Nel gennaio del 1588 Filippo II rivolse un grave messaggio alle Cortes castigliane, l’assemblea dei rappresentanti delle città spagnole: «Conoscete già tutti l’impresa in cui mi sono lanciato al servizio di Dio e della diffusione della nostra santa fede cattolica e a beneficio di questi regni […]. Ciò comporta grandissimi e straordinari costi, poiché in gioco ci sono la sicurezza dei mari, delle Indie e delle nostre stesse case».
L’ “impresa” a cui si riferiva il re era nientemeno che l’invasione dell’Inghilterra allo scopo di detronizzare Elisabetta Ie di bloccare l’appoggio che ella offriva ai ribelli protestanti delle Fiandre, in guerra contro la Spagna da ormai vent’anni. Per questo Filippo II aveva radunato a Lisbona un’armata immensa: circa 130 navi (di cui quaranta da guerra), con un equipaggio di 12mila marinai e 19mila soldati.
L'Armata nella Manica. Olio su tela, attribuito all’inglese Nicholas Hilliard (1547-1619), 1588, Society of Apothecaries, Londra
Foto: Eileen Tweedy / Art Archive
Al comando della flotta c’era un aristocratico andaluso, il settimo duca di Medina Sidonia. La sua missione consisteva nell’arrivare a Dunkerque, sulle coste delle Fiandre spagnole, imbarcare 27mila soldati dei tercios (una fanteria formata da soldati di professione non solo spagnoli), agli ordini di Alessandro Farnese, e procedere all’invasione.
A fine luglio 1588 l’Armata entrava nel canale della Manica. Gli inglesi, in allerta, inviarono navi da guerra per attaccarla dai fianchi. Per più giorni la flotta spagnola proseguì la navigazione tra colpi di cannone per lo più andati a vuoto. Il 6 agosto gettò l’ancora davanti a Calais, a circa quaranta chilometri da Dunkerque. Il bilancio era di soli due galeoni persi.
La prima disfatta
Gli inglesi, decisi a impedire lo sbarco, lanciarono nella notte tra il 7 e l’8 agosto otto brulotti (natanti incendiari) contro l’Armata e la costrinsero a levare le ancore a tutta velocità, provocando così la confusione e la dispersione della flotta. Nessuna delle navi spagnole bruciò, molte però subirono danni ai timoni, agli alberi o alle vele. Le loro manovre erano molto lente poiché erano sovraccariche. All’alba le unità disperse furono accerchiate dalle navi inglesi e subirono pesanti cannoneggiamenti, che affondarono cinque navi spagnole e causarono circa 1500 morti. I galeoni spagnoli riuscirono a malapena a rispondere al fuoco e, quando lo fecero, causarono pochi danni. Come se non bastasse, la mattina del 9 agosto i venti e le correnti sospinsero la flotta spagnola al largo delle coste olandesi, mentre gli inglesi contemplavano lo spettacolo a distanza.
La torre di Belém, a Lisbona, dove per un anno si riunirono progressivamente le navi dell’Armata, circa 130 in totale. Partirono il 28 maggio 1588
Foto: Paolo Giocoso / Fototeca 9X12
La situazione era disperata. Validissimi soldati erano rinchiusi in quelle navi, senza poter combattere e quasi certamente condannati a morire. Per la fortuna degli spagnoli, il vento cambiò all’improvviso e l’Armata riuscì a inoltrarsi in mare aperto, anche se inseguita dalle navi nemiche. La flotta era in salvo, ma l’invasione pianificata appariva irrealizzabile. Di certo la “Invincibile Armata” – come la denominò ironicamente la propaganda inglese – non era stata vinta. Non c’era stato uno sbarco, né abbordaggi, né un solo scontro corpo a corpo… Di fatto non si era svolta alcuna battaglia, c’erano stati solo colpi di cannone e forti raffiche di vento, il cui risultato si riduceva alle sette navi affondate e ai 1500 morti citati. Per quanto riguarda le perdite umane inglesi, si calcola che furono poche centinaia.
Nel pomeriggio del 9 agosto però il vento continuò ad allontanare le navi dalla costa fiamminga, impedendo l’incontro con i tercios che avrebbero dovuto compiere l’invasione. Molte navi poi erano danneggiate e non avevano munizioni sufficienti per scontrarsi efficacemente contro la flotta inglese, che poteva anche rifornirsi nei propri porti.
A questo punto il duca di Medina Sidonia convocò i capitani della flotta per un consiglio di guerra in cui decidere il da farsi. Tale era lo sconforto che alcuni suggerirono di consegnarsi al nemico; altri, invece, proposero di combattere fino alle estreme conseguenze: «Che si torni al Canale e si muoia o si esegua quello che il nostro re ci ha ordinato». Alla fine si arrivò a un accordo: se il vento avesse continuato a soffiare contro, la flotta avrebbe iniziato a rientrare in Spagna. E in effetti, il giorno successivo, il 10 agosto, «a tutta l’Armata venne annunciato il ritorno in Spagna».
Tercios (fanteria) delle Fiandre durante un assalto notturno. Arazzo del XVII secolo. Palazzo reale, Madrid
Foto: Oronoz / Album
Tutti sapevano che il rientro in patria non sarebbe stato facile. Per evitare ulteriori scontri con gli inglesi, si stabilì di seguire la rotta del nord, costeggiando la Scozia e l’Irlanda per scendere poi fino a La Coruña, in Galizia. Non si trattava di una rotta sconosciuta per i marinai dell’epoca: i venti dominanti di sud-ovest rendevano relativamente facile la rotta verso nord. Inoltre il 12 agosto la flotta inglese, priva di disposizioni e di munizioni sufficienti, rinunciò all’inseguimento. Le circa 120 navi restanti dell’Armata poterono avanzare senza essere incalzate dai nemici.
