Il passaporto sanitario in vigore in Italia - e da luglio in Europa - ha una storia lunga almeno cinque secoli. Che si chiami “green pass” o “fede di sanità”, il documento cambia nome e aspetto nel tempo, ma non la propria funzione: contenere il pericolo di contagio durante un’epidemia e al contempo garantire gli spostamenti tra città, territori e stati.
Per capire come ha origine, occorre partire da un luogo preciso: Venezia. Considerata fin dal XIII secolo la porta tra l’Europa e l’Oriente, la città lagunare vanta una solida reputazione in termini di organizzazione e gestione sanitaria. Un’accortezza resa necessaria dalle fitte relazioni commerciali intessute via terra e via mare. Già a fine XV secolo la Repubblica di Venezia istituisce un’apposita magistratura incaricata di disporre piani d’azione e prevenzione sanitaria, poi resa permanente. Ne dà conto quasi tre secoli più tardi Giacomo Olivi, deputato alla sanità di Treviso, che nel 1712 stende un’accurata relazione sull’anno appena concluso. Il testo integrale è riportato nell’articolo “Mortalità de’ bovini seguita nel territorio trevigiano nell’anno MDCCXI” di Danilo Gasparini (docente in Storia dell'agricoltura e Storia dell'alimentazione all'Università di Padova). La testimonianza tratta nel dettaglio la diffusione e gli effetti della grave epidemia di peste bovina proveniente dal centro Europa, che in quegli anni compromette gli allevamenti delle province venete, dalla costa fino ai domini di terraferma.
Locandina ferrarese del 27 luglio 1682 in cui si affermava che le 'fedi di sanità' dovevano essere introdotte sei giorni dopo la pubblicazione del presente avviso
Foto: https://wellcomecollection.org/works/nkq59j7c
Il morbo (ampiamente documentato in Europa già nel XVI secolo) si ripresenta ciclicamente “per molti regni e per molte province d’Europa”, tra cui il Serenissimo Stato. Che si tratti di uomini o animali, fu subito chiaro che in caso di malattie contagiose l’unico modo per arginare il pericolo è disporre un sistema di regole precise, controlli stringenti e un’efficace comunicazione e cooperazione tra governi e territori limitrofi.
L’identikit del viaggiatore
Introdotte già a partire dal XV secolo, le “fedi di sanità” sono tra i documenti più diffusi e utilizzati per proteggere le comunità ancora libere dal morbo. Come un passaporto, si utilizzano per assicurare gli spostamenti via terra e via mare (in questo secondo caso si parla di “patente di sanità” rilasciata in genere dall’autorità portuale). Oltre ad indicare il luogo di partenza e di arrivo, le fedi riportano generalità, caratteristiche somatiche e ogni dettaglio utile ad identificare il soggetto, comprese le merci e gli animali che porta con sé.
Il controllo avviene in corrispondenza dei “rastelli”; posti di blocco allestiti alle porte delle città o su confini territoriali, compresi ponti e porti. Le guardie o i civili delegati hanno il compito di accertare che il viaggiatore sia libero di circolare senza costituire pericolo di contagio. La vidimazione consente inoltre di tracciare il passaggio di ogni persona, permettendo quindi di ricostruire il percorso fatto su brevi e lunghe distanze. Lo stesso sistema è stato adottato in diverse città italiane e in Europa, dove oltre alle regole vengono imposte sanzioni molto severe, dalla prigionia alla pena di morte.
Quarantene e igienizzanti fai da te
Nel XVIII secolo la peste bovina è materia di studio per gli illustri medici dell'epoca, tra cui il romano Giovanni Maria Lancisi (1654-1720) che partecipa alla stesura di un decalogo sulla gestione dell’emergenza. Tra le misure anti contagio ritenute più drastiche ma efficaci, Olivi riporta l’obbligo di abbattere gli animali malati e l’isolamento di allevamenti e persone, con relativa “contumacia”, o quarantena (fissata a 21 giorni per gli animali). A norme e decreti si affianca una severa profilassi sanitaria, spesso condotta con metodi un po’ empirici. Come sottolinea il funzionario trevigiano, «li nostri con attenzione incredibile hanno provato tutto ciò che l’industria e l’ingegno de gli uomini poter somministrare al grande pericolo».
