Alcuni imperi nascono sulle rovine di altri. Il dominio sasanide nacque sull’altopiano iraniano intorno al 224 d.C. con la sconfitta dell’ultimo sovrano dell’impero partico, Artabano V, per mano dell’allora sconosciuto Ardashīr I. Il fondatore della dinastia – il cui nome proviene da Sāsān, il nonno di Ardashīr – fu figlio di Pāpak, un capo locale che unificò gran parte della provincia di Fārs. I re sasanidi diedero sempre risalto al legame con questa provincia, così da sottolineare il forte vincolo tra la loro stirpe e quella dei re achemenidi, sovrani dell’Iran, il cui impero fu tra i più importanti dell’antichità. Come questi ultimi, i sovrani sasanidi adottarono il titolo di Re dei Re (āhanāh). Per questo aggiunsero nuovi rilievi in loro onore a Naqsh-i Rustam, necropoli reale dell’antico impero achemenide, non solo per legittimarsi rispetto ai governi precedenti, che consideravano invasori, ma soprattutto per recuperare un passato glorioso di cui si sentivano eredi.

Ardashīr I, il fondatore dell'impero sasanide, i vassalli dell'impero partico. Scuola di pittura mongola del XIV secolo
Foto: World History Archive / Cordon Press
L’espansione militare sasanide mirava al controllo di un territorio vasto quanto quello degli achemenidi. Ovviamente ciò causò spesso relazioni tese con i vicini, soprattutto con romani, armeni, unni eftaliti (conosciuti come “unni bianchi”) e arabi: ne seguirono numerose guerre e rivolte dalle quali non sempre i sasanidi uscirono vittoriosi. Eppure rappresentarono una delle più terribili minacce per l’espansione territoriale dell’impero romano e per le sue strutture di potere. Ne fu una chiara dimostrazione quando il re Sapore I – Shāhpūr in persiano medio – tenne in scacco l’intero impero nella famosa battaglia di Edessa (verso il 260), in cui fece prigioniero l’imperatore romano Valeriano. E proprio uno dei rilievi di Naqsh-i Rustam rappresenta Valeriano in ginocchio davanti al vincitore, il Re dei Re.
Una società multiculturale
Nell’impero sasanide la società era organizzata in modo gerarchico. Alla sommità si trovava il sovrano, che delegava le mansioni di governo a una sorta di primo ministro, dal grande potere. I consigli, o ministeri, e i governi delle province completavano la burocrazia, che garantiva il funzionamento dello stato. Sotto vi erano quattro classi, in ordine decrescente di prestigio: i sacerdoti
(āsrōvān), i guerrieri (artēshtārān), i contadini e allevatori (vāstaryōshōn) e gli artigiani (hutukhshān). I membri della corte – composta da parenti del re, altri nobili e notabili del regno, i quali ricoprivano le cariche di una complessa amministrazione – provenivano soprattutto dai primi due ceti, e in particolar modo dall’aristocrazia militare, e vivevano in un ambiente lussuoso e sofisticato, che raggiunse uno splendore leggendario durante il regno di Cosroe I (Khusraw I), tra il 531 e il 579.

Nell'immagine, il rilievo di Taq-i Bostan, che mostra il re Cosroe II assieme agli dei Ahura Mazdā e Anāhitā e, sotto, sul suo cavallo preferito, Shabdiz
Foto: Eric Lafforgue / Alamy / AciNell'immagine, il rilievo di Taq-i Bostan, che mostra il re Cosroe II assieme agli dei Ahura Mazdā e Anāhitā e, sotto, sul suo cavallo preferito, Shabdiz
Spesso crediamo che le culture antiche siano uniformi: niente di più lontano dalla realtà. La società sasanide era plurilingue, multietnica e multireligiosa, come ci si potrebbe immaginare in un territorio così esteso quale quello controllato dai loro re. I sasanidi dominavano gran parte della Via della Seta, dettaglio che gli garantiva introiti immensi, ma per questo dovevano salvaguardare la sicurezza dei cammini. Carovane con ogni sorta di prodotti e persone provenienti da Cina, Asia centrale, India, Penisola arabica, Egitto, Mediterraneo orientale, Caucaso, Grecia o Roma attraversavano la regione sasanide tramite una complessa rete di comunicazioni. Le élite sasanidi parlavano il medio persiano o pahlavi, una lingua imparentata sia con l’antico persiano – la lingua dei re achemenidi – sia con il moderno persiano, e potenziarono l’impiego della lingua materna non solo a corte, nell’amministrazione, nelle leggi e nel conio delle monete, ma anche in ambito letterario e religioso. Tuttavia, la poliedrica popolazione dell’impero parlava pure altre lingue iraniche, quali il partico, il battriano, il sogdiano, il corasmiano o chvarezmio, così come le lingue di diversi ceppi linguistici.
Zoroastrismo, la religione dei re
La diversità regnava anche in ambito religioso. I re e la maggior parte dell’élite dominante professavano lo zoroastrismo, il cui nome viene da Zoroastro (adattamento greco della parola avestica Zarathustra), considerato dai credenti come il profeta. Il dio principale è il dio della saggezza (Ahura Mazdā in avestico, Ōhrmazd in pahlavi), creatore del mondo e delle sue creature, e ha come antagonista principale lo spirito del male (Angra Mainyu in avestico, Ahriman in pahlavi). Tuttavia, lo zoroastrismo non è una religione monoteista. Dall’antichità i suoi fedeli hanno venerato altri dei immateriali e materiali, associati soprattutto a elementi naturali come il fuoco, le stelle, la terra, l’acqua, i metalli e le piante. Non dimentichiamo che Sāsān, eponimo della dinastia sasanide, fu sacerdote della dea delle acque Anāhitā nel tempio di Istakhr, a Fārs.
Il re sasanide Sapore I annientò Roma nella battaglia di Edessa
Lo zoroastrismo fu la religione principale dell’epoca sasanide, ma non l’unica a diffondersi nell’impero. Comunità sempre più numerose di ebrei, cristiani, manichei, mandei e buddisti convivevano grazie a una politica di tolleranza religiosa, nonostante persecuzioni mirate di alcune autorità zoroastriane che temevano di perdere il potere a corte. Per esempio, il Talmud, uno dei più importanti testi del giudaismo rabbinico, fu redatto nelle versioni di Gerusalemme e di Babilonia durante la dominazione sasanide. Non solo: il massimo rappresentante della Chiesa orientale cristiana – che nella variante nestoriana si separò dall’occidentale nel V secolo – risiedeva a Ctesifonte sotto la protezione del re sasanide. Ciononostante, alcuni sovrani cercarono di imporre lo zoroastrismo quale religione ufficiale nelle zone ribelli a maggioranza cristiana, come per esempio in Armenia e Georgia, per paura che i re vicini, convertitisi al cristianesimo, li attraessero nella loro orbita.