L’ultimo nemico: le tempeste
La flotta spagnola era malridotta e priva di rifornimenti. Dal momento stesso della partenza si ordinò di razionare i viveri, soprattutto l’acqua, poiché molta era divenuta inservibile in quanto contenuta in botti di scarsa qualità. Poco giorni dopo si decise di gettare in mare le mule e i cavalli, anche in questo caso per risparmiare acqua. A ciò va aggiunto che molti marinai si erano ammalati.
Nonostante la situazione già di per sé critica, il problema maggiore era un altro: il clima. Proseguendo verso nord, le temperature erano scese a picco e la flotta fu avvolta da nebbie fitte, colpita da violenti temporali, e frenata nell’avanzata da venti contrari. L’Armata riuscì a costeggiare le isole Shetland, ma a partire dal 18 settembre, quando si trovò davanti alle coste irlandesi, si scatenò un terribile uragano. Un ufficiale inglese in servizio in Irlanda lo descrisse come «una forte tempesta di quelle che non si erano viste né sentite da molto tempo».
Il castello di Dover, situato nel punto più stretto del canale della Manica, doveva frenare l’invasione spagnola nel 1588
Foto: Olaf Protze / Age Fotostock
La flotta spagnola si disperse e ogni nave dovette ricomporsi come meglio poté. Alcune cercarono rifugio sulla costa per riparare i danni. Secondo la testimonianza di un marinaio portoghese catturato dagli inglesi, «ogni giorno sulle navi muoiono quattro o cinque uomini, di fame o di sete. Ottanta soldati e venti marinai sono malati, e gli altri sono molto deboli […] Si dice che l’intento dell’ammiraglio sia cercare di arrivare in Spagna sfruttando il primo vento disponibile. Tra i soldati si sente dire che, se riusciranno a tornare in Spagna, non vorranno mai avere nulla a che fare con gli inglesi». Un buon numero di navi, circa trenta, naufragarono davanti alle coste dell’Irlanda tra la metà di settembre e ottobre. Ovviamente i naufragi colpirono le imbarcazioni più fragili, come quelle da trasporto, mentre i galeoni da guerra, pure i più colpiti durante gli scontri, sopportarono meglio la dura traversata.
I naufragi lasciarono centinaia di cadaveri sulle spiagge irlandesi e anche alcune tracce nella toponomastica locale: un paese della contea di Clare, nell’Irlanda occidentale, è ancora oggi chiamato Spanish Point, il “punto spagnolo”, in ricordo degli spagnoli morti nell’urto delle loro navi contro gli scogli.
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Un ritorno senza gloria
I marinai che, straziati dalla fame e dalla sete, osarono presentarsi in qualche punto della costa non ebbero sorte migliore. Le autorità inglesi in Irlanda avevano l’ordine di non risparmiare la vita a nessuno degli spagnoli, per timore che questi potessero incoraggiare i cattolici irlandesi a ribellarsi contro il dominio inglese. Si calcola che in questo modo morirono circa duemila membri dell’equipaggio. Solo i naufraghi più fortunati trovarono rifugio in Scozia, finché furono salvati l’anno successivo da Alessandro Farnese, che li recuperò con quattro navi partite dalle Fiandre.
L'Invincibile armata in un'incisione del XVI secolo del tedesco Franz Hogenberg. Bibliotheque publique et universitaire, Ginevra
Foto: Dagli Orti / Art Archive
Il supplizio di tale rientro proseguì fino a che tutte le navi superstiti tornarono nei porti cantabrici tra la fine di settembre e ottobre. Alcune navi, a causa del loro pessimo stato, naufragarono di fronte alle coste spagnole. Alla fine tornarono solamente settanta o ottanta navi delle 130 che erano salpate da Lisbona. Molte erano in condizioni a tal punto disastrose che fu impossibile ripararle e si dovettero demolire. Dei 31mila uomini che si erano imbarcati si calcola che ne morirono 20mila: 1500 negli scontri, 8500 nei naufragi e circa duemila uccisi in Irlanda, oltre ad altri ottomila che morirono durante il viaggio oppure all’arrivo in un porto, vittime delle malattie e delle sofferenze della vita a bordo.
Tra i morti figurano molti dei migliori capitani dell’epoca, come Alonso de Leyva, Miguel de Oquendo o Juan Martínez de Recalde. Il duca di Medina Sidonia, malato e depresso, partì quasi clandestinamente per la sua residenza di Sanlúcar senza passare dalla corte, dopo aver inviato a Filippo II un rapporto dettagliato di quella fallimentare spedizione.
La celebre frase del re, in cui egli si lamentava di aver inviato una flotta a lottare contro gli uomini, non contro gli elementi naturali, non è storicamente accertata. Si sentì, questo sì, deluso e persino affranto: «Chiedo a Dio che mi prenda con sé per non vedere tanta sventura e miseria», scrisse al suo capitano e segretario, Mateo Vázquez, quando ebbe notizie certe del disastroso viaggio di ritorno. Filippo II si riteneva legittimato da Dio nella sua impresa; al disastro, quindi, reagì con profondo dolore ma anche con una silenziosa rassegnazione cristiana, come rappresentasse un castigo divino “per i nostri peccati”.
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Per saperne di più
L’Invincibile Armada. Garret Mattingly. Res Gestae, Milano, 2012.