Senz'altro non era semplice comprendere le cause della malattia né la sua trasmissione, ma «vedendo che l’alito de l’uno portava conseguenze mortali su la vita dell’altro», si diffondono vere e proprie “ricette” a base di erbe, vino ed essenze per tentare di arginare o scongiurare il contagio. Tra gli esperimenti più interessanti, l’utilizzo di “odorosi e frequenti profumi”, come bacche di ginepro, incenso e storace, una resina vegetale. L’efficacia è tutta da dimostrare, al punto che «una infinità d’altri mali rimedii furono inventati al capriccio o dalla disperazione de’ gli uomini».
“Mascherine” e igiene
La strage di bestiame crea non pochi problemi per la sussistenza dei territori del nord Italia, basata su agricoltura e allevamento. Senza la forza lavoro dei buoi i terreni restano incolti: chi può utilizza i cavalli, ma la paura del contagio «ha messo gli uomini alla disperazione di condurre l’aratro a costo delle loro braccia». Chi ancora possiede animali in salute, deve comunque ingegnarsi per garantire il transito in sicurezza dalla stalla al terreno. Tra le soluzioni più fantasiose – ma estremamente attuali – Olivi cita i “musaroli”, speciali museruole realizzate con giunchi leggeri e “armate” all’interno con sottili panni “macchiati di pece nautica” e una miscela di erbe medicinali. Utilizzate durante gli spostamenti degli animali, consentirebbero ai contadini di condurre i buoi ai campi attraversando strade e aree pubbliche senza incorrere in pericoli o sanzioni. La profilassi si estende al boaro, che in caso di contatto con animali infetti deve “lavarsi ben bene le mani” e cospargerle di aceto, quindi profumare gli abiti “con solfo o pecce o altre erbe odorose. In mancanza di queste, si consiglia di passare «ben più volte con gli abiti stessi sopra un picciolo foco fatto con paglia e fieno».
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Peste bovina in Olanda nel XVIII secolo
Foto: Pubblico dominio
La diffusione rapida e l’alto tasso di mortalità della peste bovina hanno durissime ripercussioni economiche e sociali. L’allevamento e la vendita di bestiame rappresentano un’importante fonte di guadagno e sostentamento per la repubblica di Venezia, che può contare sugli ampi possedimenti in terraferma per la fornitura di carne e cereali. L’abbattimento degli animali malati, le ripetute “serrate dei villaggi” e la sospensione dell’attività nelle “beccarie” costano cari ai territori sotto il dominio della Serenissima. A ciò si aggiungono gli oneri degli interventi igienico-sanitari per mettere in sicurezza le stalle ed eliminare i resti degli animali uccisi dalla peste, come imposto dai provveditori alla sanità. Il bisogno di controllo porta il governo veneziano ad inviare sindaci inquisitori in terraferma con l'ordine di verificare il rispetto di regole e provvedimenti. In città come Treviso, viene scelta «una persona benestante pratica della villa» per assicurare l’applicazione dei decreti e la buona esecuzione delle pratiche sanitarie.
L'unica via
Sopralluoghi e controlli al confine si riconfermano nel tempo misure discretamente efficaci per contenere il contagio, ma non sufficienti ad evitare l’arrivo di nuove ondate più o meno acute nel corso degli anni successivi. La speranza che «colla mutazione della stagione dovesse svanire tutta l’apprensione di questo incomodo» sfuma man mano che le segnalazioni di contagio raggiungono l’ufficio di sanità in cui Olivi opera. Il deputato trevigiano fa appello alla prudenza: l'uso delle fedi di sanità e la separazione tra soggetti sani e potenzialmente infetti costituiscono l’unica via percorribile, sebbene sia una «precauzione più facile da raccomandare e da imporre che da rispettare».
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