Naqsh-i Rustam, una necropoli a dodici chilometri da Persepoli, la necropoli di Naqsh-i Rustam ospita le tombe di quattro sovrani achemenidi: Dario I, Serse I, Artaserse I e Dario II
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Sempre in quel periodo il manicheismo si espanse sino ai confini dell’Asia, malgrado la condanna a morte del profeta e fondatore Mānī, tra il 274 e il 277, durante il regno di Wahrām I. Mānī compose in pahlavi lo Shāhpuhrāgan, compendio della dottrina manichea, e lo dedicò al re sasanide Sapore I (Shāhpuhr, 240-270 circa), causando risentimento nel clero zoroastriano. Il sacerdote zoroastriano Kartir fu il principale istigatore della condanna a morte di Mānī e della persecuzione dei suoi seguaci e di altre minoranze religiose.
Il crollo dell’impero
Alla fine del V secolo il sacerdote zoroastriano Mazdak promosse una riforma religiosa e sociale che scatenò una grave crisi nell’impero. Con l’appoggio iniziale del re Kawādh I, Mazdak avviò la spartizione comune della ricchezza e, soprattutto, della produzione agricola tra i lavoratori dei campi, con la convinzione che nessuno doveva possedere più del necessario. Nella sua organizzazione, i figli diventavano responsabilità di tutta la comunità e perfino le donne erano condivise, come biasimavano gli esponenti del conservatore clero zoroastriano.
La riforma di Mazdak fu un palese attacco sia al potere delle élite aristocratiche, che si accaparravano possedimenti e donne, sia a diverse autorità religiose dell’epoca, che temevano il mazdachismo per quel pericoloso “libero amore”. La risposta a questa prima forma storica di comunismo non si fece attendere: nel 496 i nobili e il clero deposero il re Kawādh I, che poté tornare sul trono grazie all’aiuto straniero e solo dopo aver sconfessato quelle idee. Fu il figlio Cosroe I che, prima di succedere al padre, sterminò Mazdak e i suoi seguaci.

Gli scacchi, un gioco di origine indiana, furono importati in Iran durante il dominio sasanide
Foto: British Library / Bridgeman / AciGli scacchi, un gioco di origine indiana, furono importati in Iran durante il dominio sasanide
Nel 636, dopo la vittoria nella battaglia di al-Qādisiyya, gli arabi, latori della nuova religione musulmana, conquistarono Ctesifonte, capitale amministrativa dell’impero sasanide. Negli anni seguenti caddero pure altre regioni. Il crollo dell’impero culminò nel 651 con la sconfitta del re Yazdgird III, ultimo della sua dinastia, che, dopo la fuga, venne assassinato a Merv, nell’attuale Turkmenistan.
Gli arabi sono passati alla storia come gli annientatori dell’impero sasanide, ma anche come i suoi eredi, dal momento che ne hanno trasmesso il sapere. Non dimentichiamo che nella letteratura, nell’architettura, nei giardini e nelle arti plastiche e tessili del periodo islamico rimangono elementi del mondo sasanide, senz’ombra di dubbio una delle culture più affascinanti e sofisticate della tarda antichità.