. Via Solferino, 28, dal 1904 la nuova sede del Corriere, si trasforma in un quartier generale e acquisisce un’enorme importanza all’interno del Paese in guerra: si assume il doppio compito d'informare i lettori di quanto stia accadendo al fronte e di orientare l’opinione pubblica del Paese verso una completa adesione al conflitto. Compito del quotidiano tra il 1915 e il 1918 non è più quello d'informare i lettori con notizie vere e puntuali, ma quello di rinforzare il sentimento patriottico nazionale, a costo di tacere le notizie più scoraggianti dal fronte e presentare lo scontro come una guerra santa, giusta ed essenziale per la sopravvivenza della nazione.
Dai carteggi di Albertini con i diversi inviati al fronte si evince il senso di sconforto dei reporter di guerra, stanchi di vedere quotidianamente censurati i propri articoli e di non poter raccontare alla nazione la dura realtà dei fatti; ne è un esempio la lettera che Guelfo Civinini, corrispondente di guerra, scrive al suo direttore il 22 giugno 1918: «Si convinca Direttore che il solo lavoro apprezzato è quello che si può fare riferendo ciò che si è visto. Ci saranno degli inconvenienti, ma sono nulla al confronto del discredito che deriva al giornale stesso da un lavoro fatto con altri criteri». Emerge allo stesso tempo la ferma volontà del direttore che, pur consapevole di aver trasformato il proprio giornale in uno strumento di pura propaganda, ordina perentoriamente ai propri corrispondenti di sacrificare la verità sull’altare della patria, tenendo nascoste alla nazione le notizie negative e scoraggianti sul conflitto. Gliene dà atto il generale Enrico Caviglia, che in una lettera del 9 novembre 1918 riconosce al Corriere di essere «[…] la principale colonna di sostengo della nostra guerra, che tiene desta la fiamma della fede e mantiene gli spiriti elevati nei momenti tristi e difficili, indicando al governo e al popolo la retta via».
Terminata la guerra con la vittoria dell’Italia, il Corriere si leva l’uniforme militare e torna a informare il Paese con un atteggiamento serio e rigoroso, allontanandosi dallo stile enfatico e patriottico proprio degli anni di guerra.
La storica sede del Corriere della Sera in via Solferino a Milano
Foto: G.Dallorto - CC BY-SA 2.5 it, shorturl.at/drAN2
Gli Albertini contro Mussolini
Dal 1922 la guida del Corriere passò da Luigi Albertini al fratello Alberto. Il rapporto dei due con Benito Mussolini, allora capo del Partito Fascista, è stato oggetto di diverse ricerche. A detta di molti, il Corriere aveva rappresentato l’ultimo baluardo dello stato liberale nei mesi in cui il fascismo prendeva il potere in Italia. Con la stessa decisione con cui otto anni prima avevano sposato la causa dell’intervento nella Grande guerra, nel 1922 Albertini e gran parte della direzione del Corrieresconfessano ora il movimento rivoluzionario di Mussolini a seguito della marcia su Roma.
Va detto però che, inizialmente, Albertini aveva visto di buon occhio i fasci di combattimento e la loro finalità anti-socialista. A seguito dell’inasprirsi delle violenze squadriste e con la progressiva ascesa da parte del fascismo, Albertini comprende che il rischio di una svolta autoritaria e liberticida è concreto e si oppone pubblicamente a Mussolini. All’indomani della marcia su Roma, a seguito del divieto fascista di stampare quotidiani critici nei confronti del partito, il Corriere non compare in edicola. Albertini non si piega ai tentativi dei fascisti di dissuaderlo e, scegliendo di non dare alle stampe il quotidiano, si schiera apertamente contro Mussolini. «Alle due e mezza di sera abbiamo deciso di non pubblicare il giornale perché pubblicandolo senza commenti avremmo fatto una cattiva figura […]. Pubblicandolo invece coi commenti adeguati ci saremmo esposti a una invasione dello stabilimento con grave danno alle macchine […]», annota nel suo diario il 30 ottobre 1922.
Mussolini, con una lunga esperienza in ambito giornalistico, comprende l’importanza rivestita dal giornale dei fratelli Albertini e cerca in ogni modo di mettere a tacere le critiche al suo partito che appaiono quotidianamente sulle sue pagine. Il 2 novembre 1922 sul Corriere si legge: «Come non tacemmo mai […] il merito del fascismo nella liberazione della patria, […] non avremo domani il pensiero di attenuare il merito che il fascismo potesse acquistarsi con una saggia ed energica opera di governo. Ma per ciò appunto rivendichiamo con maggior fierezza il diritto del libero giudizio e riconfermiamo il proposito incrollabile di non voler intendere il consenso come sottomissione e l’amor di patria come privilegio di un solo partito».
Mussolini inizia una campagna diffamatoria ai danni degli Albertini, ma la direzione del Corriere non si lascia intimidire: «Piuttosto che mettere una maschera e far smorfie e contorsioni, preferiremmo spezzare la nostra penna», si legge sulle pagine del quotidiano del 10 gennaio 1923. La frattura è ormai insanabile. Di comune accordo con i fratelli Crespi, proprietari di maggioranza della testata, il leader fascista riesce a far estromettere Luigi e Alberto dalla direzione del Corriere. Il 28 novembre 1925 i due vengono formalmente liquidati, ponendo fine ad una fase gloriosa del giornalismo libero in Italia.
Il commiato di Luigi Albertini, pubblicato sul Corriere il giorno stesso, esemplifica in poche righe l’amore del direttore nei confronti del proprio giornale e della libera informazione: «A tale immenso sacrificio vado incontro col cuore gonfio di amarezza, ma a testa alta. Perdo un bene che mi era supremamente caro, ma serbo intatto un patrimonio spirituale che mi è ancora più caro, e salvo la mia dignità e la mia coscienza».
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