Le mondine. Dai canti di lavoro ai canti di lotta

Il duro lavoro delle mondariso era scandito dai canti d'amore e nostalgia, ma ben presto si trasformarono in canti di lavoro e di lotta contro lo sfruttamento padronale

110 anni fa, nel 1912, entrò in vigore per la prima volta nel regno d'Italia un regolamento che fissava ad otto le ore di lavoro giornaliere. Tale provvedimento riguardava la categoria delle mondariso, o mondine, le donne che fra Piemonte, Lombardia ed Emilia-Romagna lavoravano nelle risaie. Il primo sciopero delle mondariso risale al 1883 e si tenne a Molinella, in provincia di Bologna. Da qui partirono una serie di proteste spesso violente che si protrassero per diversi anni e si estesero ai villaggi vicini. Accanto alle mondariso, scesero in sciopero anche gli altri lavoratori agrari. Le rivendicazioni più diffuse erano il limite della giornata lavorativa a nove ore, la corresponsione del salario in denaro contante e sorveglianti scelti dai lavoratori stessi.

Nel 1906 il vercellese fu teatro di aspri scontri che videro le mondine e i braccianti scioperare per la riduzione dell'orario. Con loro, l'avvocato Modesto Cugnolio, consulente legale della Camera del Lavoro di Vercelli e attivista per i diritti delle mondine. Il primo giugno, alla fine di una giornata di forti tensioni che aveva visto gli operai unirsi agli scioperanti, le trattative di Cugnolio si conclusero con questo annuncio: «La giornata è fissata in 8 ore di lavoro». La questione divenne di grande attualità in tutto il Paese. Fu in questo contesto che nacque uno dei canti di lotta più famosi, Le otto ore, che esordiva con queste parole: «Se otto ore/Vi sembran poche/Andate voi a lavorar». Il testo venne adeguato alla melodia di una canzone risorgimentale, La bandiera tricolore, e si trasmise oralmente di generazione in generazione, più volte riadattato a seconda delle circostanze, cambiando qualche parola ma mantenendo da quel momento il tema delle otto ore.

Gruppo di mondine in risaia. Foto degli anni cinquanta

Gruppo di mondine in risaia. Foto degli anni cinquanta

Foto: Pubblico dominio

Il lavoro di risaia

Il lavoro delle mondine era uno dei più duri del bracciantato agricolo. Svolto per lo più da donne, consisteva nel trapiantare le piantine nuove e togliere le erbacce infestanti che crescevano negli acquitrini coltivati a riso. Le mondine si disponevano in file di una decina di persone e si passavano le erbacce di mano in mano. Le ultime della fila le gettavano nei canaletti di scolo. Non era possibile interrompere il lavoro: le necessità fisiologiche venivano espletate spostandosi di qualche passo e ogni tanto il caposquadra passava con un mestolo d’acqua per dissetare le mondine. Si lavorava nel periodo della semina, da maggio a luglio, per dieci o dodici ore al giorno e con ogni tempo, anche quando pioveva forte.

Le mondariso condividevano il loro spazio con rane, topi, bisce, sanguisughe e insetti. Ci si poteva ammalare di reumatismi e malattie alle vie respiratorie causate dall’umidità, a causa d’infezioni dovute al morso di qualche animale, di malaria. Inoltre si rischiava la cosiddetta febbre del riso, una malattia infettiva dovuta a un parassita, la leptospira bataviae, che causava febbre alta. Tutto il giorno piegate e con l’acqua al ginocchio, indossavano una sottana o dei pantaloni corti arrotolati. A coprire gli arti per proteggerli dalle punture delle zanzare della calze lunghe di cotone e dei manicotti che coprivano le braccia. Spesso dentro ci nascondevano delle rane, che avrebbero fritto la sera, per cena. In testa un cappello di paglia per ripararle dal sole. Lo stesso cappello che troviamo in un famoso canto delle mondine, Saluteremo il signor padrone, il cui ritornello fa così: «Con un piede, con un piede sulla staffa/E quell’altro sul vagone/Ti saluto cappellone/a casa nostra vogliamo andar».

Lavoratrici stagionali

Nei villaggi circostanti le risaie, le donne di campagna erano quasi tutte mondine. Era un mestiere che non s’imparava ma già si sapeva, tramandato da madre in figlia, quasi fosse scritto nel DNA. Molte mondariso, però, arrivavano da altre zone della Lombardia, del Veneto e dell’Emilia. Alcune erano giovanissime, appena tredicenni, altre arrivavano alla settantina. Molte lasciavano a casa il marito e i figli piccoli per i mesi della stagione del riso. Spesso queste “forestiere” erano guardate con sospetto dalla gente del luogo, additate come donne di facili costumi, venute da lontano e senza il controllo della famiglia. Giungevano con mezzi di fortuna perché il viaggio costava, oppure con dei vecchi treni per il bestiame portando con sé un misero bagaglio.

Gruppo di mondine al lavoro in risaia

Gruppo di mondine al lavoro in risaia

Foto: Pubblico dominio

Venivano fatte alloggiare in capannoni ricavati da granai in disuso o cascine. Lì dormivano su giacigli improvvisati: qualche asse di legno coperta da una manciata di paglia. Questi dormitori erano grandi, e arrivavano ad ospitare fino a una sessantina di persone. Ove possibile, si cercava di tenere separate le donne provenienti dallo stesso villaggio per evitare che facessero comunella e ordissero degli scioperi, rischio concreto date le penose condizioni in cui versavano le lavoratrici. Dopo essersi alzate all'alba ed essersi lavate con l'acqua fredda del fossato, la stessa in cui lavavano i panni e le stoviglie, si recavano in risaia, alcune con il trattore o un altro mezzo messo a disposizione dal padrone, altre a piedi per risparmiare, visto che sia i costi del tragitto sia quelli del pranzo – spesso a base di riso e fagioli – erano decurtati dal salario.

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I canti delle mondine

Ogni tanto, nel silenzio della campagna si udiva un grido: «Erba! Erba!» Era il segnale che il mazzo di erbacce era giunto all'ultima della fila. Talvolta, una delle mondine intonava un canto, e le altre rispondevano. Era un modo per mantenere il ritmo e alleviare il duro lavoro creando un diversivo. Molti canti parlavano di amori perduti, di nostalgia per il paese natio, della vita campestre, della fatica del lavoro («Mamma, papà non piangere se sono consumata/È stata la risaia che mi ha rovinata»). S'intonavano anche antiche melodie popolari e canzoni dei soldati. E fin qui, ai padroni non dispiaceva, perché finché le donne cantavano non chiacchieravano, non si distraevano e soprattutto non tramavano qualche protesta. Ma alcuni canti potevano diventare un pericoloso presagio di rivolta: canti anticlericali, politici, addirittura anarchici e socialisti e più tardi i canti della Resistenza.

Il socialismo in particolare faceva tremare il “sciur padrun da li beli braghi bianchi”, il signor padrone dai bei pantaloni bianchi di una celebre canzone, perché evocava la Rivoluzione russa che nel 1917 aveva posto fine all'impero zarista e al privilegio della classe padronale e portato il popolo al potere. Al contempo, nell'immaginario proletario l'Unione Sovietica nata dalla Rivoluzione e il socialismo rappresentava la realizzazione di un paradiso di equità sociale in terra. Quando le mondine cantavano «Scarpe rotte eppur bisogna andar/A conquistare la rossa primavera/Dove sorge il Sol dell'Avvenir», non lo facevano per passare il tempo o per mantenere il ritmo del lavoro, ma per mandare un segnale forte e chiaro: la Rivoluzione era nell'aria. O meglio, la Resistenza, visto che il canto scritto dal partigiano comunista Felice Cascione su una famosa canzone russa, Katjuša, risale al periodo successivo all'armistizio 8 settembre del 1943, con il quale l'Italia firmò la resa incondizionata agli Alleati nel corso della Seconda guerra mondiale.

Silvana Mangano nei panni di una mondina in 'Riso Amaro', un film di Giuseppe De Santis del 1949

Silvana Mangano nei panni di una mondina in 'Riso Amaro', un film di Giuseppe De Santis del 1949

Foto: Pubblico dominio

Tra passato e presente

Il canto che meglio rappresenta la condizione delle mondariso è La mondina. Il testo venne scritto attorno al 1950 da Pietro Besate, dirigente sindacale e successivamente consigliere comunale del Partito comunista di Vercelli coinvolto in prima persona nelle lotte per i diritti dello mondine. La melodia viene da un’antica canzone popolare, La rondinella. Besate aveva in precedenza curato una raccolta di canti intitolata La mondina canta, e i suoi brani trovavano diffusione grazie ai cori delle mondariso. La mondina venne eseguita in pubblico per la prima volta a Bologna nel 1952, in occasione di un congresso. Fin dalla prima strofa fu un successo: «Son la mondina/Son la sfruttata/Carcere e violenza, nulla mi fermò». Parole potenti, che rappresentavano la condizione e la forza delle protagoniste, spesso oggetto di carcere e violenza, come narra la canzone. Strofe come «C’è tanto fango nelle risaie,/Ma non porta macchia il simbol del lavor» consolidavano l’orgoglio per il proprio umile mestiere, senza dimenticare l’anima pacifista ma combattiva del movimento, che conclude il canto con queste parole entrate poi a far parte della storia della canzone popolare: «E se qualcuno vuol far la guerra/Tutti uniti insieme noi lo vincerem/Vogliam la pace sulla terra /E più forti dei cannoni noi sarem».

Nel secondo dopoguerra i cori delle mondine continuarono ad esibirsi in occasione delle feste paesane e dei festival contribuendo alla diffusione di una memoria popolare che diventerà oggetto di studio negli anni sessanta da parte di gruppi di ricerca e conservazione della canzone popolare come il Cantacronache e ilCanzoniere delle lame. La mondina, Le otto ore, Sciur padrùn da li beli braghi bianchi, Saluteremo il signor padrone e tanti altri canti di lavoro e di lotta vennero ripresi anche da cantanti e cantautori come Eugenio Finardi, Francesco De Gregori, Milva, fino ad anni più recenti con le versioni dei Modena City Ramblers e dei Flexus saliti sul palco assieme al coro più famoso delle mondariso, quello delle Mondine di Novi che ancora oggi cantano la propria storia e il proprio impegno civile tramandandoli di generazione in generazione.

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